Luca Serianni, storico della lingua italiana, accademico dei Lincei e della Crusca, è morto dopo essere stato investito da un’auto lunedì 18 luglio, mentre attraversava la strada sul litorale romano di Ostia. Serianni, che aveva 74 anni, ha insegnato in diverse università e ha chiuso la sua carriera accademica alla Sapienza di Roma nel 2017. Lo ha fatto con una lezione di congedo tenuta davanti a centinaia di persone, colleghi, ex allievi, amici, ma soprattutto davanti ai suoi studenti che affollavano l’aula I della facoltà di lettere. E ha chiuso la prolusione rivolgendosi a questi ultimi: “Sapete che cosa rappresentate per me? Immagino che non lo sappiate. Voi rappresentate lo stato”.
Si è espresso così senza accenti enfatici, anzi abbassando la voce e tenendo gli occhi fissi sul foglio dove aveva appuntato il suo discorso. È rimasto fedele al suo stile compassato anche in una circostanza emotivamente coinvolgente per chi all’essere insegnante ha dedicato tanto impegno quanto all’essere studioso di assoluta e riconosciuta qualità. L’unica breccia nel suo profilo austero Serianni l’apriva per farvi passare una controllata ironia giocata sul registro del professore apparentemente serioso e invece amabile, disponibile alla parodia pur di rendere accessibile il suo sapere.
Voi rappresentate lo stato, detto ai suoi studenti, fornisce anche l’idea che Serianni coltivava di una comunità e in particolare di una comunità linguistica, di una comunità dei parlanti. È una comunità che riconosce le regole e che fa riferimento a un codice. Ma è una comunità aperta e lo scopo fondamentale dei suoi membri è capirsi reciprocamente. Le norme e il loro rispetto consentono questa relazione, ma poi è importante anche il modo in cui si usano le norme, compreso il fatto che possono cambiare con il tempo, perché è sempre la comunità dei parlanti a decidere come dev’essere una lingua.
Serianni si sottraeva elegantemente quando qualcuno voleva ergerlo a giudice severo di una lingua italiana considerata ormai disfatta. E se come parametro si usava la presunta scarsa frequenza del congiuntivo, lui, dati alla mano, mostrava che non era affatto scarsae che, anche limitatamente alla lingua parlata, dopo “io spero” era difficile che anche in una chiacchierata non comparisse un verbo al congiuntivo.
Orientarsi nel mondo
Allievo prima di Arrigo Castellani, poi di Ignazio Baldelli, che lo vuole come assistente nella cattedra di storia della lingua italiana, Serianni diventa ordinario nel 1980. La sua produzione scientifica è vasta. Fin dalla metà degli anni settanta si cimenta con la lingua letteraria del duecento e del trecento, poi lavora sulla grammatica storica. Le sue lezioni sono basate su affondi nell’evolversi dell’italiano sempre sostenuti dall’analisi di testi ed esaminando sia le trasformazioni della lingua sia le trasformazioni della società italiana verificabili attraverso la lingua.
Contemporaneamente l’attenzione degli allievi è però richiamata sul ruolo che la lingua svolge nel promuovere consapevolezza, senso di orientamento nel mondo, cultura diffusa. Come può avvenire questo? Con l’ampliamento graduale del proprio vocabolario, con l’arricchirsi della sintassi, con il confronto di una lingua con un’altra, compreso il proprio dialetto, con l’adattarsi della lingua a un contesto specifico, con il ragionare sulle differenze tra lingua scritta e lingua parlata.
Serianni guarda con scrupolo alla formazione linguistica e dunque ai compiti della scuola. Nelle sue lezioni e poi in un libro del 2010, L’ora d’italiano (Laterza) contesta che sia il tema lo strumento migliore per abituare i ragazzi alla scrittura. Consente di migliorare la padronanza della lingua, ma non limita la tentazione di andare a ruota libera. Lui aggiunge di “sbrodolare”.
È il riassunto, invece, la regina delle prove, perché impone di capire un testo, di mettere in ordine gerarchico le sue parti, dalla più importante alle meno importanti, e di dire con altre parole quello che c’è nel testo. Va bandito, insiste Serianni, l’eccesso di grammaticalismo, tipico della classica versione di latino, del tutto priva di riferimenti a un contesto. E invece il latino serve nella sua storicità, dando importanza al suo lessico, al significato delle parole, in raffronto costante con l’italiano.
La chiarezza dell’argomentare spinge Serianni fuori dai recinti accademici. È consulente del ministero dell’istruzione per i programmi scolastici e susciterà qualche polemica il suo suggerimento di eliminare dalle prove scritte per la maturità il tema di carattere storico (scelto, per altro, da una minoranza assoluta di studenti). Si moltiplica la sua produzione scientifica.
Tra il 1993 e il 1994 cura insieme a Pietro Trifone una Storia della lingua italiana in tre volumi, che si affianca all’einaudiana Letteratura italiana diretta da Alberto Asor Rosa. Verranno poi, tra gli altri, Prima lezione di grammatica (Laterza 2006), Leggere, scrivere, argomentare. Prove ragionate di scrittura (Laterza 2013), Il sentimento della lingua (conversazione con Giuseppe Antonelli, il Mulino 2019), Il verso giusto. 100 poesie italiane (Laterza 2020) e infine Parola di Dante (il Mulino 2021), in cui ragiona, smontandola, sulla presunta alterità della lingua della Commedia rispetto all’italiano di oggi.
Serianni dentro e fuori dalle aule universitarie, con i suoi libri, gli incontri pubblici e le interviste, si mostra custode ragionevole di una qualità della lingua e bandisce tanto le sciatterie quanto le visioni apocalittiche. Sono troppi gli anglicismi? Sono l’uso dei parlanti e dunque il tempo lungo di una lingua ad accettare quelli ammissibili e a scartare quelli inammissibili.
Lo stesso vale per i neologismi. Piuttosto è lesivo del diritto di chiunque a capire cosa esige una pubblica amministrazione il fatto che questa infarcisca la comunicazione con parole inglesi o, peggio, con malaccorte traduzioni. Ma non è un dramma per chi, come Serianni, sostiene che non è la norma a fare l’uso, ma l’uso a fare la norma.
Parlando ai suoi studenti il giorno in cui ha lasciato l’università - era un’afosa mattina del giugno 2017 - Serianni ha ricordato i suoi maestri e quella regola alla quale si è sempre attenuto con gli allievi, vale a dire di riconoscerne le qualità senza forzarne le inclinazioni di studio e di ricerca. A patto però, ha aggiunto indirizzando lo sguardo complice verso i ragazzi, che, sia che privilegiassero la linguistica storica, sia che si orientassero verso quella testuale, quella letteraria o verso la sociolinguistica, si attenessero a un obbligo inderogabile: quello di usare l’accento acuto sul sé di sé stesso. Una sua radicata e proverbiale concessione al grammaticalmente corretto.
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