“Non prendertela”, è il consiglio dispensato da un conduttore tv a una giornalista sportiva molestata in diretta (un episodio di cui il branco si è poi occupato con grande impegno sui mezzi d’informazione e sui social network). Qualcuno ha visto in quella frase un richiamo amichevole a mostrare la professionalità o l’innata e femminina noblesse oblige, mentre altre e altri l’hanno letta come un invito, complice, alla mansuetudine. Poco importa difendere o accusare il conduttore. È importante, invece, leggere il sistema che sorregge le sue parole e trovare delle leve per scardinarlo. Con l’aiuto di alcune filosofe e militanti.
La rinuncia ad agire è una delle tattiche più efficaci per neutralizzare i femminismi. Ed è messa in campo con modalità che, prese tutte insieme, compongono le regole del delitto perfetto.
Quattro trucchi
La prima tecnica di annientamento, che in verità non richiede grandi talenti, è quella della reductio ad puellam, altrimenti detta “so’ ragazze”: “Studentesse e studenti dall’estetica artistica e l’aria divertita (…) intonano cori, ballano sotto il camion che guida il corteo, bevono birra, si godono un giorno di gita dai loro licei occupati”. Così la Repubblica ha raccontato le manifestazioni femministe contro la violenza di genere di novembre mentre centomila persone, comprese le e gli studenti dei licei occupati, portavano per le strade di Roma il peso della loro rabbia e dei loro corpi. Corpi che sono stati immediatamente riconfigurati come innocui da una narrazione paternalistica, che infantilizza le persone.
Il secondo trucco consiste nel far ricadere la colpa della mancata azione sulle donne stesse: o perché non fanno abbastanza o perché non sono abbastanza. “È possibile che in media, le donne manchino di quella aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi?”, si è chiesto lo storico Alessandro Barbero in un’intervista di cui si è parlato molto.
Barbero sembra essere placidamente convinto che la superiorità del genere a cui appartiene sia dovuta a un’innata e straordinaria forza che ad altre mancherebbe. Non ha idea, per dirla con la scrittrice francese Virginie Despentes, di quanto tutto sia stato invece meticolosamente organizzato perché il dispositivo funzioni esattamente in questo modo.
Il genere conta, è vero: non per determinismo biologico, ma perché anche il campo delle pulsioni è stato intrappolato in costruzioni sociali, aspettative e divieti di genere, e poi posto sotto sorveglianza da una critica sociale e culturale piena d’odio verso tutto ciò che non gli obbedisce. Non a tutte e non a tutti è concesso provare o esprimere le emozioni allo stesso modo, e se la rabbia nei maschi rinvigorisce le aspettative di genere, nelle donne le annulla. L’abbecedario della cosiddetta femminilità è fatto di arrendevolezza, remissività, pazienza, mitezza, timore, di “sorridi che sei più bella”.
In Odio gli uomini (Garzanti 2021), un libro di cui anche in Italia si è parlato malissimo perché non lo si è voluto capire, Pauline Harmange racconta che quando era bambina una compagna di classe le diede uno schiaffo davanti a tutti. Dopo un primo generale stupore, gli adulti presenti le consigliarono di dimenticare l’accaduto (altra versione del “non prendertela”): “Mai che mi sia venuto in mente di correrle dietro per restituirle lo schiaffo. Mi sono sentita umiliata e triste, perché era evidente che non le piacevo. Ma non ero arrabbiata”. Harmange dice di aver scoperto la rabbia tardi, quando è diventata femminista. Ma, aggiunge, “da quando ho cominciato ad arrabbiarmi, mi viene rinfacciato”.
Eccolo, il terzo trucco: dopo aver accusato le donne di non essere o non fare abbastanza si pretende che quando mettono in campo un’azione questa corrisponda a un galateo scritto da chi quell’azione l’ha causata. Se non sarai educata o sufficientemente pedagogica, allora le tue azioni e l’effetto della tua rabbia saranno giudicati in modo più severo di ciò che le ha causate.
La vernice rosa lanciata mesi fa dalle femministe di Non una di meno fuori dalla sede della Rai di Torino e dell’Ordine dei giornalisti ha suscitato indignazioni e condanne che non sono mai state riservate alle ragioni per cui quella vernice è stata lanciata: il fatto, cioè, che nei racconti dei femminicidi gli assassini diventano dei “giganti buoni” e le donne quelle che se la sono andata a cercare. Se alzerai la voce non meriterai ascolto. E figuriamoci sostegno nella lotta.
“Certo che è incredibile, e quantomeno moderno, che un dominante venga a piangere perché il dominato non ci sta mettendo del suo”, scrive Despentes. Naturalmente, dietro al “cosiddetto sesso forte che va continuamente protetto, rassicurato, curato, risparmiato”, c’è una totale deresponsabilizzazione.
Liquidare come fuori norma alcune azioni significa non riconoscere la violenza oggettiva che le ha causate. E voler mantenere il controllo delle conseguenze significa delegittimarne la matrice, per poi continuare a procedere dritti e senza impacci. Ma, come ci ricorda la poeta Audre Lorde, “nessuna donna ha la responsabilità di cambiare la psiche al suo oppressore”, né può “nascondere” la rabbia per non ferirne i sentimenti. È una specie di imperativo morale.
Da qualche parte ho letto che l’unica rabbia femminile socialmente tollerata è quella sfogata in cucina, cioè nel privato, e che non è casuale il fatto che le metafore legate alla rabbia attingano proprio dal campo semantico della gastronomia: la fai sbollire o la fai montare, a neve come un albume. Rendere accettabile la rabbia femminile esclusivamente come “sfogo” privato la trasfigura in qualcos’altro: nervosismo, suscettibilità, esasperazione, instabilità, isteria, pazzia. E la patologizzazione della rabbia – che è il nome di un’emozione ma anche di una malattia – ha riempito interi capitoli della storia della psichiatria, è stata usata per controllare le donne che trasgrediscono le regole.
C’è una cartolina di inizio novecento che mostra l’evoluzione di una donna che diventa suffragetta. A quindici anni è come un cucciolo da compagnia piena di boccoli, a venti è un po’ civetta, a quaranta non è ancora sposata e a cinquant’anni lotta per un suffragio davvero universale.
L’ultimo disegno ritrae una donna collerica, con gli occhi strabuzzati, un’ascia tra le mani e la bocca spalancata. La rabbia, che come malattia si può trasmettere dagli animali agli esseri umani, se nasce da una discriminazione e si usa per rivendicare un diritto rende mostruose, trasfigura la donna in una non-umana, una creatura feroce. Affinché non contagi altre, va repressa e addomesticata.
In modo speculare, ma ugualmente annichilente, la rabbia può trasformare in un feticcio sessuale. Basti pensare alle rappresentazioni delle Amazzoni, delle eroine di alcuni film o alle immagini scelte per mostrare al mondo le combattenti curde delle Unità di protezione delle donne (Ypj).
Si scivola così nel “dolcemente complicato”: l’ultimo trucco. Consiste nell’incorporare istanze e battaglie facendo delle donne un nuovo oggetto delle politiche pubbliche, qualunque esse siano. Con delle complici d’eccezione: le femministe che piacciono agli uomini. Quel femminismo incipriato, conforme e impegnato in una lotta per una parità generica che, come diceva Carla Lonzi già all’inizio degli anni settanta, ha fatto un “accordo sportivo e senza drammi con l’uomo”.
Un femminismo, dunque, che convive pacificamente con un patriarcato soft, con una mascolinità complice che non s’impegna per il modello predominante del virilismo, ma si compiace di riceverne i dividendi, dice la politologa e attivista Françoise Vergès. Attacca il patriarcato? No, ne critica solo uno: quello machista, sguaiato, quello del “ti prendo per la fica”.
Come infilarsi nelle crepe di un’operazione apparentemente riuscitissima? Ripensando la rabbia come una leva: come un’opzione politica nuovamente possibile e praticabile.
I corpi che non contano
Uscire di sé facendo leva sulla rabbia e spostare il proprio centro dalla violenza-subita-in-quanto-donne agli effetti di quella violenza non acceca, ma permette di fare un’analisi più realistica della violenza strutturale in cui ci muoviamo. E di capire anche chi sono i potenziali alleati e chi invece no.
Le donne hanno una posizione strategica perché sono state sia incluse nel contratto sociale sia escluse, come uguali ma diverse. In questo contratto parte della violenza che è consegnata allo stato resta comunque a disposizione degli uomini, che la possono esercitare contro le donne nel loro privato.
Il femminicidio diventa così la norma portata alle sue estreme conseguenze, è l’ultimo anello di una catena assicurata dal potere: comincia dalle rappresentazioni sessiste, dalle pacche sul culo, dalle politiche securitarie e non preventive, dai mancati finanziamenti ai centri antiviolenza, dai compromessi sui diritti e sui corpi delle persone, dall’assenza di educazione sessuale nelle scuole, ma anche dalle disuguaglianze e dalle ingiustizie economiche e sociali che lo stato istituzionalizza. E che non colpiscono solo le donne. “È precisamente lo stato ad armare chi ci colpisce”, scrive Elsa Dorlin nel libro Difendersi. Una filosofia della violenza (Fandango 2020).
A partire da questo orizzonte più ampio diventa chiaro che la lotta contro la violenza patriarcale non può sottrarsi né a una critica di ciò che lo stato promuove e legittima né a una presa di distanza da alcuni femminismi.
Dirò quello che sto per dire senza timore di riportare un po’ di complessità nell’indistinta atmosfera femminista che si respira un po’ ovunque, e senza timore di aprire conflitti, ora più che mai necessari.
Non sento come alleati i femminismi fondati su
politiche identitarie
Non sento come alleati quei femminismi che si rivolgono allo stato per chiedere protezione e giustizia, che ne condividono logiche e obiettivi e che, per dirla con Lorde, “usano gli attrezzi del padrone per smantellare la casa del padrone”. Non sento come alleati quei femminismi che hanno come unico obiettivo la pura riorganizzazione e redistribuzione di quel che altri hanno messo in tavola.
E non sento come alleati quei femminismi (molto in voga sui social network) che mentre fanno divulgazione capitalizzano a uso personale le istanze femministe più radicali. Infine, non sento come alleati quei femminismi fondati su politiche identitarie, che parlano a nome di un’astrazione (“noi donne che abbiamo una vulva”), che non riconoscono nel binarismo di genere la vera trappola e che si muovono ripiegati sul loro ombelico, in un territorio disegnato dall’alto, e da altri.
Mettere al centro la rabbia permette di intersecare altre rabbie e altre lotte: quelle di tutti i corpi che non contano. E quando, di nuovo, ci chiederanno “dove sono le femministe”, potremo rispondere “ovunque”. In ogni luogo in cui non vi aspettate di trovarle.
Da dentro a fuori
Uscire di sé facendo leva sulla rabbia comporta anche uscire da quel sé che è stato costruito da altri. Significa, innanzitutto, riposizionarsi nel mondo non come oggetti né come soggetti già colonizzati da una serie di significati.
“Ogni donna ha un arsenale di rabbia ben fornito, potenzialmente utile contro quelle oppressioni, personali e istituzionali, che hanno dato origine alla rabbia stessa”, diceva Lorde nel 1981. Ogni donna ha cioè un’esperienza unica, intima e quotidiana con le violenze, le esclusioni, i privilegi degli altri, le discriminazioni e le molestie, di fronte alle quali ha attivato sapienti tecniche difensive: astuzie, sottrazioni, continui aggiustamenti, negazioni, sguardi, fughe.
Questo modo di stare al mondo, ci ricorda la filosofa francese Elsa Dorlin, rappresenta una pre-occupazione costante che ha impedito per molto tempo a ogni donna di prendersi cura di sé in modo autentico, facendo passare in secondo piano i suoi desideri, le sue prospettive e le sue emozioni. Ma la rabbia – che un’educazione secolare basata sul “non prendertela” ci ha costrette a trattenere o a temere – resta comunque lì: come “un ordigno inesploso”, dice Lorde. “Ho vissuto con quella rabbia, ignorandola, nutrendola, imparando a usarla prima che mi distorcesse la vista, per gran parte della mia vita. Una volta lo facevo in silenzio, impaurita dal suo peso. La mia paura della rabbia non mi ha insegnato nulla. La tua paura di quella rabbia non insegnerà nulla neanche a te”.
Come cominciare, allora, a usare la rabbia diversamente e senza paura? Non si tratta, dice Dorlin, di “imparare a batterci”, ma di disimparare innanzitutto “a non batterci”. Smettere di schivare le conseguenze del patriarcato sostituendo la speranza che le cose cambino con la forza necessaria a cambiarle. Pensare a una nuova politica delle emozioni, rieducandoci “a prendercela”. Superare una postura difensiva e un utilizzo necrofilo di quella rabbia che, covata in cucina, fa contrarre i muscoli. Distenderla, darle valore come forza che può trasfigurare e trasformare.
Diventare consapevoli delle tecniche difensive che abbiamo interiorizzato, riconoscendo, in alcuni casi, la nostra complicità. Rifiutare le norme di genere, assumendo comportamenti che non corrispondono a ciò che gli altri si aspettano da noi. Vivere “da dentro a fuori” e non modulando il dentro secondo regole imposte da fuori. Ancora Lorde: “Sentire i ‘sì’ dentro di noi”. Cominciare a “esigere di sentirci”, che “è una seria responsabilità (…) che non ci permette di accontentarci di ciò che è conveniente, scadente, di accettare l’aspettativa convenzionale, la semplice sicurezza”.
Tutto questo è già un inizio. È “già politica”. Toglie il terreno da sotto i piedi di chi le norme e le aspettative le ha costruite e se n’è fatto guardiano. Ribalta le dicotomie vittima-carnefice, privato-pubblico, oggetto-soggetto, fa cambiare campo alla paura e ci rimette al mondo. Piene di quella rabbia che disfa senza devastare. Che è erotica e non nasce dall’odio, ma dal desiderio. E che è spinta dal desiderio di ribaltare tutto.
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