“La città di Tien-tsin era una bellissima città e lo è ancora dove c’è. Le concessioni europee vaste tanto da formare da sole una cittadona delle nostre, sono fatte a bellissime vie ampie alberate, tutte palazzi, ville e villini circondati da giardini. Il clima vi è più mite che a Pechino, doveva essere una residenza splendida. Ora sono in piedi ancora molte case, ma moltissime sono state incendiate, molte abbattute completamente. […] La città cinese che è immensa, contenendo prima della guerra circa un milione di abitanti, è ridotta anch’essa in uno stato deplorevole. Interi quartieri sono ridotti ad un cumulo di macerie”.
Così scriveva alla madre il tenente medico Giuseppe Messerotti Benvenuti il 13 settembre del 1900, dopo il viaggio che da Napoli, attraverso Suez, Aden, Singapore e Hong Kong, lo aveva portato a Tianjin, una città nel nord della Cina devastata dagli scontri seguiti alla rivolta del movimento nazionalista e antioccidentale dei Boxer. Solo due mesi prima, Tianjin era stata occupata da una coalizione internazionale cui aveva aderito anche l’Italia.
L’azione del governo italiano era animata dall’aspirazione di aprire un mercato orientale agli interessi del capitalismo e, allo stesso tempo, dall’intento di rivendicare un ruolo centrale nella politica coloniale europea, cancellando il disonore per la sconfitta di Adua e l’imbarazzo per il precedente rifiuto cinese alla richiesta di una concessione nella baia di Sanmen.
Umiliata militarmente in Africa e diplomaticamente in Cina, l’Italia aveva visto nella rivolta l’occasione per conquistare nuovi spazi commerciali. Non c’era, però, più molto tempo. La corsa per accaparrarsi un pezzo di Cina lungo il fiume Hai era iniziata dalla metà dell’ottocento con l’apertura della concessione inglese, di quella francese e di quella statunitense, e poi, tra il 1895 e il 1896, di quella tedesca e giapponese.
Pochi anni più tardi, l’occupazione seguita alla repressione dei Boxer, determinò un’ulteriore trasformazione della città. Nel protocollo firmato a Pechino nel 1901, infatti, Francia, Inghilterra, Germania e Giappone ottennero un allargamento delle concessioni, mentre Russia, Austria, Italia e Belgio riuscirono a conquistare il loro spicchio di Cina.
Il 7 giugno 1902 il “celeste impero” cedette all’Italia, con un contratto di diritto privato, “in perpetuità, come concessione” e dietro il pagamento di un canone annuo, cinquecentomila metri quadrati di “terreni paludosi e stagni quasi perenni”, occupati da un cimitero, da depositi di sale e da un villaggio di 17mila abitanti, che si estendevano sulla riva sinistra del fiume Hai, tra la concessione russa, quella austriaca e la linea ferroviaria che univa Tianjin a Pechino.
L’accordo, tuttavia, dava semplicemente forma giuridica all’occupazione dei terreni di cui l’Italia aveva già preso possesso e individuava nella concessione, così come avevano fatto tutte le altre potenze, il mezzo più adatto per assicurarsi l’esercizio di diritti territoriali senza negare, almeno formalmente, la sovranità cinese. Il contratto, quindi, non determinava un aumento del territorio nazionale, né imponeva oneri finanziari aggiuntivi e dunque non richiedeva una ratifica legislativa da parte del parlamento.
Nata da un accordo clandestino, così come scrisse nel 1911 Federico Barilari, ambasciatore a Pechino, la concessione visse nella semiclandestinità, ignorata dal legislatore italiano per quasi un cinquantennio, fino a quando, con il trattato di Parigi del 1947, un altro strumento civilistico usato per le ipotesi di invalidità negoziale – l’annullamento del contratto – la riconsegnò ai legittimi proprietari. ◆
Luigi Nuzzo è professore di storia del diritto medievale e moderno all’università del Salento.
L. Nuzzo, The birth of a colonial city: Tianjin 1860-1895 in Colonial adventures: commercial law and practice in the making, Brill 2021
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it