L’alta torre a forma quadrata dentro cui è custodito un costoso forno verticale alimentato a idrogeno, ambizioso investimento dei primi anni duemila, spicca su quel che resta della campagna circostante. Nel cortile l’erba cresce incolta, ma il capannone della fabbrica metallurgica Ilnor è ancora lì: un’area di 40mila metri quadri abbandonata dall’estate del 2017, sulla strada che da Mogliano porta a Scorzè, una delle trafficate direttrici che collegano le province di Venezia e Treviso.
I tre mesi di presidio permanente, da aprile a luglio 2017, i cancelli bloccati dagli operai e le bandiere dei sindacati appese lungo la rete metallica che circonda lo stabile, sono ormai solo un ricordo. Durante le proteste, all’entrata principale era comparso un manichino in tuta da lavoro, impiccato sotto il logo dell’azienda raffigurante il leone di San Marco stilizzato, mentre i politici locali proponevano mediazioni, ipotetici compratori e soluzioni occupazionali.
Ma è servito a poco: la Ilnor, specializzata nella produzione di nastri laminati in ottone e rame, con un solido mercato nel settore automobilistico trainato dalle esportazioni, soprattutto verso la Germania, ha chiuso nel luglio del 2017. La Eredi Gnutti Metalli, il gruppo industriale che ha acquisito l’impresa fondata dalla famiglia Fasano nel 1961, ha infatti preferito trasferire tutta la produzione a Brescia. Ai quasi 150 dipendenti dell’azienda, di cui almeno novanta operai impegnati su turni a ciclo continuo, è stato offerto un anno di cassa integrazione, poi, per chi avesse voluto, il trasferimento.
“Nessuno avrebbe mai pensato che sarebbe finita così”, racconta Mario Favaro, 57 anni, alla Ilnor dal 1992. “Io sono stato tre mesi a Brescia. Loro volevano che restassi, ma ho detto di no, ho una famiglia, come faccio?”. In quanto lavoratore precoce – ha cominciato a lavorare come carpentiere a 14 anni – Favaro è riuscito da poco ad andare in pensione. Agli altri colleghi, la maggior parte provenienti da paesi vicini alla frazione di Gardigiano dove aveva sede l’azienda, non è andata così bene.
Il capannone ora è in vendita, è uno dei tanti fabbricati industriali svuotati, dismessi, abbandonati, segni della storia di una regione, il Veneto, che grazie all’industria ha prosperato per decenni. Il paesaggio da queste parti è disseminato di fabbriche e di piccole epopee industriali come quella della Ilnor. In regione si contano più di 92mila edifici industriali: di questi oltre 11mila sono vuoti, circa il dodici per cento. Le aree produttive sono dappertutto, anche nei paesini più piccoli, con una media di dieci zone industriali per comune. Ogni 54 abitanti c’è una fabbrica. Un tessuto edilizio che innerva quasi tutto il territorio, e con cui è impossibile non fare i conti.
“Dopo la seconda guerra mondiale, il Veneto è una delle regioni più povere d’Italia, da cui si emigra”, spiega Maria Chiara Tosi, docente di urbanistica all’università Iuav di Venezia. Nel dopoguerra comincia un’importante fase di industrializzazione, in particolare nel settore tessile e nella petrolchimica. Con il tempo i grandi poli vengono poi ridimensionati e, anche grazie alle competenze acquisite dai lavoratori della zona, nascono fabbriche piccole e medie che trasformano la società contadina. Gli agricoltori diventano “metalmezzadri”, persone che si dividono tra il lavoro nei campi e quello nelle fabbriche, e prende forma la casa-capannone. Molte di queste attività, infatti, si sviluppano allargando i fabbricati agricoli vicini alle abitazioni.
Dagli anni settanta la regione comincia a regolare le produzioni, anche con l’obiettivo di metterle in sicurezza: “Il Veneto dà avvio a un’espansione esagerata delle aree industriali: in ogni comune c’è più di una zona produttiva e questo porta a un consumo di suolo importante. Molto spesso non vengono considerati gli ecosistemi, i fiumi, gli ambienti naturali”. Una delle ragioni per cui la Democrazia cristiana, al governo della regione fino agli anni novanta, consente questa dispersione di fabbriche e aree produttive, è politica: dopo le manifestazioni del sessantotto e le grandi rivendicazioni sindacali di porto Marghera del 1970, si preferisce “spargere” gli operai evitando grandi concentrazioni di persone, e questo per avere un maggiore controllo sociale, spiega Tosi.
È da lì che parte la rapidissima e caotica crescita economica e urbanistica che travolge il territorio, con uno sviluppo diffuso e disordinato, caratterizzato dalla mancanza di pianificazione. Da allora non si è mai smesso di costruire: alte gru e vasti cantieri caratterizzano ancora oggi il panorama veneto, soprattutto in pianura.
Troppe deroghe
Negli ultimi anni i grandi centri commerciali e i magazzini per la logistica sono aumentati esponenzialmente, con capannoni sempre più grandi che si trovano soprattutto nelle vicinanze degli snodi autostradali. L’apertura di nuovi tratti di strade, come il passante di Mestre o la superstrada Pedemontana Veneta, ora quasi conclusa e che attraverserà i fragili territori collinari tra le province di Vicenza e Treviso, rischia quindi di favorire la creazione di nuove aree produttive con il conseguente traffico di mezzi pesanti.
Il Veneto è la seconda regione italiana per consumo di suolo dopo la Lombardia, con quasi il dodici per cento di territorio impermeabilizzato, cioè ricoperto da materiali come l’asfalto o il cemento. La percentuale arriva al 20 se si considera solo il centro, escludendo cioè le montagne e la costa. Nel 2017 è stata approvata una legge regionale per il “contenimento del consumo di suolo”, criticata da molte parti per le troppe deroghe previste, in particolare nei settori dell’edilizia e dell’industria. Negli anni che attraversano i tre mandati della presidenza di Luca Zaia (Lega), il Veneto è diventato la prima regione per incremento di territorio impermeabilizzato.
“Intorno al 2005 avevamo lavorato molto sui comitati di cittadini che si opponevano alla cementificazione”, ricorda Francesco Vallerani, docente di geografia all’università Ca’ Foscari, che da quasi vent’anni si occupa del drastico mutamento del paesaggio veneto. “Molti di questi non esistono più, per stanchezza e per la grande frustrazione di quanto i loro sforzi fossero vani. Degli oltre 280 comitati che abbiamo censito in regione, ne è rimasto davvero un pugno”.
Mentre si continua a costruire, molti edifici restano vuoti. Le delocalizzazioni, la crisi del 2008 (che qui ha colpito in modo pesante, portando al suicidio decine di imprenditori: secondo l’associazione sindacale Cgia di Mestre sono stati circa 50 nel triennio 2009-2012), i mutamenti del panorama economico, hanno fatto sì che molte di queste fabbriche venissero abbandonate. E questo ha portato alla perdita di competenze professionali, allo sfibrarsi di reti di imprese e di indotti che funzionavano perché in connessione, al disgregarsi di quei legami di interdipendenza che per decenni hanno sorretto lo sviluppo economico e sociale della regione.
“Alla Ilnor avevamo un’età media abbastanza alta, attorno ai cinquant’anni, di giovani ce n’erano pochi”, spiega Francesco Rizzante, 56 anni, assunto nel 1990 e per un decennio delegato sindacale della Fiom. “Lavorando lì da molto tempo avevamo sviluppato una certa professionalità. Riuscivamo a ottimizzare la produzione, il lavoro era diventato la nostra vita”. Con l’intento di salvare le competenze professionali, i rapporti con i fornitori e le imprese dell’indotto, oltre i posti di lavoro, nel 2019 una quindicina di operai che erano stati licenziati ha tentato di creare una cooperativa, per far ripartire l’azienda. Ma i costi di acquisto delle materie prime in questo settore sono molto alti, possono arrivare a milioni di euro, capitali che gli ex lavoratori non avevano. Il progetto di riapertura della Ilnor è dunque naufragato.
Al moltiplicarsi dei vuoti e delle nuove costruzioni, si oppone la visione di chi vuole mettere al centro il riuso degli edifici abbandonati. “La crisi finanziaria tra 2008 e il 2013 ha effettivamente rallentato il consumo di suolo, perché non c’erano più surplus finanziari da investire in capannoni o edilizia residenziale”, spiega Vallerani. “Il mercato per un momento si è fermato, ancora oggi si può osservare quanto materiale edilizio sia rimasto invenduto. Non ci sono solo le fabbriche abbandonate, tanti capannoni non sono mai stati utilizzati. In parte questa crisi ha però influito nella riconversione degli edifici”.
Mancanza di visione
Negli ultimi anni, sono stati sviluppati sempre più progetti di recupero, che hanno permesso la riqualificazione di ex fabbriche. Alcuni esempi sono l’edificio di archeologia industriale della Pagnossin, fabbrica di ceramiche di Quinto di Treviso fondata nel 1919, trasformato in un polo dedicato al cicloturismo. Oppure Zephiro a Castelfranco Veneto, coworking e luogo di produzione teatrale, ricavato negli spazi di un’azienda tessile chiusa dagli anni ottanta; nella stessa cittadina c’è Antiruggine, la sala concerti aperta dal violoncellista Mario Brunello nel capannone dismesso di un fabbro. A Schio, nell’alto vicentino, dal 2017 nel complesso industriale in abbandono della Lanerossi ha preso vita un centro d’arte, Fabbrica Alta.
Anche gli imprenditori stanno cambiando prospettiva. Assindustria Veneto Centro, associazione di categoria delle province di Padova e Treviso, lo scorso marzo ha presentato il progetto Capannoni OnOff, un portale che, a partire dalla mappatura dei fabbricati industriali vuoti, vuole mettere in relazione domanda e offerta con l’intento di non consumare nuovo territorio.
Si tratta tuttavia di casi ancora isolati. In questa regione è forte la contraddizione tra processi di innovazione e di rigenerazione rilevanti e la vicenda di imprese come la Ilnor, che chiudono pur trovandosi in ottima salute. “Nel febbraio del 2017, pochi mesi prima della chiusura, avevamo fatto il record di spedito”, ricorda Rizzante. ” È assurdo che un’azienda come la nostra, che viveva quasi solo di esportazioni, muoia in questo modo. Eravamo un marchio riconosciuto in tutta Europa. È un controsenso soprattutto in un momento storico in cui tutto si fonda sull’elettrico”.
La capacità di immaginare un futuro per il Veneto passa anche da queste fabbriche abbandonate, tracce della memoria non ancora elaborata della sua storia industriale. Quello di cui più si sente la mancanza, è la capacità delle amministrazioni regionale e comunali di dirigere e indirizzare i processi virtuosi, rendendoli una priorità contro la cementificazione che pare inarrestabile. Quello di cui c’è bisogno, osserva Maria Chiara Tosi, è una visione strategica complessiva, una regia più ampia:”Serve una prospettiva che tenga insieme i diversi livelli: sociale, culturale, economico e ambientale. O riescono a muoversi di comune accordo oppure entrano tutti in grave difficoltà”.
Le soluzioni arriveranno anche dalle attività e dalle funzioni che i capannoni oggi vuoti potranno ospitare nei prossimi anni, attività che potrebbero trattenere i molti laureati che si formano nelle università della regione. Da tempo la Fondazione nord est, think tank legato a Confindustria, suona l’allarme sulla mancanza di lavoratori qualificati, per l’intrecciarsi del calo demografico all’esodo di giovani, soprattutto laureati che emigrano all’estero o in altre regioni. “È tutto capitale culturale che buttiamo via”, commenta Tosi.
“Il territorio veneto oggi fa paura, dal punto di vista dell’inquinamento e dei rischi ambientali”, continua l’urbanista. “E con l’aggravarsi della crisi climatica andrà sempre più in sofferenza. Serve un approccio davvero radicale”. Per Tosi gli obiettivi principali sono la riforestazione, il ripristino degli ambienti d’acqua e la depermeabilizzazione del suolo.
“Stiamo parlando di una delle regioni più ricche d’Italia, con grandi potenzialità e con un sistema imprenditoriale consapevole della situazione, che avrebbe l’obbligo di essere in prima linea e di mostrare cosa si può fare”, conclude Tosi. “Non tutto è ancora perduto in questo territorio”.
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