C’è voluto qualche giorno per accettare l’idea che l’invasione russa dell’Ucraina non era solo un episodio di tensione momentanea, destinato a risolversi con un accordo tra le parti. Poi ci siamo resi conto che la guerra era tornata nel cuore dell’Europa, e con una violenza inaudita, che quelle aree non avevano visto più dai tempi della seconda guerra mondiale.
Questo rifiuto di considerare l’ipotesi stessa di un conflitto militare in Europa, per chi è cresciuto in un mondo che si lasciava alle spalle la guerra fredda e si stava aprendo, raggiungendo livelli di interconnessione e di cooperazione sconosciuti alle generazioni precedenti, è qualcosa di più di una convinzione basata sull’esperienza di tanti anni di pace. Ha quasi una dimensione esistenziale. Che non era stata scossa neppure dalle esperienze drammatiche delle guerre nei Balcani, in Afghanistan, in Iraq, e nelle diverse aree, anche molto vicine a noi, che sono state coinvolte (e in alcuni casi devastate) negli ultimi decenni da conflitti militari anche di notevole intensità. Era un’illusione la pretesa degli europei di avere il diritto a chiamarsi fuori dal fare la guerra. Un autoinganno che per essere sostenuto richiedeva di negare che i Balcani o l’Albania fossero parte dell’Europa. La guerra in Ucraina ha dissolto questa illusione e ha riconsegnato l’Europa alla storia.
Idee ancora interessanti
Sono passati quasi vent’anni dalla pubblicazione di Davanti al dolore degli altri (Mondadori 2003, ripubblicato lo scorso anno da Nottetempo) di Susan Sontag. Una riflessione sul modo di guardare le immagini di guerra – in particolare le fotografie – e sul rapporto che esse hanno con una certa idea della verità, che è intuitivamente attraente, eppure elusiva. Rileggendolo, si rimane colpiti da quanto le osservazioni di Sontag sulla pragmatica della fotografia di guerra (cosa mostra l’immagine, cosa intendeva catturare il fotografo, quale effetto ha, in diverse circostanze, sul pubblico che la osserva, ciò che si vede nella foto) siano ancora interessanti, nonostante i cambiamenti intervenuti nel nostro modo di comunicare. Anche nella società del digitale, la foto rimane ancora, come scrive Sontag, l’unità di base per apprendere e memorizzare. Lo abbiamo visto in questi mesi, dopo l’invasione dell’Ucraina da parte delle forze armate russe.
Sontag scrive Davanti al dolore degli altri a pochi mesi da eventi altrettanto drammatici di quelli a cui stiamo assistendo: l’attacco alle torri gemelle di New York, e la guerra contro al Qaeda e i taliban in Afghanistan. Non è solo la guerra al terrorismo, tuttavia, che la scrittrice e intellettuale statunitense prende in considerazione nel suo scritto. A fare da sfondo al saggio c’è infatti l’esperienza del novecento, a partire dalla grande guerra fino ai sanguinosi conflitti balcanici degli anni novanta.
Oggi non molti lo ricordano, ma Sontag fu molto attiva nel catalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale e nel mobilitare le coscienze per promuovere iniziative di solidarietà con gli abitanti di Sarajevo nel corso del lungo assedio cui fu sottoposta la capitale bosniaca. Avvertendo il bisogno di dare un senso concreto a questo impegno, riuscì a visitare diverse volte Sarajevo, e in occasione di una di queste visite curò la messa in scena del Godot di Samuel Beckett in un luogo in cui non era neppure possibile accendere le luci di scena, perché non c’era l’elettricità. Leggendo di questi viaggi a Sarajevo, e guardando le foto (ancora una volta, le foto) di questo gesto di ribellione contro una guerra in cui si uccidevano in modo indiscriminato civili, vengono in mente le immagini di Mariupol e degli altri centri abitati che sono stati devastati in questi mesi.
Eppure, le foto di per sé non hanno una capacità evocativa. Siamo noi a collegare le immagini mettendole dentro un ragionare fatto di assunzioni, descrizioni, giudizi che riguardano sia i fatti sia i valori. Le foto si possono usare come elementi di prova per un’accusa in tribunale proprio perché semplicemente mostrano qualcosa. Si può dubitare, analizzare, sottoporre a verifica, ma se una foto non è stata alterata o prodotta con il deliberato intento di fuorviare, alla fine essa mostra qualcosa. Non un fatto, ma un elemento di ciò che costituisce un fatto: ovvero che le cose, in quel dato luogo e in quel dato momento, stavano in un certo modo. La borsa era o non era nell’automobile del magistrato assassinato dalla mafia. Se c’è una foto che mostra senza equivoco che la borsa c’era, un aspetto del fatto è accertato. Tra le varie forme di espressione e di rappresentazione della realtà, la foto è quella che più sembra a proprio agio nella concezione della verità come corrispondenza. Molto più delle ipotesi, e delle parole che usiamo per formularle.
Maneggiare con cautela
Ci vuol tempo per comprendere, e bisogna avere consapevolezza di tanti dettagli che oggi sono invisibili, nascosti come sono dalla “nebbia della guerra”. La certezza che ci sia stata un’aggressione ingiusta, e che questo giustifichi l’uso della forza per difendersi, non è che un tassello, importante, ma nient’altro che una parte di un mosaico da comporre. In questa paziente e operosa attesa bisogna guardarsi sia dalla sovraesposizione alle immagini sia dell’abuso delle parole. Si dovrebbe fare, cioè, il contrario di ciò che si è fatto in queste settimane: una assurda, inutile ed estenuante guerra di parole. In cui l’Ucraina, con il suo dramma, era solo l’occasione, e la politica italiana, con le sue miserie, il tema centrale. Uno degli spettacoli più tristi cui mi sia capitato di assistere in decenni passati a seguire la vita pubblica di questo paese.
Ancora una volta possiamo tornare al saggio di Susan Sontag per un ammonimento sul pericolo che si corre quando non si maneggiano con cautela le immagini e le parole che mostrano e commentano il dramma della guerra: “Le fotografie di un’atrocità possono suscitare reazioni opposte. Appelli per la pace. Proclami di vendetta. O semplicemente la vaga consapevolezza, continuamente alimentata da informazioni fotografiche, che accadono cose terribili”. Sontag descrive in modo efficace il pericolo che si corre quando ci si lascia trascinare dall’emozione suscitata dalle immagini e si dà fondo al repertorio delle parole, inseguendo l’una dopo l’altra tutte le espressioni di condanna che abbiamo a disposizione. Quando invece dovremmo fare in modo che esse non abbiano perso del tutto il proprio valore, per una sorta di inflazione, quando verrà il momento di giudicare.
Oggi si discute di foto che circolano sui social network e vengono pubblicate da diversi organi di stampa che mostrano corpi martoriati, persone seppellite sommariamente in fosse comuni, e queste immagini sono diventate possibili prove nelle indagini sui crimini di guerra commessi dagli invasori. Ci vorrà tempo, e soprattutto dovranno realizzarsi condizioni politiche che purtroppo non possono darsi per scontate ora, ma questo fa sperare nella possibilità di un processo. Sono foto che quindi vanno raccolte, custodite, studiate perché sono un elemento essenziale di quel faticoso lavoro di ricostruzione di ciò che sta accadendo in Ucraina che andrà fatto. Per amore dei vivi e per rispetto nei confronti dei morti. Per la giustizia, senza la quale la pace è fragile.
Questo è il terzo di una serie di interventi sulla guerra in Ucraina cominciata con un articolo di Ida Dominijanni e proseguita con uno di Marino Sinibaldi.
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