Sempre più spesso quando si parla di transizione di genere associata agli adolescenti viene citata la detransizione: il termine indica le persone che hanno cominciato un percorso di affermazione di genere definendosi come persone trans ma, dopo aver ottenuto la rettifica dei documenti (e magari essersi sottoposte a operazioni chirurgiche), decidono di identificarsi nuovamente con il genere assegnato alla nascita. In un articolo scientifico dell’International Journal for Transgender Health, la detransizione è definita retransition, ritransizione, per porre l’accento sul fatto che chi fa questa scelta non “torna indietro”, ma decide di compiere un’ulteriore transizione.
Le motivazioni che portano alla ritransizione di genere variano molto da persona a persona: possono dipendere da questioni familiari, finanziarie, sociali, di salute, religiose o perfino ideologiche. Alcune persone interrompono il percorso di affermazione di genere perché è troppo difficile, pur sapendo che per loro era la strada giusta. Si definiscono desister (rinunciatari), per rivendicare i motivi di questa loro decisione.
I percorsi di affermazione di genere iniziati in età puberale o prepuberale sono un tema molto dibattuto che tocca diverse questioni e sensibilità, ma strumentalizzare la ritransizione per limitare l’accesso a questi percorsi o mettere in discussione le identità transgender è fuorviante oltre che scorretto. In realtà i casi di ritransizione sono molto rari e vengono sfruttati da chi non vuole riconoscere piena autodeterminazione alle persone minorenni o è contrario all’educazione sessuo-affettiva nelle scuole, spingendo l’idea che le persone giovani si convincano facilmente di qualcosa che non è reale, per poi ripensarci.
Nessun dato
In Italia i percorsi di affermazione di genere sono ancora molto lunghi e tortuosi, ma grazie ad alcune storiche sentenze emanate tra il 2011 e il 2015, oggi è possibile ottenere dal tribunale la rettifica anagrafica dei documenti senza dover necessariamente sottoporsi prima a un intervento chirurgico. Al riguardo non ci sono dati, nemmeno tracciamenti del cambio anagrafico. L’unica ricerca sulle persone transgender, realizzata dall’Istituto superiore di sanità con l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar) e presentata nel 2022, riguarda gli stili di vita e l’accesso al servizi sanitario.
Una cosa certa è che i percorsi di affermazione di genere richiedono molto tempo: “Parliamo di una media di sei mesi-un anno per la presa in carico nei centri pubblici”, spiega Asia Cione, attivista e divulgatrice transgender. “Poi c’è il percorso psicoterapeutico, l’attesa per il certificato psicodiagnostico necessario per cominciare la terapia ormonale sostitutiva (Tos), ancora sei mesi per poter presentare la domanda in tribunale e infine l’udienza per il cambio anagrafico. Dopo c’è molta attesa anche per gli interventi chirurgici. Si parla di una media di tre anni. Non è giusto per chi deve vivere questo calvario, e il percorso deve essere snellito, ma con la situazione attuale si ha tutto il tempo per riflettere sulla propria identità. Il percorso è duro e a volte le persone non lo portano a termine, non perché non siano sicure della propria scelta ma perché non riescono a sopportare lo stress psicologico che provoca”. Per Cione stigmatizzare le ritransizioni significa stigmatizzare i percorsi di transizione stessi.
Secondo uno studio statunitense del 2015, su circa 28mila persone transgender solo l’8 per cento ha dichiarato di aver temporaneamente ritransizionato, smettendo di assumere ormoni o tornando a usare i pronomi assegnati alla nascita. Il 62 per cento di queste, però, al momento della ricerca era già tornata a identificarsi e vivere nel genere scelto. Lo studio ha inoltre rilevato che le ritransizioni avvengono più di frequente tra le persone che subiscono discriminazioni razziali e tra le donne transgender (11 per cento, contro il 4 per cento degli uomini transgender). Questo suggerisce che chi sperimenta già altri tipi di discriminazione incontra maggiori difficoltà nel vivere come persona transgender, che ne comporta una ulteriore. Solo lo 0,4 per cento delle 28mila persone intervistate ha dichiarato di aver preso questa decisione perché non sentiva il genere scelto come proprio, tutte le altre lo hanno fatto per pressioni familiari, a causa della discriminazione subita o per difficoltà sociali e lavorative.
Marianna Coppola, dottoranda in scienze della comunicazione all’Università di Salerno e psicologa clinica esperta in tematiche lgbt+, invita a riflettere sulla fuorviante e pericolosa visione della ritransizione come un fallimento della persona transgender e del sistema di supporto connesso ai percorsi di riaffermazione di genere: “È una modalità legittima, per quei pochi casi, di sperimentare la propria identità. È un’evoluzione possibile di un percorso”, spiega. “Se la consideriamo un’involuzione diamo un’accezione negativa a un percorso che è assolutamente personale”.
PostTrans è un sito e una community che si occupa di raccontare con orgoglio storie di donne che hanno ritransizionato. Elie Vandenbussche, una delle fondatrici del sito e ricercatrice in scienze sociali, ha compiuto uno studio su 237 persone che hanno ritransizionato da tutto il mondo. Il 44 per cento di loro ha dichiarato di averlo fatto a causa dell’insoddisfazione riguardo ai cambiamenti sociali, e un altro 44 per cento perché ha sviluppato una diversa visione politica. Il primo caso può riguardare, per esempio, la differenza di trattamento che si riceve dalla società in quanto uomini o donne. Le ritransizioni legate a un cambiamento di visione politica possono invece riguardare il concetto stesso di identità di genere, che rimane ancora molto dibattuto e ridotto a una questione ideologica, nonostante la letteratura scientifica e le numerose esperienze delle persone transgender. Per il 10 per cento delle persone intervistate la discriminazione subita è stata la ragione principale della loro scelta.
Aspettative disattese
“Una persona che ho assistito ha iniziato questo percorso circa cinque anni fa”, racconta Serena Scribano, assistente sociale dell’associazione Libellula. “Ci ha detto che vivere da donna trans era complicato, che non riusciva a inserirsi nel mondo del lavoro, incontrando molti problemi”.
Scribano, anche lei donna trans, è convinta della sua scelta ma comprende bene tutte le difficoltà che comporta: “Mi piace dire che la libertà ripaga un’intera esistenza. Ma allo stesso tempo, mi chiedo se smetterò mai di pagare il prezzo della mia libertà”. L’educazione sessuo-affettiva, racconta, l’avrebbe aiutata molto, perché le è mancato il sapere di poter esistere, sia a lei sia alle persone che le stavano intorno. “Avremmo vissuto vite migliori, invece che infanzie infelici. Ci sono dei segni interiori che non cancelli mai del tutto, che ti porti dietro per sempre. Il senso di umiliazione, esclusione e inadeguatezza che si prova da piccoli condiziona l’esistenza di una persona per sempre, anche se ce l’ha fatta, nonostante tutto”.
Per Gioele Lavalle, presidente dell’associazione GenderX, che organizza gruppi di ascolto per giovani persone transgender, la maggior parte decide di ritransizionare perché le aspettative sul cambiamento del proprio aspetto fisico vengono disattese. “Il lavoro che una persona transgender fa su se stessa non è solo riguardo all’esplorazione del proprio genere, quanto più sull’abbattere la propria transfobia interiorizzata”.
Per transfobia interiorizzata si intende una forma di transfobia resiliente, meno visibile, che porta a non accettare del tutto la propria identità. Si manifesta in particolar modo nell’esigenza di rispettare standard fisici socialmente riconosciuti, che devono corrispondere al genere con il quale la persona si identifica. Le persone con una forte transfobia interiorizzata di solito mirano a quello che viene definito passing, cioè il “farsi passare” per persone cisgender.
“Non sono una persona cis e neanche aspiro a esserlo”, dice Lavalle. “L’unico momento in cui ho sofferto la mia identità transgender è stato quando mia sorella ha avuto dei figli, possibilità di cui io sono stato privato”. Lavalle ha cominciato il suo percorso di affermazione di genere 25 anni fa, quando era obbligatorio sottoporsi a operazioni di sterilizzazione per ottenere la rettifica dei documenti. Non è pentito, ma vorrebbe che si slegasse l’idea di corpo gestante dalla femminilità. “Sarebbe utile che in Italia si cominciasse a parlare di uomini transgender che possono essere corpi gestanti, spero davvero che qualcuno rompa il ghiaccio il prima possibile riguardo questo tema”. Il governo svedese nel 2018 ha ammesso che la sterilizzazione forzata fosse una violenza e ha permesso alle persone transgender che l’hanno subita di chiedere un risarcimento allo stato.
Se intendiamo l’inizio del percorso di affermazione di genere come il momento in cui la persona comincia a porsi delle domande sulla propria identità, ci sono poi le half transitions: “In questo caso non c’è una detransizione vera e propria”, spiegano Marianna Coppola e Giuseppe Masullo, professore associato di sociologia generale all’Università di Salerno, autori del libro Affettività invisibili (PM edizioni). “Le persone che si fermano a metà non arrivano alla dimensione sociale della transizione”, cioè non fanno coming out come persone transgender, un passaggio molto difficile nel percorso di affermazione di genere, e non cominciano terapie ormonali. “Chi ha l’appoggio dei genitori, dei contesti sociali e delle reti di sostegno ha una più alta probabilità di non sospendere il percorso, rispetto a chi viene ostacolato, lasciato in solitudine e senza nessuna forma di sostegno psicologico, emotivo e sociale”.
Per Marianna Coppola non si può parlare di una vera e propria ritransizione neanche in riferimento a chi si limita a sperimentare il cambio dei pronomi o cominciare una Tos per poi interromperla e tornare ai pronomi che usava in precedenza, senza aver effettuato il cambio anagrafico o operazioni chirurgiche.
Conoscersi e sperimentare
Le maggiori critiche, soprattutto da chi sostiene l’esistenza di una teoria del gender che mira a “confondere” l’identità dei giovani, sono state sollevate riguardo la possibilità di cominciare un percorso di affermazione di genere in età puberale o prepuberale. In particolare ci si oppone all’uso dei bloccanti dello sviluppo per chi manifesta incongruenza e disforia di genere (cioè non si riconosce nel genere assegnatogli alla nascita e nei tratti fisici che convenzionalmente lo connotano) fin da molto giovane. I bloccanti vengono prescritti solo in presenza di disforia e danno il tempo a chi li assume di trovare la propria identità, evitando il rischio di incorrere in un disagio corporeo dato dallo sviluppo dei caratteri sessuali secondari.
Secondo uno studio condotto tra Stati Uniti e Canada su più di 300 persone transgender che hanno cominciato un percorso di transizione in età adolescenziale o prima, solo il 2,5 per cento non ha proseguito con la terapia ormonale sostitutiva, mentre la maggior parte ha mantenuto la propria identità di genere di elezione.
“C’è una paura atavica, radicata nella nostra società puerocentrica, nel somministrare farmaci e prendere decisioni per soggetti terzi, un fenomeno che si sperimenta anche nella farmacologia per i disturbi del neurosviluppo”, dice Coppola. “È necessaria una maggiore informazione e ascoltare le storie delle persone transgender: molte di loro, avendo avuto la possibilità di non permettere al proprio corpo di svilupparsi nella direzione somatica dell’identità biologica, avrebbero preferito assumere i bloccanti ed evitare molte problematiche psicologiche in adolescenza e in età adulta”.
Un altro tema che viene sollevato è che non si conoscono i possibili rischi a lungo termine sulla salute causati dalla somministrazione dei bloccanti della pubertà, anche se in realtà non sono più sperimentali di molti altri farmaci. A oggi non ci sono possibili effetti collaterali confermati scientificamente, al contrario la maggior parte delle prove sperimentali ne ha dimostrato la sicurezza e l’efficacia. Inoltre alcuni studi dimostrano che con l’assunzione dei bloccanti i pensieri suicidari, più frequenti tra i giovani trans, sono diminuiti. Bisogna decidere a quale aspetto dare la priorità, se al benessere mentale degli adolescenti trans o ai potenziali effetti collaterali a lungo termine dei bloccanti, che comunque non sono ancora stati provati.
Sui percorsi di affermazione di genere probabilmente non ci sarà mai una risposta etica definitiva: forse la vera scelta è tra vivere in una società che vuole limitare l’autodeterminazione per paura di pentirsi, o in una che fornisce tutti gli strumenti necessari per conoscersi e sperimentare la propria identità. ◆
Leggi anche:
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it