Perché è così difficile, quasi impossibile, arrivare in Italia e in Europa dall’estero seguendo canali legali? Sono sempre più numerose le persone che cominciano a porsi questa domanda, alla luce del naufragio del 26 febbraio a Cutro e della catena di tragedie e lutti degli ultimi anni. Non è facile rispondere, ma bisogna cominciare a farlo.
Alla radice della questione c’è un dato politico difficile da confutare. È praticamente impossibile entrare legalmente in Europa e in Italia perché le scelte dell’Unione europea e dell’Italia hanno avviato un’azione sistematica e duratura di ostacolo alle migrazioni che ha avuto profonde ripercussioni sui flussi legali. Non è mai stato semplice attraversare le frontiere dell’Unione europea, soprattutto dopo il trattato di Schengen divenuto operativo nel corso degli anni novanta. Ma negli ultimi quindici anni è diventato progressivamente sempre più complicato.
Una stretta sui visti
Addentriamoci più nello specifico. Chi proviene da uno stato esterno all’Unione europea e intende entrare in Italia ha bisogno di un visto e di un passaporto del suo stato di provenienza. Il visto deve essere chiesto preventivamente alle ambasciate o ai consolati italiani all’estero. Le motivazioni spaziano dal turismo alle cure mediche, dallo studio ai motivi familiari, dal lavoro alle ragioni religiose. Il passaggio successivo consiste nella prenotazione di un mezzo di trasporto regolare e, se si vuole restare in Italia, nella richiesta del permesso di soggiorno, che viene rilasciato dalle questure sulla base del visto di ingresso. La durata del permesso varia a seconda della tipologia. Negli ultimi dieci anni in Italia è stata attuata una stretta nel rilascio dei visti e dei permessi di soggiorno che ha inciso in modo pesante sulle dinamiche migratorie mondiali. I dati statistici disponibili sono espliciti e fanno capire cosa significhi “guerra alle migrazioni legali”: nel 2010 sono stati rilasciati circa 600mila permessi di soggiorno a cittadini non comunitari, nel 2021 erano circa 240mila, all’interno di una congiuntura che non è imputabile alla pandemia, perché nel 2019 i permessi rilasciati erano stati ancora meno, circa 177mila.
Un crollo verticale, che ha stretto enormemente le maglie già non particolarmente larghe della mobilità in ingresso in Italia, con conseguenze a tutti i livelli, dal mercato del lavoro al mondo della ricerca al diritto al ricongiungimento familiare alla tutela giuridica dei profughi.
Questa stretta eccezionale sui permessi di soggiorno si combina a un insieme di ulteriori disposizioni che hanno aggravato il quadro. La storia delle politiche di immigrazione italiane è fin dagli inizi, alla metà degli anni ottanta del novecento, caratterizzata da una costante incapacità di pianificazione e da una gestione ipocrita degli ingressi. Di fronte a un sistema di regole particolarmente rigido e burocratico, sono state numerosissime le persone che sono periodicamente scivolate nell’irregolarità. Per far emergere questa porzione costante di irregolari sono state varate ripetute sanatorie, la più ampia delle quali è avvenuta nel 2002: 634mila persone regolarizzate con la legge Bossi-Fini. Il ricorso continuo alle regolarizzazioni è indice di un sistema incapace di funzionare in modo ordinario, ma negli ultimi quindici anni anche i provvedimenti di sanatoria sono stati bloccati o, quando sono partiti, sono stati gestiti in modo del tutto inefficace, come in occasione della regolarizzazione del 2020 deliberata nel periodo della pandemia.
Il decreto flussi
Il Testo unico sull’immigrazione del 1998 prevede uno strumento ordinario di pianificazione dei flussi finalizzato al collocamento dei lavoratori stranieri nei contesti più richiesti dal mercato del lavoro. Si tratta del cosiddetto “decreto flussi”, da varare sulla base di una pianificazione triennale. L’ultimo provvedimento varato è tuttavia quello relativo al 2004-2006: dal 2007 i governi italiani non prevedono l’attivazione della pianificazione triennale ma procedono in via transitoria, disponendo l’attivazione del decreto di anno in anno. Inoltre, le quote annuali previste dal decreto sono diminuite enormemente nel corso del tempo. Se fino al 2010 avevano superato sempre le 150mila unità, fino ad arrivare anche a oltre il doppio, in seguito i decreti annuali hanno contratto progressivamente gli arrivi restringendone il numero a poche decine di migliaia: circa 30mila all’anno fino al 2020 e 80mila , solo stagionali nel 2021.
L’effetto della riduzione così drastica dei canali legali e dell’irrigidimento delle normative è duplice. Sul piano internazionale aumenta il potere delle organizzazioni criminali e naturalmente aumentano i rischi per chi si mette in viaggio. Sul piano interno aumenta la precarietà dei lavoratori immigrati, che comunque continuano a essere impiegati massicciamente, ma spesso in condizioni di maggiore ricattabilità e subalternità, incentivando il lavoro precario, gravemente sfruttato, irregolare o sottopagato.
Chiedere asilo
A un panorama così grave occorre aggiungere la questione della mobilità internazionale dei profughi e dei richiedenti asilo. Proprio mentre in Europa veniva ideato e pianificato un sistema di progressiva chiusura delle frontiere, la catena di rivolgimenti innescata dalle primavere arabe determinava dopo il 2010 un nuovo ciclo di migrazioni di profughe e profughi, in fuga da conflitti, guerre civili, guerre tra stati, colpi di stato di varia tipologia. A essere coinvolti erano sia i paesi della sponda meridionale del Mediterraneo sia quelli mediorientali e subsahariani. La scelta dell’Unione europea di esternalizzare in stati come la Libia e la Turchia il controllo delle frontiere rispetto ai flussi di profughi e allo stesso tempo restringere progressivamente le modalità di accesso al diritto di asilo ha aumentato ancora di più la pericolosità dei viaggi.
Le eccezioni dei corridoi umanitari voluti dall’Italia o la decisione di accogliere i cittadini siriani intrapresa dalla Germania nel 2015 restano, appunto, solo eccezioni. Se per poter presentare domanda di asilo in Europa i cittadini non comunitari si trovano costretti a rischiare la vita, significa che siamo di fronte a un sistema di norme che ha deliberatamente dichiarato guerra al diritto all’emigrazione.
La crisi economica del 2008 ha accelerato in maniera impressionante la politica repressiva. La criminalizzazione dei migranti è stata usata nei paesi comunitari come copertura ideologica per le politiche di austerità, i tagli alla spesa sociale e la compressione dei salari, puntando sulla promessa di non far arrivare immigrati nel continente europeo, ritenuto ormai “saturo” e non più disponibile ad accogliere cittadini extracomunitari.
Un’impostazione sbagliata
Ma nelle politiche migratorie passare dalle parole ai fatti può avere effetti drammatici. Le classi dirigenti hanno innanzitutto cominciato a dismettere nel loro linguaggio politico i concetti di integrazione, inclusione e cooperazione che avevano dominato le retoriche degli anni novanta. “Sicurezza” è diventata la parola chiave per qualsiasi discussione sull’immigrazione, a destra come a sinistra, insieme a controllo, contenimento e poi direttamente espulsione e respingimento. Le strategie europee hanno rafforzato e finanziato tutte quelle pratiche orientate a scongiurare e allontanare i flussi migratori: le politiche sociali sono state progressivamente accantonate a favore dei rimpatri, le agenzie finalizzate al controllo delle frontiere (come Frontex) sono state riorganizzate non con lo scopo di monitorare le condizioni di viaggio dei migranti ma con l’obiettivo di impedire il loro stesso arrivo.
I risultati delle direttive europee e delle molteplici iniziative comunitarie di contrasto all’immigrazione irregolare, che si sono rafforzate proprio in seguito della crisi del 2008, hanno in realtà funzionato come deterrenti all’immigrazione legale, restringendo le opportunità e complicando le modalità di ingresso. Parallelamente, le risoluzioni in merito alla sicurezza europea hanno inserito l’immigrazione a pieno titolo tra i fattori potenzialmente destabilizzanti per la tenuta dell’Unione. L’applicazione dell’agenda europea sulla migrazione del 2015 rappresenta il punto di ricaduta più evidente di questo approccio, basato sugli accordi di esternalizzazione con i paesi terzi, sul rafforzamento della difesa delle frontiere e sui rimpatri dei cosiddetti “irregolari”.
Le leggi nazionali hanno sostenuto e rafforzato queste impostazioni, nel caso dell’Italia rinunciando completamente a un approccio capace di riconoscere la dimensione strutturale dell’immigrazione, procedendo quindi per provvedimenti emergenziali, orientati generalmente solo a illudere la cittadinanza rispetto alla difesa dell’ordine pubblico o rispetto alla tutela dei cittadini italiani dalla concorrenza di cui sarebbero protagonisti gli immigrati nel lavoro e nell’accesso al welfare.
Il ripristino di vie legali per il superamento delle frontiere europee è un obiettivo minimo e a portata, gli strumenti a disposizione dell’Unione europea e degli stati nazionali sono numerosi e diversificati. “Potevamo venire in aereo senza regalare soldi ai trafficanti e senza rischiare di morire”, affermano oggi tanti cittadini stranieri che vivono e lavorano in Europa e che sono riusciti a superare tutti gli ostacoli alla migrazione.
Non mancano, nel passato recente, esempi storici che rivelano come la normalizzazione dei flussi migratori rappresenti l’unico strumento capace di interrompere il monopolio dei trafficanti e il rischio dei viaggi. E molti di questi riguardano l’Italia. Basta pensare a ciò che è successo alla fine degli anni novanta tra Italia e Albania, quando ai motoscafi si sono sostituite le navi di linea, con immensi effetti positivi: sull’Italia, sull’Albania e sulla vita di generazioni di albanesi in Italia.
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