Come nei migliori cliché della ricerca scientifica, questa storia comincia per caso, ed è il frutto di osservazioni fatte in diversi anni volte a studiare le unicità della flora delle Alpi. Durante la scrittura di un articolo scientifico, abbiamo notato come fosse molto semplice trovare informazioni su determinate specie, mentre su quella di cui volevamo parlare – una pianta a fiore giallo ben poco appariscente – non trovavamo quasi nulla.
“Certo che questa pianta è proprio bruttina”, si è scherzato un giorno, “è naturale che nessuno l’abbia mai studiata!”. A partire da una battuta estemporanea è nata così una domanda di ricerca: quanto gli scienziati si lasciano influenzare dalle caratteristiche estetiche nella scelta delle specie da studiare e proteggere?
Abbiamo raccolto in maniera sistematica dati relativi alla flora delle Alpi Liguri e Marittime, andando a studiare la relazione tra il numero di ricerche scientifiche dedicate alle diverse piante e le loro caratteristiche ecologiche e morfologiche. Le analisi statistiche hanno confermato come l’interesse scientifico per taluna o talaltra specie sia guidato da tratti quali il colore dei fiori o la dimensione della pianta.
Al contrario, caratteristiche importanti da un punto di vista conservazionistico, come per esempio il rischio di estinzione, non correlavano con lo sforzo di ricerca. Abbiamo pubblicato questi risultati sulla rivista Nature Plants, suggerendo l’esistenza di un forte bias (un termine che indica una “preferenza soggettiva”) verso specie in grado d’attirare l’attenzione dei ricercatori.
A ben cercare, simili bias si rivelano molto comuni. Spesso si immagina la ricerca scientifica come un carro armato di metodicità che incede inarrestabile lungo la linea del fronte della conoscenza. Tuttavia, la realtà è ben diversa: gli articoli scientifici sono più una raccolta miscellanea ed eterogenea di osservazioni, il prodotto d’inclinazioni personali dei ricercatori, della disponibilità di fondi di ricerca e delle mode del momento.
Questo è evidente, per esempio, quando si guarda alla disponibilità di osservazioni per diverse specie a livello globale: basandosi solo sulla mole di dati, parrebbe che in Europa occidentale e Nordamerica si registri una biodiversità tra le più alte al mondo. Ma sappiamo che non è così: in queste regioni si concentra la più lunga tradizione di ricerca scientifica, moltissime università e centri di ricerca, amministrazioni interessate alla biodiversità, e fondi per sovvenzionare queste strutture.
I bias raccontano tante cose di noi come scienziati e della nostra società. Lo studio di queste piccole e grandi distorsioni del sapere è cruciale per indirizzare gli sforzi di ricerca della comunità scientifica e soprattutto per conservare la biodiversità. Perché, per esempio, gli animali ricevono molti più fondi per la loro protezione rispetto alle piante? Per non parlare di funghi e microrganismi, spesso ignorati dalle politiche di salvaguardia ambientale.
Queste non sono critiche al lavoro dei colleghi, ma degli spunti di riflessione sui nostri limiti; un po’ come nel metodo Kaizen, vogliono essere un’autocritica per migliorarsi. E sebbene i delfini, i grandi felini africani e altri animali carismatici saranno sempre sotto i riflettori quando si parla di ricerca scientifica e conservazione, riconoscere l’esistenza di questi bias ci porterà a salvaguardare la biodiversità nel suo complesso, compresa quella meno appariscente.
Martino Adamo è assegnista di ricerca presso il dipartimento di scienze della vita e biologia dei sistemi dell’università degli studi di Torino.
Stefano Mammola è ricercatore presso l’Istituto di ricerca sulle acque (Irsa) del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) di Verbania Pallanza.
M. Adamo, S. Mammola et al., Plant scientists’ research attention is skewed towards colourful, conspicuous and broadly distributed flowers, Nature Plants (2021)
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