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’ultimo medico non obiettore dell’ospedale di Cosenza è diventato obiettore. L’unica possibilità rimasta per le donne che vogliono abortire nella provincia sono i presidi ospedalieri di Castrovillari e Corigliano. Altrimenti non resta che andare fuori provincia o fuori regione.
Il ginecologo Francesco Cariati, in servizio all’ospedale Annunziata di Cosenza dal 2018 e che ha praticato l’ultima interruzione di gravidanza (ivg) il 14 luglio 2022, ha dichiarato di essere stato costretto a prendere questa decisione: “Sono venuti meno i requisiti minimi per portare avanti questo servizio e soprattutto è venuto a mancare il rispetto della dignità delle pazienti, ma anche della mia, in qualità di professionista abbandonato a sé stesso. Per tale motivo, esausto, ho preso la difficile decisione di dimettermi come ginecologo non obiettore. Continuo a svolgere la mia professione, non occupandomi più del servizio igv. Mi spiace tantissimo per le donne che vengono private di questo diritto, ma non ho avuto scelta”, ha detto in un’intervista a Repubblica. Per anni Cariati è stato l’unico medico a garantire l’igv alle donne cosentine.
La legge 194 del 22 maggio del 1978 (norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza) garantisce, oltre al diritto a interrompere la gravidanza, anche quello all’obiezione di coscienza dei medici (articolo 9). Un diritto che, di fatto, nega l’altro, dal momento che ci sono intere strutture in cui tutti i medici sono obiettori.
In Calabria, secondo la relazione del ministro della salute sull’attuazione della legge 194 del 1978 pubblicata il 13 giugno 2022 (dati relativi al 2020), ci sono otto strutture sanitarie con reparto di ostetricia e ginecologia o solo ginecologia che effettuano l’interruzione volontaria di gravidanza su un totale di quindici, cioè il 53,3 per cento. Sono obiettori il 67,6 per cento dei ginecologi, il 75,9 per cento degli anestesisti e il 63,1 per cento del personale non medico.
Poca trasparenza
In realtà, come denunciano Chiara Lalli e Sonia Montegiove nel libro Mai dati, dati aperti (sulla 194), i numeri relativi alle singole strutture non ci sono o sono difficili da reperire in tutta Italia. Il problema dell’accesso al diritto all’aborto riguarda tutto il paese: le donne spesso non sanno a chi rivolgersi, le strutture sono poche o difficili da raggiungere e il personale non obiettore è in minoranza. Ma in alcune regioni la situazione è più grave. Calabria, Campania, Abruzzo e Molise sono le regioni con la più alta percentuale di mobilità intra-regionale: più del 20 per cento delle donne è costretta a spostarsi in un’altra regione per vedersi garantito un diritto sancito da una legge nazionale.
“Quando chiediamo aiuto, rimaniamo soli. Sono una ginecologa ambulatoriale, a quanto mi risulta sono una delle pochissime non obiettrici della provincia di Reggio Calabria”, racconta A., una dottoressa che si occupa di avviare e seguire l’iter dell’ivg per le donne che si rivolgono a lei, che però chiede di rimanere anonima.
“Le indirizziamo all’ospedale metropolitano di Reggio Calabria, ma anche lì il carico di lavoro è enorme e le liste di attesa sono lunghissime. Manca il personale, i medici che ci sono invecchiano e non ne vengono assunti di nuovi. Nella sanità calabrese in questi anni sono stati lasciati dei veri e propri crateri”, prosegue A. Negli ambulatori dove presta servizio mancano ecografi e strumenti diagnostici, non ci sono ostetriche e si fanno fino a 18 visite ginecologiche in una sola mattina. “Il problema del mancato diritto all’aborto è strettamente legato alla carenza dei consultori: se la rete funzionasse, sarebbe tutto più semplice. Invece dei consultori sono rimasti soltanto i muri. Un degrado pazzesco, qui le donne sono disperate”, dice A.
Gli ospedali calabresi sono pieni di manifesti pro vita, che stimolano un senso di colpa nelle donne
A denunciare le enormi difficoltà a garantire il diritto all’aborto in Calabria sono le attiviste del collettivo femminista FEM.IN di Cosenza: “Tre anni fa abbiamo dovuto raccogliere centinaia di firme per introdurre la pillola abortiva all’ospedale Annunziata di Cosenza. Un metodo utilizzato da undici anni nel resto d’Italia, e che qui non era mai arrivato”, racconta Vittoria Morrone.
È dal 2009 infatti che in Italia la pillola abortiva RU-486 consente l’aborto chimico entro le prime nove settimane di gravidanza. Dopo le dimissioni dell’unico medico non obiettore di Cosenza, il collettivo ha avanzato alla regione alcune richieste: l’assunzione di almeno due ginecologi non obiettori nell’azienda ospedaliera di Cosenza, l’accesso ai dati sull’applicazione della legge 194, il tracciamento di tutte le figure mediche obiettrici e non, l’applicazione in Calabria delle linee guida per l’aborto con metodo farmacologico, che introducono la RU486 nei consultori e nei presidi ospedalieri.
“Spesso aiutiamo le donne che vogliono abortire, visto che reperire informazioni per capire come fare è complicato. Non esiste una mappa chiara dei centri o dei medici non obiettori. L’ospedale più vicino per la RU-486 è a Lamezia, dove però non si può abortire con il metodo chirurgico. Insomma, un’applicazione a singhiozzo della legge, si va alla cieca”. Come se non bastasse, gli ospedali calabresi sono pieni di manifesti pro vita, che stimolano un senso di colpa nelle donne, racconta Morrone: “Sono aberranti”.
Consultori come gusci vuoti
Daniela Diano, ex psicologa del consultorio di Siderno, in provincia di Reggio Calabria, parla di “donne umiliate da medici obiettori: medici che parlano di infanticidio, donne trattate come fattrici, come fabbriche per fare figli”. Diano ha assistito al lento declino dei consultori negli anni: “Dalla fine degli anni settanta a oggi c’è stata una desertificazione, un depauperamento dei servizi. Ma l’interruzione di gravidanza è la vera nota dolente. Negli anni dopo l’introduzione della legge c’era personale sufficiente negli ospedali e nei consultori, figure varie, le donne venivano accompagnate in tutto il percorso, non erano lasciate mai sole. Con l’aziendalizzazione della sanità queste cose non sono state più possibili. Oggi non sono garantiti neanche i lea, i livelli essenziali di assistenza. La situazione non è più sostenibile”.
Un altro indicatore che evidenzia la gravità della situazione è il tempo di attesa per abortire: “Nel 2020 si sono riscontrate percentuali elevate di tempi di attesa superiori a 3 settimane in Valle D’Aosta (19,3 per cento), Lombardia (17,6 per cento) e Veneto (20,3 per cento). In Calabria il 13,8 per cento delle ivg è avvenuto dopo un tempo di attesa superiore a 28 giorni”, si legge nella relazione del ministro della salute. “Con questi tempi di attesa si rischia di andare oltre i tempi massimi consentiti dalla legge”, spiega Diano.
Il problema della mancata tutela del diritto all’aborto ha radici lontane, spiega Rubens Curia, medico e scrittore, che si occupa da anni del diritto alla salute in Calabria. “Dopo l’approvazione della legge 194, nel 1978, ci furono assunzioni ad hoc, che però nel tempo sono state sperperate: il personale assunto negli anni ottanta è andato via via in pensione, e a causa del blocco delle assunzioni non è mai stato rimpiazzato”, spiega. Curia si riferisce al piano di rientro dal disavanzo della spesa sanitaria della regione varato nel 2009 e al conseguente commissariamento della sanità calabrese.
Bisognava bilanciare la possibilità dell’obiezione di coscienza con concorsi finalizzati all’assunzione di medici non obiettori, ma così non è stato, secondo Curia. Inoltre, come spiega A., “in alcuni casi medici assunti da non obiettori hanno cambiato idea dopo pochi mesi diventando obiettori, riportando la situazione al punto di partenza.
“In Calabria i consultori per esempio, che avrebbero dovuto avere un ruolo importante nella medicina territoriale, sono ormai dei gusci vuoti, esistono solo sulla carta. Non c’è personale, quello che c’è è obiettore, non ci sono strumenti, a volte manca anche la rete internet. C’è grande trascuratezza, e di conseguenza un diritto acquisito da decenni, come quello all’aborto, non trova più attuazione”, dice ancora Curia, sottolineando come la tutela di un diritto sia ostacolato da più di un decennio di visione economicista della sanità calabrese. “I diritti civili sono stati aggrediti”, conclude. Rimangono tali solo sulla carta.
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