“Restare non significa soltanto contare le macerie, accompagnare i defunti, custodire e consegnare ricordi e memorie”, ma anche “mantenere il sentimento dei luoghi e camminare per costruire qui e ora un mondo nuovo, anche a partire dalla rovine del vecchio”. Savino Monterisi è un giornalista abruzzese che ha scelto di tornare a vivere e lavorare sull’Appennino. Abita a Bagnaturo, una frazione del comune di Pratola Peligna, in provincia dell’Aquila, ai piedi del monte Morrone.
Il suo ultimo libro, Infinito restare, è stato pubblicato quest’anno da un piccolo editore indipendente, Radici Edizioni, fondato a Capistrello (Aq) da un giovane abruzzese, Gianluca Salustri. È allo stesso tempo un diario di viaggio (perché chi resta è in movimento, sottolinea Monterisi), un saggio e una raccolta di reportage giornalistici, di storie dall’Abruzzo interno. È uno strumento utilissimo: aiuta a ribaltare narrazioni, decostruire immaginari e cambiare punto di vista.
Un paragrafo, per esempio, è intitolato “Il borgo è un paese che non ce l’ha fatta”, ed è una risposta ironica alla borgomania esplosa durante il primo lockdown, nel marzo 2020, l’idea che la pandemia sarebbe stata l’occasione di abbandonare le città ormai invivibili per ricostruire in luoghi più isolati un futuro apparentemente idilliaco, fatto di orti e aria buona.
“Un borgo è un paese che ha fatto ricorso alla chirurgia estetica solo per essere più attraente”, scrive Monterisi. Senza la comunità dei suoi abitanti, senza “stratificate convenzioni sociali, riti, tradizioni, legami familiari, storie dei luoghi” il borgo semplicemente non esiste, è un guscio vuoto che finirà abbandonato. Anche dai turisti che il marketing territoriale vuole attirare: perché se mancano gli abitanti, la comunità, non può esserci alcun turismo legato all’opportunità di condividere esperienze reali, come un corso per preparare la pasta fatta in casa o una vendemmia, ma se in un paese non ci sono servizi essenziali non possono esserci abitanti.
Spazio per turisti
Il concetto di abitabilità è al centro del pamphlet Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi, curato da Filippo Barbera, Domenico Cersosimo e Antonio De Rossi per Donzelli Editore (2022). Raccoglie una ventina di saggi e nasce per rispondere all’idea, abbracciata dalle istituzioni, che un paese isolato è degno di esistere e di ricevere finanziamenti pubblici solo se e in quanto borgo, ovvero come spazio per turisti.
È l’idea alla base del “bando borghi” del ministero della cultura, che nell’ambito del Piano nazionale ripresa e resilienza (Pnrr) ha destinato un miliardo di euro a progetti di rigenerazione urbana, dedicando quasi la metà del budget alla creazione in ogni singola regione italiana di un “borgo dei borghi”, una vetrina senza abitanti ma instagrammabile e a misura di turista, costruita con un finanziamento di 20 milioni di euro.
“Ventuno borghi straordinari torneranno a vivere. Un meccanismo virtuoso voluto dal ministero della cultura ha portato le regioni a individuare progetti ambiziosi che daranno nuove vocazioni a luoghi meravigliosi”, ha detto il ministro della cultura Franceschini. Peccato che gli interventi finanziati riguardino in alcuni casi aree disabitate, come il castello di Andora, in Liguria, o prettamente urbane, come il borgo castello di Gorizia, che fa parte del centro storico della città. L’equazione semplicistica del ministero è “turismo uguale sviluppo”.
Il saggio Contro i borghi firmato da Barbera con Joselle Dagnes è un invito a ribaltare la prospettiva, che arriva a coniare il neologismo Bruttitalia, per indicare una verità che secondo gli autori è sotto gli occhi di tutti: “L’Italia è un paese bellissimo fatto, per la maggior parte, di posti brutti”. Posti dove i turisti non hanno nessun motivo di andare, ma che continuano a inseguire la chimera della turistizzazione.
Non sono borghi, sono paesi, dove “esiste, quindi, una rilevante domanda di vita quotidiana […] che chiede politiche pubbliche attente alle specificità dei luoghi”, che abbiano come obiettivo la qualità della vita degli abitanti dei territori, anche “di quelli dove nessun turista vorrebbe mai trascorrere più di qualche ora”.
In effetti una politica per le aree interne in Italia c’è. Si chiama Strategia nazionale aree interne (Snai) e l’ha immaginata nel 2012 Fabrizio Barca. La Snai ha coinvolto finora un migliaio di comuni. La racconta un libro uscito sempre per Donzelli, nella collana curata dall’associazione Riabitare l’Italia: L’Italia lontana. Sabrina Lucatelli, Daniela Luisi e Filippo Tantillo, tre protagonisti dell’implementazione della Snai, analizzano successi e limiti della prima politica pubblica place-based, in cui le scelte strategiche non sono prese al livello centrale ma coinvolgono gli attori pubblici e privati del territorio coinvolto.
La Snai per la prima volta ha visto il governo e le amministrazioni centrali costruire dal basso gli interventi, coinvolgendo in processi partecipativi cittadini, amministratori e gruppi d’interesse locali.
Antiche storie
“Le aree interne hanno tutte storie straordinarie, ma la storia straordinaria del loro possibile futuro è ciò che deve stare al centro, usando e rigenerando (non sedendosi su) quelle antiche storie”, scrive Barca nel testo che introduce il saggio.
La Snai è al centro anche della raccolta di saggi L’altra faccia della luna, curato da Francesco Monaco e Walter Tortorella per Rubbettino (2022). Giovanni Teneggi introduce al concetto di servizi di cittadinanza come questione di giustizia sociale. Eppure, sempre più comuni in base agli indicatori Istat sono classificati come “periferici” e “ultra-periferici”, cioè distanti rispettivamente 41 o 67 minuti da una stazione ferroviaria servita, da un ospedale con pronto soccorso, da un’offerta adeguata di scuole superiori. In comuni di questo tipo vivono 5,37 milioni di italiani. Nel 2014 erano 4,22 milioni. Questo non significa che sia aumentato il numero di residenti nelle aree interne, ma semplicemente che sempre più comuni (1.906 contro 1.767) si trovano distanti dai servizi essenziali.
Diventa così interessante il racconto delle sperimentazioni in atto, per esempio per valorizzare le piccole scuole come strumento d’innovazione per un’educazione di comunità: montagna non significa isolamento, e quindi i bambini delle scuole elementari di Sassello, nell’Appennino savonese, fanno lezione online dialogando con i loro coetanei di Favignana, una delle isole dell’arcipelago delle Eolie.
La medicina di prossimità, di cui tanto si parla, è realtà se si racconta la storia degli infermieri di comunità dell’Appennino reggiano, che si prendono cura di tutti quelli con più di 65 anni, li vanno a trovare a casa e lavorano sulla prevenzione, promuovendo attività come passeggiate di gruppo per combattere la sedentarietà. O quella delle ostetriche di comunità, che nell’Appennino abruzzese seguono le donne fin dall’inizio della gravidanza (le giovani delle aree interne fanno meno figli, in molti casi perché sanno che non avrebbero alcuna assistenza, se non percorrendo decine di chilometri).
Dopo la pandemia, senza investimenti sui servizi essenziali, le persone andate a lavorare in smart working nel loro paese torneranno in città
Tra i servizi essenziali ci sono poi quelli legati alla mobilità e all’accesso alla rete. Il tema della connettività è emerso con forza a partire dalla primavera del 2020, quando almeno centomila lavoratori emigrati dal sud al nord dell’Italia sono tornati a casa, sfruttando l’opportunità dello smart working. Perché questo fenomeno possa tradursi in un reale ripopolamento, con l’afflusso di nuovi abitanti che lavorano a distanza, la qualità della vita dovrà essere soddisfacente, e comunque più alta rispetto a quella delle città.
E per questo servono servizi, a cominciare da una connessione veloce a internet. Un antidoto efficace al racconto lezioso di questo fenomeno è il saggio South Working. Per un futuro sostenibile del lavoro agile in Italia (Donzelli 2022). I curatori, Mario Mirabile ed Elena Militello, sono tra i fondatori dell’associazione South Working e coordinano un racconto a più voci che evidenzia il rischio di una possibile inversione a U: dopo la pandemia, in assenza di investimenti sui servizi essenziali, le persone torneranno al nord o comunque in città.
Due esempi: a Tursi, in provincia di Matera, è nato un coworking all’interno della vecchia sede del comune, in un ex convento del seicento; nell’estate del 2022 a Fontanigorda, in alta val Trebbia, in Liguria, con 240 abitanti, la vecchia scuola chiusa negli anni novanta è stata trasformata in uno spazio di coworking.
“I luoghi con maggiori speranze sono quelli in cui cittadine e cittadini intravedono un futuro, costruito con l’orgoglio di una rigenerazione dell’identità precedente. Prefigurando una comunità di destino, non una comunità schiacciata sulla storia passata”, scrive Fabrizio Barca. Sottolinea l’importanza di un sogno concreto che animi le persone che scelgono di restare o di tornare a vivere nelle aree interne. E della consapevolezza che di fronte alla crisi climatica i modelli economici e sociali prevalenti nelle aree interne – “assolutamente originali e alternativi agli schemi predominanti” come scrive Augusto Ciuffetti nel suo Appennino. Economie, culture e spazi sociali dal medioevo all’età contemporanea (Carocci 2019) – potrebbe aiutare a trovare risposte e nuovi sentieri di sviluppo.
Ciuffetti cita come esempio la “centralità delle comunità di villaggio e [la] gestione collettiva delle risorse, come pascoli e boschi, attraverso la pratica degli usi civici e dei beni comuni”. Sono i connotati di quella società tradizionale che aveva permesso all’Appennino di resistere al declino economico e al ripiegamento demografico almeno fino agli anni cinquanta del novecento, quando l’Italia attraversò la fase di sviluppo conosciuta come “miracolo economico”, che schiantò la civiltà contadina e produsse un’emigrazione di massa nelle città. È tempo, probabilmente, di andare a cercare un nuovo equilibrio, che permetta di vivere in modo dignitoso in ambito urbano e nelle aree interne del paese.
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