L’Italia possiede più di cinquecento aerei militari: ognuno di loro in un’ora di volo consuma mediamente 10-12mila litri di combustibile generando in un anno 642mila tonnellate di anidride carbonica equivalente, “un valore paragonabile alle emissioni di un processo quale la produzione di vetro in Italia nello stesso anno. A livello nazionale, gli aerei militari contribuiscono per circa lo 0,17 per cento delle emissioni totali”. L’aviazione civile è ritenuta responsabile di circa il due per cento delle emissioni di anidride carbonica.
Gli aerei militari generano molti inquinanti dannosi e pericolosi come il metano e gli ossidi di azoto. Oltre agli aerei, ci sono chiaramente le navi, i mezzi di terra (carri armati, blindati), le strutture militari e, soprattutto, “un altro aspetto che bisogna tenere in considerazione è quello della produzione delle armi, il cui impatto sul clima potrebbe superare quello del ministero della difesa”, ricorda Francesco Vignarca dell’osservatorio Mil€x.
Dal Protocollo di Kyoto del 1997, le emissioni dovute alle attività militari sono state escluse dai negoziati sul clima, un’omissione non colmata neppure dagli accordi di Parigi del 2015: ancora oggi i paesi non sono obbligati a comunicare una parte delle emissioni prodotte (possono farlo su base volontaria). È il caso, tra l’altro, delle azioni compiute a livello internazionale: “Le operazioni multilaterali, come quelle che riguardano la Nato, non sono dichiarate o conteggiate nel nostro totale nazionale”, spiega Daniela Romano dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), tra le responsabili dell’Inventario delle emissioni italiane.
In questo documento, nel quale sono calcolate e catalogate tutte le emissioni di gas serra generate in Italia divise per settore, si trovano dei dati sul fenomeno, ma sono cifre abbastanza trascurabili, soprattutto per via di questa difficoltà. “Stimiamo le emissioni del settore militare partendo dai dati del bollettino petrolifero del ministero per le Imprese (Mise) e analizzando quindi il consumo di carburante per calcolare i gas serra generati”.
Nell’inventario nazionale delle emissioni, la produzione delle armi rientra nei settori della manifattura e dei processi industriali, responsabili complessivamente di quasi il venti per cento delle emissioni nazionali di anidride carbonica. Non possiamo da questo ricavare l’esatto impatto sul clima della sola industria delle armi, ma i soldi spesi dall’Italia sono sicuramente un buon indicatore: “Per il 2023 la previsione di spesa militare italiana è di 26,5 miliardi di euro, di cui 8,2 miliardi per l’acquisto di nuove armi”, secondo Mil€x. Siamo di fronte a un aumento del dieci per cento, una tendenza purtroppo consolidata negli ultimi anni”. Per fare un confronto, il Piano nazionale di ripresa e resilienza ha stanziato 4,38 miliardi di euro per “la gestione sostenibile delle risorse idriche” e “la tutela e valorizzazione del territorio e della risorsa idrica”.
Considerando la scarsa efficienza dei mezzi militari (l’Ariete, il principale carro armato dell’esercito italiano, ha bisogno di 4-5 litri di gasolio per ogni chilometro percorso), l’abbondante produzione di armi e la quota di operazioni non dichiarate (in Italia ci sono decine di strutture e basi Nato o statunitensi), si arriva plausibilmente alla cifra stimata dallo studio Decarbonize the military — mandate emissions reporting.
Secondo questa ricerca, pubblicata sulla rivista scientifica Nature lo scorso novembre da un gruppo di ricercatori britannici, il comparto militare genera tra l’1 e il 5 per cento delle emissioni di gas serra totali nel mondo. Un’altra ricerca guidata da Oliver Belcher, tra i massimi esperti del tema, nel 2019 aveva provato a calcolare l’impatto dell’esercito degli Stati Uniti sul clima, arrivando a definirlo “uno dei più grandi inquinatori climatici della storia, che consuma più combustibili liquidi ed emette più anidride carbonica equivalente della maggior parte dei paesi”. In base a quello studio, se il Pentagono fosse uno stato sarebbe il quarantasettesimo nella classifica globale per le emissioni, e questo considerando solo l’utilizzo di carburante da parte dei mezzi dell’esercito.
Non possiamo paragonare la forza militare statunitense a quella italiana, ma non bisogna dimenticare che il nostro rimane uno degli eserciti meglio equipaggiati del mondo. Nel Military strength ranking 2023 di Global firepower – che classifica gli stati in base alla potenza di fuoco – l’Italia è decima, grazie a un arsenale di 850 velivoli, 313 unità navali e oltre 68mila mezzi di terra, di cui 313 carri armati (gli Stati Uniti, l’esercito più potente al mondo, hanno circa 13.300 velivoli, 484 unità navali e oltre 300mila veicoli, di cui 5.500 carri armati). Per muovere tutti questi mezzi, soprattutto nelle esercitazioni, sono consumate tonnellate di combustibili fossili spesso non considerate nel totale delle emissioni nazionali.
A partire dalla ricerca del 2019 il sito Militarimissions.org mette insieme i dati sulle emissioni militari di tutti i paesi del mondo, nel profilo italiano parla di “significant gap in reporting” (divario importante nella trasparenza) e definisce “scarso” l’accesso ai dati. L’unica cifra disponibile rimane quella sui mezzi militari riportata dall’inventario nazionale delle emissioni, quelle 642mila tonnellate di anidride carbonica equivalente che non tengono conto delle missioni internazionali.
“Ai paesi della Nato chiediamo una stima veritiera delle emissioni dei ministeri della difesa e delle forze armate, che comprenda tutto”, chiede Vignarca. “Poi vogliamo che le aziende italiane che producono armi diano una valutazione stringente della loro impronta ecologica, e che tutti questi dati siano raccolti da uno studio pubblico o da un’indagine parlamentare. Ormai è chiaro che qualsiasi percorso di pace e disarmo deve per forza tenere in considerazione il clima. Serve un ripensamento globale di cosa sia la sicurezza, delle priorità sulle minacce da affrontare”.
Per il momento le prospettive di cambiamento sono abbastanza vaghe. Per esempio il sito della marina militare ha una sezione abbastanza approfondita sugli impegni ambientali, ma per quanto riguarda la transizione energetica dei suoi mezzi è tutto più indefinito. Il primo pilastro del piano flotta verde della marina militare è l’uso dei cosiddetti combustibili alternativi: per esempio un diesel “verde” sviluppato nel 2013 insieme con l’Eni (la principale azienda del carburante fossile italiano).
Questo carburante verde può essere miscelato con i combustibili fossili ed è prodotto con “olio di palma sostenibile” (un’altra contraddizione, perché le piantagioni di palma da olio sono uno dei principali fattori di deforestazione nei paesi tropicali). Quindi di fatto il combustibile verde sostituisce solo in piccola parte l’impiego di un combustibile fossile con del materiale organico, con esiti sulle emissioni abbastanza scarsi, come dichiarato dalla stessa marina militare: si tratta infatti di una riduzione del 6 per cento delle emissioni di ossidi di azoto, secondo quanto emerso dalle prime sperimentazioni.
Il green e il bio diesel sono ottenuti con processi dannosi per l’ambiente e alla fine devono essere miscelati al gasolio normale. La loro utilità è stata messa in discussione dagli ambientalisti: nel 2020 Legambiente, commentando una multa data dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcom) a Eni, parlava di “inganno del green diesel”. Gli altri due “combustibili alternativi” su cui sta lavorando la marina sono il gas naturale (che pur inquinando meno del petrolio è comunque un combustibile fossile) e l’idrogeno, impiegato per alimentare i sottomarini, senza tuttavia specificare se si tratti di idrogeno verde (prodotto con energia da fonti rinnovabili). L’ufficio stampa della marina militare non ha voluto rilasciare dichiarazioni in merito.
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