“Siamo i baby ultras del Lebowski”, cantano a squarciagola sulle gradinate un gruppo di bambine e bambini. Uno suona il tamburo, due sventolano bandiere molto più grandi di loro, sono tutti coordinati da una bambina bionda di nemmeno dieci anni che dalle transenne dirige questa improbabile e gioiosa orchestra come un vero capo ultras. Manca circa mezz’ora all’inizio delle partite. Poi i bambini resteranno ai loro posti e si mischieranno ai più grandi, che cominceranno anche loro a cantare e battere le mani per tutto il pomeriggio.
Perché alle partite del Centro storico Lebowski, la cui squadra femminile gioca in Eccellenza (quarta serie del campionato di calcio) e quella maschile in Promozione (sesta serie, terza tra i dilettanti), lo spettacolo è soprattutto sugli spalti. Anche questa domenica, come ogni domenica, ci saranno quasi un migliaio di persone. Un numero difficile da raggiungere per molte squadre della serie C maschile. Ma il motivo per cui il Cs Lebowski è diventato una squadra simbolo, in Italia e in Europa, non sono solo i tifosi. È la sua capacità di raccontare che un altro calcio è possibile: un calcio sostenibile, inclusivo, basato sulla partecipazione di tutti, sulla condivisione di ogni decisione, sui rapporti umani e fuori dalle logiche del mercato e della spettacolarizzazione dello sport.
Seduta a uno dei tavoli di legno sparsi sul prato durante il pranzo sociale che precede le partite, Ilaria Orlando, presidente del club, che nella vita fa la logopedista, racconta come funziona la struttura decisionale del Cs Lebowski: “Il mio è un ruolo un po’ fittizio, che deve esistere a livello giuridico. Cerco di dare una mano a coordinare tutte le aree operative, ma poi in realtà sia il consiglio di amministrazione sia il consiglio di gestione devono rispondere all’assemblea dei soci, circa 1.500 persone, tra atleti, dirigenti, tifosi e genitori, che sono il cuore del progetto. Le decisioni si prendono sempre tutti insieme”.
La storia del Cs Lebowski è assurda come il nome del personaggio del film cult dei fratelli Coen Il grande Lebowski (1998) da cui prende il nome. La racconta Daniele, operaio, uno degli storici tifosi della squadra. “Eravamo un gruppo di amici che una quindicina di anni fa si ritrovava sulle panchine di piazza d’Azeglio, a Firenze. Stufi del calcio mainstream, avevamo letto un articolo su questa squadra amatoriale che si chiamava Ac Lebowski e perdeva sempre. Abbiamo cominciato a seguirla per divertimento, con uno striscione fatto a pennello, una bandiera cucita in casa e un tamburo. Poi si sono aggiunti amici e altri tifosi delusi dalla piega che stava prendendo il calcio o persone che allo stadio non ci erano proprio mai andate: da dieci siamo diventati, venti, cinquanta, cento. E adesso eccoci qui a giocare in Eccellenza, in squadra abbiamo ex calciatori di serie A, e ci sono tifosi che vengono da tutta Italia e dall’estero”.
Da quella squadra che perdeva ma sempre con il sorriso stampato sulle labbra, come il Drugo interpretato da Jeff Bridges nel film dei fratelli Coen, si è passati alla gestione diretta. La società ha cambiato nome in Cs (Centro storico) Lebowski, con riferimento alle panchine di piazza D’Azeglio, nel centro di Firenze, per poi diventare uno dei primi esempi in Italia di azionariato popolare.
Azionariato popolare
“Nel 2010 si comincia a parlare di proprietà collettiva, nel senso che chiunque diventa socio diventa anche proprietario, e ne porta i privilegi e le responsabilità. Non solo ha il diritto di partecipare alle decisioni, ma ne avrebbe quasi il dovere”, racconta Matthias, responsabile della comunicazione del club. “Di azionariato popolare, invece, si comincia a parlare dal 2018, quando abbiamo cambiato status e da associazione sportiva dilettantistica siamo diventati una cooperativa sportiva: una forma giuridica che ci rappresenta meglio”.
Il fenomeno delle squadre create e gestite dai tifosi è in forte crescita in tutta Europa, di pari passo con l’aumento dei prezzi dei biglietti negli stadi, la spettacolarizzazione del calcio e con il suo essere diventato un format televisivo a discapito della condivisione di valori che vanno oltre la vittoria. Gli esempi più famosi all’estero sono due: il Fußball-Club St. Pauli, squadra dell’omonimo quartiere portuale di Amburgo, in Germania, che dagli anni ottanta è diventata simbolo dei club impegnati in politica e nel sociale. E il Football clup United of Manchester, nato da una protesta di alcuni tifosi del Manchester United quando fu acquistato da un fondo finanziario statunitense. In realtà le differenze sono molte, spiega Matthias. Non solo con il St. Pauli, dove nonostante i tifosi riescano a incidere molto, il club resta una società professionistica di alto livello che affronta sfide del tutto diverse, ma anche con lo United of Manchester, più simile al Cs Lebowski nella forma giuridica, ma la cui potenza economica e mediatica non è paragonabile.
Da Bari a Cosenza, da Napoli a Milano, da Torino a Palermo, passando per L’Aquila, Lecce e Brescia, le squadre di calcio ad azionariato popolare, fondate in nome di valori come anticapitalismo, antirazzismo e antisessismo, stanno prendendo piede ovunque in Italia. Alcuni progetti riescono a sopravvivere, altri sono costretti a fermarsi, perché la situazione è complessa da gestire. C’è una contraddizione di partenza: anche se nasci per condividere valori morali e sociali alti, quando scendi in campo devi vincere. E più vinci e più sali di categoria, e più devi confrontarti con dinamiche complesse e contrarie ai tuoi valori.
Chi diventa socio diventa anche proprietario, e ne porta i privilegi e le responsabilità
La squadra femminile del Cs Lebowski, per esempio, è a un passo dalla serie C, il che significa trovare nuovi fondi per le trasferte e nuovi sponsor, ma più cresci e più è difficile che gli sponsor rispondano ai minimi requisiti etici intorno a cui ruota il progetto. E anche la squadra maschile, a forza di promozioni, prima o poi – “speriamo più poi che prima”, dicono in coro i tifosi – dovrà confrontarsi con queste contraddizioni. Gli stessi Fußball-Club St. Pauli e FC United of Manchester negli anni hanno dovuto affrontare scissioni e rotture quando si sono trovati ad affrontare questi problemi.
A questo vanno aggiunte tante altre difficoltà. Un esempio lo racconta la vicepresidente del Cs Lebowski, Matilde, che fa l’educatrice. Quando decise di creare le Mele toste, la squadra femminile di calcio a cinque, la situazione non fu tutta rose e fiori. “In realtà la scelta non è stata presa benissimo, perché il nostro livello era bassissimo. E anche se con il sorriso, e in maniera un po’ goliardica, comunque, c’erano spesso polemiche. Questo però ci ha fatto acquisire ancora più consapevolezza di ciò che stavamo facendo. Da questa esperienza abbiamo preso sempre più forza, ci siamo costruite un’identità. Essere le Mele toste ci ha legittimato a prendere spazi che prima non avevamo, e di conseguenza ad assumerci più responsabilità”.
Per la società fiorentina la vera vittoria non è tanto risolvere le innumerevoli contraddizioni del calcio-spettacolo, ma semplicemente metterle a nudo, farle esplodere. Il futuro non è mai scritto, è a questo che bisogna guardare. La cooperativa del Cs Lebowski, dopo un lungo processo di crescita, allo stesso tempo condiviso e conflittuale, oggi conta una prima squadra femminile e una maschile, due squadre di calcio a cinque e una struttura giovanile.
“Essendo il calcio uno sport di massa, la scuola calcio risulta essere la terza agenzia formativa dopo la famiglia e la scuola. E questo è un carico di responsabilità molto importante”, racconta ancora Matilde. “Non ha a che fare solo con il progetto sportivo, o con la crescita di una società sportiva, ma con delle responsabilità a livello di società e di comunità. E la nostra scuola calcio vuole diventare anche una comunità edificante, un punto di riferimento per i bambini e per le bambine e le famiglie del territorio”.
Pallone romantico
Intanto le partite sono finite. La squadra maschile ha pareggiato e quella femminile ha vinto per uno a zero con gol di Fatima, una ragazza afgana che dopo il ritorno dei taliban non poteva più giocare a calcio nel suo paese e che, insieme ad alcune compagne, è stata accolta nel Cs Lebowski.
A raccontare un altro pezzettino di questa storia è un ex calciatore di serie A, che a un certo punto della sua vita ha scelto di giocare nella squadra fiorentina. “Mi chiamo Borja Valero, e nella vita oltre che il giocatore del Cs Lebowski faccio l’opinionista televisivo per Dazn. Prima giocavo in serie A, in squadre come Inter e Fiorentina”. A parlare è uno dei centrocampisti della squadra maschile, che alla fine della partita era uno dei più commossi nel salutare i tifosi.
Il motivo per cui i media danno spazio al Cs Lebowski ultimamente è quasi sempre lui, l’ex calciatore di club di alto livello che ora gioca in una piccola squadra popolare. Una di quelle storie che la narrazione calcistica mainstream insegue famelica per dimenticarsi di scandali, plusvalenze e fallimenti. Ma Borja Valero non vuole raccontare favole, lui non è qui per fare un’operazione di social washing del pallone, ma perché qui si trova bene.
“Il mio sogno è sempre stato fare il calciatore, ma a fine carriera mi sono chiesto se tutti i sacrifici ne fossero valsi la pena. Si giudica sempre un giocatore professionista dal punto di vista economico: sei arrivato, hai avuto successo, hai un sacco di soldi, e questo ti deve bastare. E invece uno deve mettere sulla bilancia tantissime cose. Forse non lo rifarei. Ho seguito il mio sogno perché era quello che volevo fare da bambino, perché credevo in un calcio romantico, e che invece quando sei dentro è molto meno romantico di quello che sembra. È per questo che oggi ci penserei due volte. Però il pallone è sempre il pallone, amo giocare a calcio e per questo lo faccio ancora”.
E continua: “Una volta che cresci ed entri nel mondo professionistico ci sono interessi di tutti i tipi, anche economici, e fanno sì che il calcio che sognavi quando eri piccolo sia un po’ diverso. Per questo è bellissimo essere qua, in una cooperativa di cui sono socio e di cui condivido tutti gli ideali, e che merita di essere sostenuta e raccontata per quello che è. Giocare con tutti questi tifosi è stupendo, per questo alla fine della partita cantiamo e balliamo con loro”.
Tra i tifosi sono tantissimi i bambini. Come Filippo, nove anni, che abita lontano e gioca in un’altra squadra, ma non vede l’ora di venire al campo perché “quando sono qui a vedere il Lebowski mi piglia bene”. O come Elsa, che frequenta la scuola calcio, adora gli allenamenti ma confessa di preferire le partite. E Pietro, che da grande vorrebbe giocare in serie A, ma sempre continuando a seguire il Lebowski, dal tifo sugli spalti ai pranzi condivisi.
E ancora, Anna e Giada, compagne di squadra di Elsa, che sognano di giocare nelle Mele toste, ma il cui divertimento più grande è tifare dalla curva. E poi Stefano, il papà di Giada, che racconta: “Abbiamo cercato una squadra dove potesse giocare insieme ad altre bambine, e qui ho trovato una realtà fantastica. Giada è seguita, ci sono quattro allenatori, molto preparati, e soprattutto quando varco i cancelli della società sono tranquillo di poterla lasciare libera qui dentro. E questa è una cosa che non c’è altrove”.
La giornata finisce, gli spalti si svuotano. Così come tutti hanno partecipato all’organizzazione del pranzo e delle partite, tutti insieme puliscono e rimettono in ordine. Essere nero o bianco, maschio o femmina, adulto o bambino, fare l’operaio o l’insegnante, l’infermiere o il disoccupato, aver giocato in serie A o avere il fisico di Fantozzi, sugli spalti del Centro storico Lebowski non conta. Quello che conta è aver passato una giornata in nome di valori come la condivisione e la solidarietà, l’amicizia e il divertimento. Tutto quello che il calcio di alti livelli non è più, o più probabilmente non è mai stato.
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