Questo articolo è uscito il 5 marzo 2022 a pagina 22 del numero 17 dell’Essenziale. Puoi abbonarti qui.
Nei primi trent’anni del novecento, quelli della fortuna e della crisi dell’Italia giolittiana, del primo conflitto mondiale, dei dibattiti sul suffragio femminile e dell’inizio del regime fascista, cominciò e proseguì, per diciott’anni, un andirivieni postale del tutto originale: quello di una rivista mensile manoscritta chiamata Lucciola.
Le redattrici, che erano al contempo anche le lettrici, erano tutte giovani donne di “buona famiglia”, colte, raffinate ma rinchiuse nel silenzio e nell’isolamento della vita domestica di provincia.
Lucciola fu il loro “intellettuale salotto ambulante” e rappresenta oggi una fonte preziosa e piuttosto rara sul pensiero femminile (e a tratti femminista) della classe borghese e alto borghese del tempo. Dei 115 fascicoli ritrovati, tutti in un unico esemplare, 107 sono conservati presso la Società letteraria di Verona, che li ha digitalizzati e resi consultabili.
Un calamaio e una risma di fogli
C’è una foto, dei primi del novecento, in cui si vede la fondatrice di Lucciola: Lina Caico. Una giovane donna è seduta accanto a un muro imbiancato di calce. Ha scarpe grosse e polverose, capelli raccolti in una crocchia e un abito semplice protetto da un grembiule, quasi a ricordare che nessuna, nemmeno la padrona o la figlia del padrone, poteva sottrarsi ai propri femminili doveri. È il 1908 e sulle ginocchia tiene un calamaio e una risma di fogli, il primo numero di Lucciola.
Lina Caico viveva a Montedoro, in provincia di Caltanissetta, con il padre Eugenio, un nobile proprietario di zolfatare, e con la madre Louise Hamilton, aristocratica francoirlandese, etnologa, fotografa, traduttrice e scrittrice.
Lina aveva trascorso la giovinezza tra Bordighera, Nizza, Montedoro e Londra. Aveva studiato in un college inglese, conosceva il francese, aveva tradotto l’opera del poeta indiano Rabindranath Tagore, premio Nobel per la letteratura nel 1913, e aveva una nutrita corrispondenza con molti intellettuali di inizio secolo, tra cui Ezra Pound.
Tornata in quel borgo sperduto e arretrato della Sicilia, decise di rompere l’isolamento intellettuale chiamando a raccolta altre donne lontane da lei ma che come lei, dopo aver studiato all’estero e aver fatto ritorno nella provincia dove si trovava la casa del padre o del marito, volevano sottrarsi al destino che le voleva unicamente dedite alla famiglia, ai figli e alla casa. L’arrivo mensile di Lucciola divenne per tutte loro, come scrisse Lina Caico, “un vero raggio di sole”.
Ispirandosi alle riviste femminili come Mouche volante, Parva favilla e Firefly, che in quello stesso periodo circolavano nei collegi femminili di Francia, Germania e Inghilterra, Lina Caico decise di proporre un progetto simile. Lo fece dalle pagine della Rivista per signorine fissando tutti i criteri della futura rivista: doveva essere, innanzitutto, manoscritta.
“L’essere manoscritto”, scrisse nella sua presentazione, “dapprima fa senso ai nostri occhi moderni, così abituati alla stampa: ma a lungo andare ci si affeziona a vedere ogni lavoro colla scrittura dell’autrice, le diverse scritture ci danno un po’ l’impressione di sentire la voce, di vedere l’espressione di ciascuna autrice, sicché quello che può parere un difetto finisce coll’essere considerato come un pregio”.
La sua richiesta ricevette un numero di adesioni ben superiore alle attese: furono ventiquattro, ma in breve tempo raggiunsero la quarantina, numero che venne poi giudicato efficace per il buon funzionamento della rivista.
Il piano di spedizione
Nel corso della vita di Lucciola, che dal 1908 proseguì fino al 1926 con una pausa di tre anni dovuta alla guerra, alcune redattrici abbandonarono, molte vi rimasero fedeli, altre si aggiunsero e qualcuna venne espulsa. Complessivamente, le adesioni furono più di centocinquanta. Tra i criteri di ammissione (era necessario inviare uno scritto che una speciale commissione avrebbe valutato), la residenza aveva un peso particolare.
La volontà fu, da subito, quella di garantire una diffusa e variegata provenienza delle opinioni e delle esperienze, ma anche quella di coinvolgere le donne che vivevano nei luoghi più sperduti e arretrati. In alcuni particolari momenti ci furono corrispondenti da Tripoli o dalla Svizzera, alcune lucciole scrivevano dalle città, ma tantissime altre dai paesi di tutta la penisola, da Montedoro alla Val di Scalve, in provincia di Bergamo.
L’abitare lontane comportò l’elaborazione di un piano di spedizione piuttosto complesso: la direttrice acquistava il quaderno e lo spediva alla redattrice della provincia più vicina che inseriva il proprio contributo e poi rispediva il fascicolo alla lucciola a lei più prossima.
In ciascun luogo, il quaderno poteva sostare al massimo due giorni, pena la multa o l’espulsione della redattrice. In questo primo viaggio, veniva composta la prima parte del manoscritto: i testi, conclusi o a puntate, potevano essere racconti, poesie, pagine di diario, descrizioni o reportage quasi giornalistici su avvenimenti importanti e vissuti in prima persona, come il crollo della diga del Gleno del 1923, in val di Scalve, o la costruzione del ponte ferroviario sul Po tra il 1907 e il 1911.
Ogni lucciola scriveva utilizzando degli pseudonimi, nonostante le lettrici fossero le autrici stesse. C’erano Asfodelo e Fulvetta, Lucciola forense e Oneira, Rosa sfogliata e Chiarezza, tra le altre. Lo fecero forse per ragioni di ritrosia, nata a sua volta da un mondo che chiedeva loro di nascondere costantemente intelligenza e creatività.
Ma per le lucciole che scelsero pseudonimi in forma di motto c’era anche il desiderio di farsi riconoscere, di alludere alla propria indole più profonda e segreta: Gina Frigerio, l’ultima direttrice di Lucciola, si firmava ad esempio con v.f.s., acronimo di Veritate, Fortiter, Suaviter (“per la verità, con più forza e più dolcezza” in latino).
Al progetto di Lucciola parteciparono anche alcuni uomini. Appartenevano alla cerchia familiare delle redattrici, erano fratelli o cugini, e furono una quindicina in tutta la storia della rivista: “Ma questo non scalfì mai il segno di genere del progetto”, spiega Daniela Brunelli, presidente della Società letteraria di Verona e custode della rivista.
Ciascun manoscritto, composto in media da trecento pagine numerate dalla direttrice dell’annata, che provvedeva alla rilegatura e alla composizione degli indici, veniva via via impreziosito anche da un ricco corredo iconografico: piccoli dipinti eseguiti con varie tecniche, schizzi, disegni, ricami, lavori all’uncinetto, stampe, fotografie, cartoline che accompagnavano gli articoli di attualità.
E poi le copertine, che erano ricamate a mano o impresse a fuoco sul velluto; i frontespizi, che erano disegnati secondo gli stili delle avanguardie dell’epoca; e le decorazioni interne, fatte di sete, velluti o paglia intrecciata.
Ogni fascicolo si apriva con un indice della parte letteraria, seguito dall’indice della parte artistica. Il primo articolo era sempre l’editoriale, dove la direttrice comunicava gli avvenimenti della comunità lucciolesca, nascite, matrimoni, morti e riassumeva brevemente i contenuti dei testi pubblicati.
All’editoriale spesso seguivano un resoconto amministrativo (ciascuna redattrice contribuiva alla spese di gestione della rivista), una tabella con la data e l’ora del ricevimento e della spedizione del fascicolo, e quella dei voti in cui ogni lucciola doveva giudicare il contributo letterario o artistico che aveva trovato più interessante.
Come nelle riviste a stampa, c’erano concorsi letterari e artistici (il premio consisteva in un libro), c’erano rubriche ricorrenti come quella del referendum (nel primo, per esempio, si chiedeva: “Quale virtù stimate più in un uomo e quale in una donna, e perché?”) e c’era la sezione dei libri consigliati dove, accanto ai titoli e all’elenco degli autori e delle autrici, venivano spesso riportate citazioni di testi in lingua originale, a testimonianza dell’alto livello culturale condiviso da questa comunità.
Il meccanismo con cui Lucciola prendeva corpo era lentissimo e, mentre un manoscritto viaggiava, quello successivo era già partito: un fascicolo impiegava mesi per fare un giro e ne impiegava altrettanti per farne un secondo e permettere così, a ciascuna redattrice, di leggere il contributo di tutte e di annotare, sui fogli bianchi della seconda parte della rivista, commenti, domande e critiche che sempre, come scrisse una delle lucciole, dovevano essere guidate da schiettezza, spontaneità e franchezza.
In questa seconda sezione, quella delle cosiddette Osservazioni, attorno a un commento centrale e più esteso, le annotazioni si rincorrevano fitte tutt’intorno, trasformando le pagine finali della rivista nell’immagine grafica e concreta del dialogo a distanza tra donne.
Il dibattito sociale del tempo
Con il trascorrere del tempo, da voci sconosciute le lucciole divennero sorelle di penna. Alcune si incontrarono di persona e allacciarono un’amicizia duratura che in alcuni casi divenne una convivenza.
I temi affrontati nella rivista erano quelli politici e sociali del tempo, legati soprattutto alla condizione femminile e alla minorità culturale e giuridica delle donne ancora sottomesse all’autorità maritale. Discussero di abolizione della prostituzione, di educazione femminile, di pedagogia, di maternità.
E agli inizi della prima guerra mondiale anche di interventismo e pacifismo, di femminismo e voto alle donne. Fu questo uno degli argomenti più divisivi e sul quale vennero espressi molti dubbi e incertezze: “La politica femminile dovrebbe limitarsi alle pareti domestiche”, scrisse qualcuna.
“Bisogna darglielo questo potere: potrà magari sbagliare nell’esercitarlo, a tutta prima, ma via magari gli uomini qualche volta sbagliano…”, rispose qualcun’altra. Sulla questione delle limitazioni della condizione matrimoniale si trovarono più concordi, così come sulla necessità di essere impegnate, come si addiceva a una donna del loro rango, in un lavoro sociale.
Paola Lombroso, figlia del frenologo Cesare, già fondatrice del Corriere dei Piccoli e che su Lucciola si firmava con lo pseudonimo di zia Mariù, fu ad esempio la promotrice della nascita e della diffusione delle “Bibliotechine rurali”, con lo scopo di fornire libri alle scuole più disagiate di tutta Italia e favorire l’alfabetizzazione. Da lei sollecitate, molte altre lucciole fecero del progetto uno dei loro principali impegni filantropici.
Anche se le redattrici della rivista si mantennero all’interno del femminismo cattolico e furono sempre meno radicali delle femministe emancipazioniste dell’epoca, le loro discussioni le avviarono sulla strada di una nuova coscienza di sé. Dopo una pausa durante gli anni della guerra, causata dal malfunzionamento delle poste, Lucciola cambiò formato: da quaderno divenne un album composto da fogli rigati e marginati di uso commerciale. Ma la trasformazione più significativa fu soprattutto nella sensibilità delle lucciole stesse.
Il tempo era trascorso, non erano più ragazze, ed erano reduci dai drammi della guerra. Dai loro scritti cominciò a emergere come, mentre gli uomini erano al fronte, molte avessero dovuto assumere nuovi compiti e come questo portò all’acquisizione di una diversa consapevolezza di genere: le loro voci cominciarono a tratteggiare il fragile equilibrio fra lavoro e nuove responsabilità da un lato, e una maggiore consapevolezza, libertà e rivendicazione dei diritti, dall’altro.
Alla fine, prima che l’ultima direttrice, nel 1926, considerasse conclusa l’esperienza di Lucciola, fu la politica a dividere le redattrici. Qualcuna si infiammò per il fascismo, e altre vi si opposero facendo un commosso elogio di una festa da poco abolita, quella del Primo Maggio che, dissero, guardava all’avvenire e non al passato come il fascismo stesso.
Il corpo più cospicuo di fascicoli di Lucciola, 107 su 115, è conservato oggi presso la Società letteraria di Verona, alla quale fu donato nel 1991 attraverso la mediazione di Francesco Monicelli, ex bibliotecario, dagli eredi di Gina Frigerio, l’ultima direttrice.
Prima della donazione, sei fascicoli erano già stati venduti a un antiquario milanese e acquistati dalla storica Annarita Buttafuoco, che li depositò presso l’Unione femminile nazionale di Milano. Altri due manoscritti appartengono invece a un collezionista privato.
Un patrimonio da conservare
Dagli indici e da alcuni articoli della rivista, dice Brunelli, “si deduce che ci sono molti altri fascicoli a noi sconosciuti, per questo è ipotizzabile che alcuni possano essere andati perduti o che si trovino ancora da qualche parte”.
Si ha anche notizia di altre riviste nate da Lucciola stessa e per volere delle sue redattrici: la Lucciola Braille, per rendere accessibile la rivista alle donne non vedenti, e Lucciolina, una versione per minori di 17 anni. Di nessuno di questi progetti si ha però testimonianza.
Negli anni novanta la Società letteraria di Verona ha promosso diverse iniziative per valorizzare le riviste, due mostre e un libro intitolato Leggere le voci, a cura di Paola Azzolini e Daniela Brunelli, dove è riportata anche un’ampia selezione antologica dei testi contenuti nei manoscritti.
Nel 1998 i fascicoli di Lucciola vennero riconosciuti un bene culturale dalla Sovrintendenza archivistica per il Veneto, e successivamente l’archivio di Stato di Verona poté procedere alla loro microfilmatura e conversione in digitale, che oggi ciascuno e ciascuna può consultare.
Ora, conclude Brunelli, sarebbe necessario un nuovo investimento per sostenere degli interventi di restauro conservativo:“almeno sui fascicoli che presentano danni chimici dovuti all’acidità dei supporti cartacei, degli inchiostri e altri danni di natura meccanica presenti, in particolare, nelle cuciture”.
Questo articolo è uscito il 5 marzo 2022 a pagina 22 del numero 17 dell’Essenziale. Puoi abbonarti qui.
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