A partire dal primo luglio, per la prima volta nella storia dello sport italiano ci saranno delle atlete professioniste. A fine aprile la Federazione italiana giuoco calcio (Figc) ha infatti completato le modifiche normative per consentire il passaggio al professionismo della serie A femminile. In molte e molti hanno parlato di un risultato storico. Altre e altri hanno però sottolineato come purtroppo questo successo non rappresenta una vittoria per lo sport italiano in generale, perché nella maggior parte delle discipline, e in tutte quelle femminili a eccezione del calcio, ogni cosa resterà esattamente come prima.
Le atlete che non giocano a calcio in massima divisione, gli atleti che non giocano a calcio, basket, golf o che non fanno ciclismo su strada, e le operatrici e gli operatori che lavorano da professionisti nello sport, continueranno a essere considerati formalmente dilettanti, e dunque senza tutele e garanzie contrattuali, sebbene in alcuni sport come la pallavolo alcuni atleti arrivino a guadagnare cifre anche molto consistenti.
All’interno della differenza più ampia tra chi è già, o sarà a breve, professionista e chi non lo è, continueranno inoltre a persistere altre discriminazioni: alcune colpiscono sia uomini sia donne all’interno della stessa disciplina, per la quale il professionismo non è previsto. Altre riguardano solo le donne, che per ora resteranno dilettanti anche in quegli sport in cui gli uomini sono professionisti. E altre ancora coinvolgono chi pratica discipline escluse dai gruppi sportivi militari: gruppi che, se rappresentano, come dichiarato dall’ex schermitrice e attuale sottosegretaria allo sport Valentina Vezzali, “la spina dorsale del movimento sportivo italiano”, sono però fonte di sicurezza per il futuro solo per alcune atlete e per alcuni atleti.
Un sistema discriminatorio
Il professionismo sportivo italiano è regolato dalla legge 91 del 1981 che rimanda il riconoscimento del professionismo alle singole federazioni: non dipende quindi dalla prestazione resa ma dalla volontà del datore di lavoro. Questa distinzione, totalmente slegata dalla natura dell’attività svolta, ha creato un sistema discriminatorio: esclude infatti tutti i casi di professionismo di fatto, ossia gli atleti, le atlete e le altre figure dello sport che, pur facendo un vero e proprio lavoro in termini di tempo, continuità, modalità di svolgimento, subordinazione alle direttive gerarchiche, restano inquadrati come dilettanti unicamente per decisione delle federazioni a cui appartengono.
In Italia sono la maggior parte. Solo quattro federazioni sportive nazionali su quarantacinque hanno deciso di riconoscere il professionismo nelle rispettive discipline: il calcio fino alla Lega Pro, il golf, il basket (solo in serie A) e il ciclismo su strada, ma tutte solo nella loro versione maschile. Dal prossimo campionato si aggiungeranno anche le calciatrici di serie A. C’è poi la recente decisione della federazione italiana rugby di stipendiare 25 giocatrici con contratti annuali di collaborazione sportiva. Finora nel rugby, sport in cui nella classifica mondiale la nazionale femminile è più in alto di quella maschile, le atlete della nazionale ricevevano al massimo rimborsi o borse di studio.
Essere professionisti e professioniste significa avere un rapporto di lavoro riconosciuto e regolamentato dalla legge. All’interno del nostro ordinamento il concetto di attività sportiva dilettantistica non è invece disciplinato da norme. Perciò è più facile dire cosa non è, che dire quel che è.
“Ad alti livelli, la differenza tra dilettanti e professionisti dipende dall’inquadramento lavorativo. La totale assenza di tutele di sportive e sportivi che vengono considerati dilettanti, ma non lo sono, è di fatto l’unico aspetto che li distingue dai professionisti”, dice Luisa Rizzitelli, presidente e fondatrice di Assist, associazione che lotta per i diritti delle donne nello sport da oltre vent’anni. Spiega che dare una dimensione al dilettantismo non è facile, ma che le stime fatte dalla Cgil sulla base della grandezza e dei numeri delle società e delle associazioni iscritte al registro istituito dal Coni parlano di oltre un milione di persone.
L’assenza di una disciplina legislativa organica nel settore dello sport dilettantistico ha favorito il proliferare di situazioni di precarietà strutturale, di lavoro spesso sottopagato e invisibile: chi resta formalmente dilettante non ha tutele sanitarie, assicurative, previdenziali, o trattamenti salariali adeguati. Non avrà quindi la possibilità di accedere a un fondo pensionistico, non riceverà un trattamento di fine rapporto, né l’accesso a prestazioni di tutela quali malattia o infortunio.
“Se non sei un professionista o una professionista”, spiega ancora Rizzitelli, “semplicemente non hai diritto a un contratto. Stipulerai una scrittura privata in cui non avrai alcun potere di negoziazione sulle condizioni e secondo la quale i compensi ti saranno elargiti sotto forma di rimborsi e di accordi basati su consuetudini di natura privatistica. Non potrai quindi godere di diritti e tutele elementari facendo, di fatto, un lavoro sommerso”. Ma Rizzitelli fa anche notare che oggi la situazione è forse ancor più grave rispetto al passato perché si è abbassata l’età dell’impegno professionistico, diventando dunque quest’ultimo incompatibile con la frequenza scolastica e universitaria e con la creazione di una base per il proprio futuro oltre lo sport.
All’interno del sistema discriminatorio che separa professionisti da dilettanti, ci sono poi discipline dove il professionismo è riconosciuto solo ai maschi, e dove essere donne risulta di fatto un’aggravante. Il basket, per esempio.
Stefania Passaro oggi fa la consulente finanziaria e dice di aver iniziato a esistere per l’Inps, il principale ente previdenziale del sistema pensionistico pubblico italiano, dopo i trent’anni. Passaro è entrata nella nazionale italiana di basket a 16 anni, ha vinto 10 scudetti, 7 coppe dei campioni, 5 coppe Italia, ha giocato 178 partite in nazionale, ha partecipato alle Olimpiadi del 1992 e ha vinto medaglie ai campionati Europei. “Fin da giovanissima e per diciassette anni”, racconta, “il mio impegno è stato quello di una lavoratrice sportiva, tutto il mio tempo era dedicato a questo, e tutto il mio sostentamento economico derivava da questo. Dopo che mi sono ritirata non ho avuto niente: niente su cui fondare il mio futuro. E, se ti fai male o resti incinta, resti sola. Perdi subito tutto”.
Clausole antimaternità
A parte l’associazione Assist, non ci sono oggi molte sportive italiane che si siano esposte per ottenere la fine delle discriminazioni che subiscono. “È complicato che dall’interno si crei una lotta collettiva”, dice Passaro. “Lo sport”, aggiunge, “resta purtroppo un mondo di uomini che affidano posti di potere ad altri uomini e in cui permangono radicati stereotipi patriarcali. Chi gioca, poi, non si può permettere di perdere il poco che ha. Ciò che prevale è la paura”.
Quando le atlete sono definite dilettanti, ma nei fatti non lo sono, la prima e più evidente situazione di discriminazione si concretizza nel momento della gravidanza. La maternità diventa, per le società in cui sono tesserate, una condizione che porta all’immediata rescissione degli accordi.
Nel 2021 i giornali nazionali e internazionali raccontarono il caso della pallavolista Lara Lugli che giocava per il Volley Pordenone in B-1 di cui era anche capitana: quando comunicò alla società di essere incinta il suo “contratto” fu risolto unilateralmente. Un mese dopo ebbe un aborto spontaneo e quando chiese alla società il saldo dello stipendio dell’ultimo mese in cui aveva continuato a giocare e ad allenarsi regolarmente, la società rispose con un atto di citazione, ritirato successivamente grazie alle molte pressioni di Assist e a una campagna di indignazione sostenuta dai mezzi d’informazione italiani e internazionali.
Nell’atto di citazione la maternità della pallavolista venne definita un “grave inadempimento contrattuale”, si disse che “la squadra aveva avuto un calo di risultati”, che gli sponsor si erano ritirati e che il “comportamento” di Lugli aveva causato “un danno” pari almeno allo stipendio non corrisposto.
“Assist”, spiega Rizzitelli, “ha fatto una lunga battaglia contro le clausole antimaternità, ma ancora oggi e anche quando nelle scritture private non sono riportate nero su bianco, le atlete che lavorano nei club vanno comunque a casa se sono incinte, e senza alcun diritto. Dire che questo sia una vergogna, è il minimo”.
Per le calciatrici, il congedo di maternità è stato introdotto grazie al sindacato FIFPro: dal 2021 le società dei campionati femminili riconosciuti dalla Fédération internationale de football association (la Fifa, l’organizzazione che governa il calcio a livello internazionale) hanno dovuto garantire un minimo di quattordici settimane di congedo e un indennizzo pari ad almeno due terzi dei compensi stabiliti in precedenza. Per le società è stato inoltre stabilito l’obbligo di motivare in modo dettagliato le ragioni di eventuali rescissioni decise nel corso della maternità. Di nuovo, però, le tutele introdotte hanno rappresentato un livello appena minimo di protezione e valido solo per poche.
La mancanza di professionismo è tra i motivi per cui molti atleti e molte atlete si arruolano nelle forze armate (come ha raccontato l’Essenziale sul numero 23 del 24 aprile 2022). Grazie ai gruppi sportivi possono infatti continuare a fare il loro lavoro ottenendo tutele e stipendi.
Università e militarizzazione
Antonella Bellutti, due medaglie d’oro olimpiche nel ciclismo su pista, nel 1996 ad Atlanta e nel 2000 a Sydney, e prima donna in 107 anni a candidarsi nel 2021 alla presidenza del Coni, dice che gli atleti militari sono la conferma dell’esistenza di un problema strutturale nello sport italiano. “Abbiamo lo sport d’élite più militarizzato al mondo”, spiega, “ma questo non è né normale né giusto.
Bisognerebbe sviluppare altri modelli: rigenerare, ad esempio, i vecchi centri universitari sportivi dando così un reale impulso alla doppia carriera, in modo che l’atleta possa anche studiare e crearsi i presupposti per affrontare la vita una volta terminata la carriera sportiva. Anche nei casi più longevi l’esperienza agonistica finisce presto, e ci si deve riciclare in un’altra professione. Dettaglio non marginale, si deve creare anche un’altra identità”.
Non tutti gli sport possono godere del sostegno dei corpi militari, con la conseguente creazione di una discriminazione interna tra discipline. E sono discriminate anche le associazioni sportive che, faticosamente, si autofinanziano, trovano e crescono talenti (spesso grazie ad allenatori e allenatrici a loro volta volontari o forzatamente dilettanti) che sono poi costrette a lasciar andare perché non possono competere con le garanzie offerte dai gruppi sportivi militari.
Nel 2021 il consiglio dei ministri ha approvato cinque decreti legislativi per l’attuazione della riforma dello sport, presentata dall’allora ministro del secondo governo di Giuseppe Conte, Vincenzo Spadafora. I decreti prevedevano, tra le altre cose, il riconoscimento del lavoro sportivo.
Poco tempo dopo i presidenti di Federbasket, Federvolley e Figc scrissero una lettera aperta al nuovo presidente del consiglio Mario Draghi pregandolo di rinviare l’approvazione della riforma perché la nuova disciplina relativa al “lavoro sportivo” avrebbe comportato “gravi ripercussioni ai danni delle società”. Di fatto, dice Antonella Bellutti, “chiesero di scegliere tra la sopravvivenza e il rispetto dei lavoratori e delle lavoratrici dello sport che operavano per loro”.
Il costo del lavoro è il motivo per cui le federazioni e le società faticano a riconoscere il professionismo e a disciplinare il lavoro sportivo. “Lo sport”, dice ancora Bellutti, “è cioè l’ambiente universalmente decantato per il suo potenziale sociale, culturale, educativo, ma è anche l’unico settore in cui l’interesse del datore di lavoro e la sua capacità di sostenerne i costi prevalgono sui diritti e le tutele dei lavoratori e delle lavoratrici. In nessun altro settore il costo del lavoro legittima il non riconoscimento di un diritto”.
Per Rizzitelli, inoltre, l’argomento economico è un alibi: “Il problema della sostenibilità esiste, ma se un’azienda non può offrire a un lavoratore o a una lavoratrice dei diritti fondamentali, non è obbligata a utilizzarne le prestazioni. Troppo comodo chiedere doveri e non dare diritti”. Rizzitelli si chiede anche se il vero problema non sia il fatto che un sistema contrattuale regolare “porterebbe all’emersione di un sommerso che evidentemente fa ancora tanto comodo ai bilanci di alcuni club”.
Una questione di diritti
Il 4 maggio scorso il presidente del Coni Giovanni Malagò, dopo essersi complimentato con la Federcalcio, ha ribadito che il punto è economico: ha detto che il professionismo non può valere solo per le calciatrici e ha criticato il fatto che i fondi messi a disposizione dallo stato per lo sport professionistico femminile sono “insufficienti”.
Il Dipartimento per lo sport ha però risposto che il fondo è stato creato proprio per agevolare in generale il passaggio al professionismo negli sport femminili, che era accessibile a qualsiasi federazione, che non era dunque riservato solo al calcio femminile e che tale passaggio doveva essere fatto dalle federazioni stesse. Oltre al contributo governativo iniziale anche la sostenibilità futura che tale passaggio comporta dovrà essere a carico delle società.
In ogni caso, la buona notizia del riconoscimento del professionismo per le calciatrici di serie A porta con sé qualche rischio. Il primo è che si faccia passare per vittoria storica una sola battaglia vinta, ignorando che resteranno senza tutele decine di migliaia di atlete e atleti, di allenatrici e allenatori, di operatori e operatrici dello sport. “Eppure”, suggerisce Rizzitelli, “il criterio ce lo ricordano il diritto europeo e il diritto del lavoro: se ciò che fai è la tua attività reddituale prevalente, effettuata con continuità e diritti e doveri, vai trattata e trattato da lavoratrice e lavoratore. E questo, per le donne, non può accadere solo nel calcio”.
Inoltre, prosegue, “non ci si deve dimenticare di dire che la questione delle calciatrici è andata avanti solo e semplicemente perché questo progresso, favorito da indicazioni arrivate dall’estero, l’hanno voluto i datori di lavoro. Tuttavia, fino a quando a decidere se essere professionista o meno non sarà la natura della prestazione lavorativa, ma la volontà di chi ti ingaggia, non ci sarà mai parità: non ci saranno mai veri diritti”.
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