A Roma c’è un museo che più che un museo è un deposito. O meglio una serie di depositi, perché vista la quantità dei suoi manufatti, un edificio solo non basta. Una situazione di stasi che va avanti da anni, perché c’è un problema di fondo: non può essere riaperto così com’è. Le sue collezioni dovrebbero essere contestualizzate per poter essere fruibili, allontanandole dai fini originari, cioè quelli della propaganda fascista. Si tratta dell’ex museo Coloniale italiano e dei suoi più di 12mila reperti, che solo con un’operazione di decolonizzazione potrebbero essere presentati al pubblico in maniera non controversa. Ora, dopo anni di oblio qualcosa sembra muoversi, ma a rilento.
Il Coloniale nasce intorno al 1923 ma la sua sede più nota, quella di via Aldrovandi nel quartiere Pinciano a Roma, viene inaugurata nel 1937. Oggi il palazzo sta lì, mesto, con la sua facciata rossastra su cui, accanto al portone, campeggia ancora la dicitura Italo Africano. Nei primi anni settanta viene chiuso al pubblico e destinato a una sorte incerta. Il museo era originariamente di pertinenza del ministero delle colonie, poi degli esteri e solo recentemente di quello dei beni culturali. Dopo questi passaggi di competenza, le sue variegate collezioni, che comprendevano bronzi, armi, pelli animali, sculture e maschere tribali, si sono sparse per Roma. Alcuni manufatti sono finiti all’ex museo etnografico Luigi Pigorini, ora Museo delle civiltà, altri nei depositi del museo di zoologia. Molte armi invece, anche per questioni di sicurezza, sono andate al museo della Fanteria in piazza di Santa Croce in Gerusalemme, un museo molto particolare gestito dall’esercito, dove fucili e armi bianche hanno trovato ricovero in un buio corridoio inaccessibile al pubblico. Molti disegni e raffigurazioni artistiche sono poi conservati alla Galleria nazionale: immagini in cui il nemico, primitivizzato, è raffigurato mentre combatte nudo contro le truppe italiane in uniforme.
Un piccolo cenno della complessità del problema lo si può avere come un abbaglio, rapido e tagliente come i raggi di luce che entrano dalle vetrate in cima all’atrio del Museo delle civiltà all’Eur, a cui per il momento è passata la competenza di queste collezioni. Ai lati del grande scalone ci sono due teche. Passandoci accanto distrattamente il visitatore potrebbe anche non notarle, ma se ci si ferma a osservarle da vicino si può incontrare un primo, timido tentativo di creazione di contesto. Contengono manufatti di provenienza libica, etiope ed eritrea, molto diversi tra loro: pelli, scudi, calzature e oggetti vari, compresi i calchi facciali delle popolazioni realizzati dagli antropologi italiani in Africa. Salendo lo scalone si arriva al museo vero e proprio che, come tutti gli etnografici, è un museo controverso, in cui vengono distrattamente condotte le scolaresche a vedere degli oggetti che non sempre sono contestualizzati in maniera adeguata, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto non secondario di come sono arrivati in quelle teche.
Operazione di potere
L’idea stessa di museo etnografico, pensandoci, trova la sua chiave di esistenza definendo una propria identità in contrapposizione ad altre sparse per il mondo. Già nella sua essenza, nel suo “costruire un’identità” degli oggetti, è un’operazione di potere. Questo aspetto è comune alla museografia in generale, ma nel caso di un ex museo coloniale è più accentuato. Perché non sempre chi recuperava dei manufatti durante le spedizioni era personale specializzato che quindi catalogava, schedando nel modo corretto i dati e le provenienze. Molto di ciò che costituisce le collezioni dell’ex Coloniale è il risultato di violenze e razzie volte più a fare bottino che a una vera necessità di studio svolto con metodo. “Si tratta spesso di oggetti acquisiti in momenti di sostanziale rapporto di poteri diseguale” racconta l’antropologo Leone Contini. “Sono oggetti ormai incorporati all’interno del nostro stesso patrimonio e quindi spesso assimilati e studiati come fossero parte inalienabile di esso”. Dinamiche simili sono alle spalle anche di molti grandi musei europei, a cui se venissero levati i manufatti sottratti ad altre popolazioni rimarrebbe poco altro che involucri vuoti.
Eppure nel nostro paese c’è un vuoto, ed è come se il colonialismo italiano diventasse un rimosso collettivo, come se non avessimo mai davvero affrontato il problema del nostro passato coloniale. Il museo non è la radice di tutti i mali, ma di una parte di essi. Il museo Coloniale italiano era un’esposizione nata con un intento preciso: perorare e promuovere la causa coloniale italiana, le sue virtù e prodezze, edulcorando le critiche e spazzando via obiezioni e dubbi riguardo la sua legittimità. Ma se si guardano le date, questa tendenza non si esaurì con la fine del fascismo e della guerra. Una narrazione “giustificata” del colonialismo ha resistito fino agli anni settanta, e una parte della museografia è rimasta coinvolta nella macchina di propaganda volta a ricordare il grande mito di “italiani brava gente”, colonizzatori gentili del “bel suol d’amore”. Un’idea fatta di minimizzazioni delle colpe e destinata a instillare nei posteri alcune narrazioni che paiono infatti ancora dure a morire.
Siamo d’altronde nel paese in cui un gerarca come Rodolfo Graziani, criminale di guerra condannato in Italia per i crimini durante la Repubblica sociale italiana, ma non in Africa, dove si era macchiato delle peggiori nefandezze tra cui campi di concentramento, fucilazioni sommarie, uso indiscriminato di gas e armi chimiche, ha un suo sacrario che gli è stato dedicato dalla municipalità del piccolo comune laziale di Affile: è come se avessimo un monumento celebrativo al nazista Heinrich Himmler.
Bisogna adottare una nuova prospettiva per andare oltre le narrazioni stereotipate del fenomeno coloniale
Un’eredità pesante come un macigno, che bisogna in qualche modo provare a smontare, rileggere, reinterpretare. Anche perché tutto questo materiale non può rimanere sepolto e dimenticato in eterno nei magazzini. Come diceva l’antropologo e filosofo francese Georges Bataille “il museo non è un dispositivo che mostra, è un dispositivo che riflette. E nasce esso stesso come un luogo che crea un incantesimo”. I musei non sono terreni neutri. Tra i reperti contenuti nelle casse dell’ex museo Pigorini spuntano delle maschere. Sono i calchi facciali della missione antropologica condotta negli anni trenta da Lidio Cipriani in Fezzan, la terza regione che insieme a Cirenaica e Tripolitania forma la Libia moderna. Va ricordato che Cipriani non fu un antropologo “neutro”. Negli anni in cui il regime fascista era impegnato nella guerra d’Etiopia, nel 1938, fu uno dei firmatari del Manifesto della razza e uno dei più convinti sostenitori dell’inferiorità dei popoli africani, della legittimità della conquista coloniale e dello sfruttamento italiano del territorio di quel continente. Sono reperti che trasudano violenza, e che non sono pensabili in una musealizzazione non critica e contestualizzata. Non sono, appunto, oggetti “neutri”.
Magari un museo non è l’idea migliore. La pensa così Bénédicte Savoy, storica dell’arte e consulente del governo francese in tema di restituzioni: “È il concetto stesso di museo che va ripensato alla radice. Siamo abituati a concepire un museo ‘all’occidentale’, per cui traslare dei manufatti da un museo europeo a uno africano costruito ad hoc per quei reperti non è sempre la soluzione migliore. Magari proprio perché quei reperti in primo luogo non avrebbero mai dovuto trovarsi in asettiche teche di vetro ma in altri luoghi, custoditi come oggetti sacri, o privati”.
Patrimonio e possesso
“Proviamo a pensare a un caso a noi comprensibile, invertendo la questione”, spiega Giulia Grechi, antropologa, curatrice e autrice che si è molto occupata del tema, a cui ha dedicato anche l’approfondito Decolonizzare il museo (Mimesis, 2021). “Ipotizziamo che qualcuno a un certo punto ci avesse sottratto alcuni dei Caravaggio esposti nelle nostre chiese, oppure gli oggetti per la celebrazione dell’eucarestia. Qualora ci venissero restituiti, quegli stessi oggetti probabilmente non verrebbero piazzati in un museo, poiché di solito sono chiusi dentro un tabernacolo, non esposti a tutti. Tornerebbero quindi in una chiesa, nel luogo di culto da cui venivano. Il museo non è per forza sempre la casa più indicata per ogni tipo di manufatto”. È come se sopravvivesse una sorta di nostro vanto nell’accumulazione seriale, e quindi museale, legato anche al capitalismo. “Il concetto stesso di patrimonio è imperniato sul concetto di possesso”, prosegue Grechi.
Di restituzioni e decolonizzazione culturale e museale si è parlato a Non è più tempo di negare – Transnational restitution movement, una tre giorni organizzata dalla Fondazione Studio Rizoma e supportata dall’Unione europea che si è svolta da poco a Palermo. È la prima tappa di un programma artistico, politico e culturale della durata di due anni che vedrà coinvolte nove città europee, africane, e tanti personaggi importanti del mondo della cultura, della politica e dell’arte.
Nelle parole del suo fondatore Lorenzo Marsili, filosofo specializzato in movimenti transnazionali, a cui ha dedicato anche La tua patria è il mondo intero (Laterza, 2019): “Palermo come centro di questo dibattito internazionale è un luogo molto interessante, perché offre una posizione nuova. Quello che abbiamo visto finora erano delegazioni di piccoli paesi africani che si recavano nelle grandi città dell’Europa centrale, in Francia, nel Regno Unito, in Germania a parlare di restituzioni, ma sembrava sempre qualcosa di gerarchico, era come se il dibattito non si potesse serenamente svolgere su un piano neutro. Ecco, Palermo, che non ha come città un passato coloniale, ma anzi ha dalla sua quello di isola a sua volta occupata e colonizzata, può offrire un palcoscenico di dibattito che metta l’Europa e l’Africa su un piano di parità, nel ragionare di questo tema. E ora siamo qui a dirlo: ‘Non è più tempo di negare’”.
C’è poi una questione fondamentale, che è quella del nome. Alcune delle idee che circolano allo stato attuale prevederebbero di chiamare la nuova entità “Museo Italo Africano”, definizione già di per sé problematica, affiancandogli un nome celebre e trasversale come quello di Ilaria Alpi, la giornalista Rai uccisa a Mogadiscio. Non si sa poi perché a quel punto dedicarlo solo a lei e non all’operatore triestino Miran Hrovatin che le morì accanto il 20 marzo 1994. Ma Leone Contini problematizza questa denominazione: “Bisogna avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome. Dobbiamo rientrare in un’ottica di restituzione di ciò che va restituito, e poi in caso ripensare a una nuova musealizzazione delle collezioni coloniali. Ma non ci si può nascondere dietro a denominazioni sfuggenti, se si decide di riaprirlo andrà chiamato per quello che è, cioè ‘Museo coloniale italiano’, un nome che non cerca alibi e che dichiara: siamo stati anche questo”. Forse un passaggio ulteriore sarebbe chiamarlo “Museo del colonialismo italiano”, spostando quindi ancor più l’attenzione su un processo, già letto in un’accezione critica.
“Io credo che la questione vada sollevata”, prosegue Grechi, “credo che sia importante cominciare il dibattito e ripensare a una musealizzazione contestualizzata, ma ricordiamoci che è sempre problematico che il colonialismo entri in un museo, perché è importante che non sia solo un museo. Il fenomeno non va neutralizzato: se pensiamo a un tema come la Shoah spesso si tratta di memoriali, che sono qualcosa di diverso. Dovremmo tentare di creare un museo dedicato alle vittime del colonialismo italiano, ragionando con loro e di loro, delle loro eredità e non solo degli oggetti, e costruendo un percorso che crei anche dei legami che ci facciano capire che si è creata una cultura in cui nazionalismo e colonialismo sono inscindibili, e a volte formano la stessa identità delle nazioni”.
Occorre utilizzare istanze nuove, e non solo con l’arte e i musei, ma anche uscendo in strada. Ne sono un esempio i progetti del collettivo Tezeta al quartiere africano a Roma, un’associazione che organizza passeggiate sulle tracce coloniali in collaborazione con la comunità eritrea. Sono operazioni fondamentali. C’è anche la questione del punto di vista. Gli afrodiscendenti sono legati all’eredità coloniale da una prospettiva diversa, per cui anche una semplice passeggiata nel quartiere per loro, tra quella toponomastica, può essere qualcosa di violento, come per un bambino afrodiscendente delle elementari essere portato in gita in un museo etnografico. È problematico. Dobbiamo smantellare ciò che sappiamo per aprirci a consapevolezze diverse. Occorre ripensare il tutto, utilizzando un linguaggio nuovo, e nell’arte lo si può fare, per esempio, aprendosi al contemporaneo. Lo fanno già artisti come l’italosenegalese Binta Diaw, che ribalta gli stereotipi con forme artistiche pluridisciplinari, o Délio Jasse, nato in Angola ma che vive a Milano, che usa le fotografie degli archivi coloniali come mezzo artistico, le manipola, le colora e ne fa qualcosa di nuovo. Ogni foto contiene una sua narrazione, una sua storia che viene risvegliata.
C’è allora la necessità profonda di un ripensamento, di una rilettura critica, di smetterla con l’oblio. Bisogna cercare una nuova prospettiva che provi ad andare oltre le narrazioni stereotipate del fenomeno coloniale per dare voce alle parti coinvolte per ristrutturare il museo, rendendolo qualcosa di nuovo che magari ancora non conosciamo e che all’inizio creerà uno scontro culturale e di opinioni, con un processo di patrimonializzazione condiviso che vada oltre l’idea del museo come tempio e come strumento di propaganda. Più che l’apertura di un museo può essere l’avvio di un nuovo processo creativo.
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