“Negli ultimi due giorni c’erano 35 gradi, ma la scorsa settimana abbiamo superato i 40”. È il 20 dicembre. Mentre mi parla, per Alberto Bellini sono da poco passate le 22, mentre qui, nella Milano completamente immersa nel vortice del Natale, il pomeriggio è appena cominciato. Alberto si trova esattamente a 12.992 chilometri di distanza dal mio telefono: mi ha chiamata da Karratha, una cittadina di 23mila abitanti nello stato del Western Australia.
Alberto è uno delle migliaia di giovani italiani che ogni anno decidono di lasciare tutto e trasferirsi dall’altra parte del mondo, sfruttando il visto Working holiday che, grazie a una convenzione internazionale, permette di risiedere e lavorare in Australia per un massimo di tre anni.
Un’altra terra, un’altra lingua, un’altra vita. Le ragioni per partire sono tante e sempre diverse, così come quelle che convincono tanti a rientrare in Italia, dopo mesi o anni passati all’estero. In alcuni casi la voglia di andarsene è dettata dall’immobilismo del mercato del lavoro italiano, che dice di voler premiare il merito ma avvantaggia chi ha già tutto. Dall’altro lato, il desiderio di scoperta può nascere proprio da una vita monotona, con un contratto a tempo indeterminato e una routine sempre più stretta che rende le giornate indistinguibili.
Terra di emigrazione
Nonostante le enormi distanze, l’Australia è da secoli una terra che attira l’emigrazione italiana. Come spiega la studiosa Cinzia Campolo in un articolo pubblicato sulla rivista Italiano LinguaDue, dell’università degli studi di Milano, i primi flussi furono registrati tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento e si intensificarono a partire dal 1928, anche in risposta alle politiche migratorie restrittive imposte in quel periodo dagli Stati Uniti che all’epoca erano una delle principali destinazioni dell’emigrazione italiana.
L’arrivo degli italiani in Australia raggiunse il picco negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, sia per allontanarsi da un’Italia distrutta da anni di guerra e dittatura sia per le politiche particolarmente favorevoli agli immigrati adottate dall’Australia, in cerca di manodopera e minacciata dallo spettro dello spopolamento. I flussi migratori rallentarono, pur senza fermarsi, negli anni settanta, dopo che il “miracolo italiano” aveva creato lavoro e ricchezza.
Secondo i dati dell’ufficio australiano di statistica nel 2021 risiedevano in Australia più di 163mila persone nate in Italia, e più di 640mila residenti australiani avevano almeno un genitore nato in Italia. Più di 226mila persone in Australia parlano italiano, a casa e nella vita quotidiana.
I flussi migratori che portano gli italiani in Australia sono cambiati ancora, e in modo sostanziale, dal 2004, quando è entrato in vigore il visto Working holiday (Wh), letteralmente “vacanza lavorativa”. Si tratta di una convenzione che permette alle persone di 19 paesi, tra cui l’Italia, con un’età fino ai 35 anni di vivere e lavorare in Australia per un massimo di tre anni. Per rinnovarlo è necessario svolgere tre mesi di lavoro (che diventano sei mesi nel caso di secondo rinnovo) in settori specifici come l’agricoltura, l’estrazione mineraria o l’edilizia. Dal gennaio 2020 sono state aggiunte le occupazioni in ambito sanitario, per far fronte alla pandemia di covid-19, mentre nel nord del paese o nei territori considerati “remoti” è concesso anche il lavoro nei settori del turismo e dell’ospitalità, la strada scelta da Alberto Bellini a Karratha.
Tra il giugno 2021 e il giugno 2022, più di cinquemila ragazzi e ragazze italiane hanno presentato domanda per ottenere un visto Working holiday, circa 3.700 erano relativi al primo anno, quindi all’inizio dell’esperienza. Quasi 5.800 domande sono state approvate, più del doppio rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, fortemente influenzato dalla pandemia di covid-19 e dalle conseguenti restrizioni sui viaggi nazionali e internazionali. I dati sono quindi in ripresa, ma i flussi attuali rimangono comunque ben al di sotto dei livelli registrati prima dell’emergenza sanitaria: nel periodo 2017-2018, per esempio, erano state approvate più di diecimila domande.
La spinta che non diminuisce
“In Italia avevo un ottimo lavoro, un contratto a tempo indeterminato con ottime prospettive. Avevo una fidanzata, un’auto, tanti amici”, racconta Bellini, 27 anni, che a Sassuolo si occupava di gestione della produzione industriale. “Dovevo solo aspettare di andare dalle onoranze funebri a prendere la bara: la mia vita era sistemata”.
“Mi sentivo fortunato, ma c’era una fiammella che rimaneva sempre accesa, mi mancava qualcosa che mi facesse sentire vivo. Quando è arrivata la pandemia, stando a casa, ho cominciato a pensare”, osserva, ricordando la voglia di cambiamento ma anche la paura, inevitabile quando si accarezza l’idea di ribaltare la propria vita. “In Bulgaria ho incontrato un ragazzo che mi ha parlato del visto Working holiday. Da lì mi sono messo in testa l’Australia”.
La decisione è stata immediata. Il licenziamento, la rottura di una relazione apparentemente solida, e nel giro di pochi mesi Alberto si è trovato su un aereo per Perth, dove è atterrato il 29 settembre 2022. “Finora non ho mai avuto ripensamenti, anche se è vero che con uno stile di vita più nomade, ho più preoccupazioni”, dice. In futuro, dopo aver terminato il periodo di lavoro nell’ospitalità necessario per rinnovare il visto, Alberto ha intenzione di comprare un van – pratica comune tra i backpacker – per girare l’Australia.
Il mercato del lavoro
Almeno dall’altra parte del mondo, trovare lavoro non è un problema, anzi. “Una delle motivazioni principali che spinge le persone ad andare in Australia è la facilità con cui si trova lavoro e con cui lo si cambia”, spiega Federica Corso, 26 anni, di Milano, che da otto mesi vive e lavora a Melbourne, nello stato di Victoria. “In Italia il percorso di studi diventa un fattore vincolante, anche quando con il tempo capiamo che la strada scelta non ci appartiene. In Australia molte persone decidono di cambiare carriera, si reinventano facilmente dal punto di vista personale, senza pregiudizi”, spiega.
Poco dopo il suo arrivo, Corso ha trovato un impiego part-time alla camera di commercio italiana, nel settore marketing e organizzazione eventi, e nel resto del tempo lavora all’assistenza clienti di un residence di lusso. “Ho trovato la mia dimensione a Melbourne, da quando sono arrivata non ce l’ho più fatta ad andarmene. È una città internazionale, e sotto alcuni punti di vista più europea. Ho creato molti rapporti che non sarà facile lasciare”, spiega, pensando al biglietto di ritorno per Milano previsto per fine gennaio.
Oltre alla vivacità dell’offerta lavorativa, anche gli stipendi sono particolarmente invitanti, “in media due o tre volte superiori all’Italia”, secondo Bellini. Per fare un esempio, il giorno di Natale è stato pagato 55 dollari australiani all’ora, circa 35 euro, e in passato lavorando per 46 ore ha guadagnato quasi mille dollari in una settimana. “Il costo della vita è più alto, ma comunque rimane molto più margine da spendere”.
Proprio le opportunità lavorative hanno convinto anche Silvia Sala a mettersi in viaggio verso un altro emisfero. Ventisei anni, una laurea triennale in design del prodotto all’accademia di Brera e una magistrale al Politecnico di Milano, tre stage mal pagati alle spalle e poi finalmente un lavoro, anche questo poco soddisfacente, con stipendio ridotto all’osso e contratto a termine. Il 1 gennaio è partita per Melbourne insieme al fidanzato, che da operaio guadagnava “cinque volte” il suo rimborso spese da stagista. Sala spera di trovare lavoro nel suo settore in un’azienda sulla costa est australiana: “Non sappiamo quanto vorremmo restare: se trovo una buona opportunità, anche a lungo”, ha raccontato pochi giorni prima della partenza.
Culture incompatibili (o forse no)
Non tutti gli italiani che partono per l’Australia restano per sempre. Tra il giugno 2021 e il giugno 2022, per esempio, sulle quasi 5.800 domande di visto Wh approvate, solo 377 erano relative al secondo anno di permanenza, e 473 al terzo anno. In molti casi, con il tempo le differenze culturali tra due emisferi cominciano a diventare più pesanti da gestire. “Non mi ci vedo qui a vita, mi manca il calore delle persone”, spiega per esempio Bellini. “Da immigrati, poi, entrare nella cerchia degli australiani è difficile, a meno che non si rimanga per anni”.
Dopo circa dieci mesi passati girando la costa est dell’Australia, a febbraio anche Greta Barsotti, 22 anni, tornerà a casa, a Pisa. Era partita ad aprile insieme a un’amica, Francesca, di 25 anni: “Da sole non so se avremmo fatto questa esperienza, sarebbe stata più dura emotivamente. Quando sei in compagnia, ci si sostiene a vicenda”, racconta.
Dopo aver deciso, nel giro di due settimane si sono licenziate, hanno disdetto affitti, venduto auto e comprato il biglietto aereo. Arrivate a Cairns, hanno girato tutta la parte est del paese in van, fino all’ultimo tappa di Melbourne. Nel frattempo, hanno completato i tre mesi di lavoro nell’agricoltura necessari per rinnovare, in seguito, il visto.
“Qui lo stile di vita è entusiasmante, ogni giorno puoi svegliarti in un posto diverso”, racconta Barsotti. Dopo mesi itineranti, però, “mancano un po’ la stabilità e la famiglia”. Una volta rientrata, ha intenzione di studiare per prendere il patentino da agente immobiliare e portare avanti la professione che ha svolto in Italia per tre anni. “Poi, si vedrà”.
Anche secondo Federica Corso, la ragazza milanese trapiantata a Melbourne da quasi un anno, la cultura italiana e quella australiana sono difficilmente compatibili: “Dal punto di vista culturale, mi manca l’Italia. Il paese è giovane rispetto all’Europa e chiuso su se stesso, culturalmente parlando non ho trovato molti stimoli”, racconta.
Una nuova casa
Non tutti la pensano così. Tra le migliaia di persone che partono ogni anno, una parte non irrilevante sceglie di rimanere, e trasferirsi in Australia a tempo indeterminato. Secondo i dati Istat, tra il 2002 e il 2020 gli italiani che hanno spostato la loro residenza in Australia sono aumentati del 750 per cento, passando da 262 persone all’anno a 2.228. I trasferimenti totali degli ultimi 18 anni sono stati quasi 24.500.
“Sono qui dall’ottobre 2019, poco più di tre anni. Sono arrivata a Sydney come tanti italiani. Inizialmente dovevo restare circa sei mesi, avevo già il biglietto di ritorno. Poi, a causa del covid, sono rimasta”, racconta Elena Caccia, 32 anni, che vorrebbe trasferirsi in Australia a lungo termine. Vivendo nell’outback, le vaste aree scarsamente popolate dell’entroterra, Caccia ha sostanzialmente sfuggito i lockdown e le varie restrizioni imposte in quasi tutto il mondo per ridurre i contagi. In Australia, in realtà, la pandemia ha avuto effetti meno disastrosi rispetto ad altri paesi. Al 26 dicembre, le morti confermate per covid-19 erano 16.940, dieci volte meno rispetto a quelle dell’Italia (183.936), che ha una popolazione più che doppia. In altre parole, in Australia sono morte 647 persone ogni milione di abitanti, in Italia 3.116.
“Viaggiavo e mi fermavo per lavorare solo quando non avevo più soldi in banca. Spendevo mille dollari al mese, facendo campeggio”, racconta Caccia, che è laureata in lingue e in Italia lavorava come assistente di direzione in un’azienda del settore energetico, a Bergamo. Da alcuni mesi ha deciso di fermarsi a Perth, nella parte ovest del paese, e lavora in una miniera di ferro. “Se penso di tornare in Italia mi viene male, soprattutto per quanto riguarda il lavoro. La qualità della vita è diversa: qui al primo posto c’è il vivere, poi viene il lavoro. In Italia, o almeno nella mia zona, valeva il contrario. Il mio orario di lavoro terminava alle 17, ma non finivo mai prima delle 18 o 18.30. Qui non succede mai”, afferma.
Dall’altro lato, il tasto dolente è rappresentato dalla mancanza di stabilità data da una vita nomade, e dalle difficoltà di creare rapporti veri e duraturi. “I rapporti umani sono un punto fragile. Io ho sempre cambiato posto, mi sono spostata, ed è difficile che qualcuno avesse i stessi miei programmi. Ho detto moltissimi addii”.
Nel 2023, altre migliaia di persone lasceranno l’Italia per un viaggio a breve o lungo termine, da soli o in compagnia, per dare sfogo all’insoddisfazione, alla curiosità, alla voglia di cambiamento. Direzione: down under.
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