Quando Kento parla è come se seguisse la metrica di una canzone rap, il flow. Tiene un tempo serrato. Io gli lancio degli spunti, lui argomenta senza prendere fiato. Sorride: “L’hip hop mi ha dato gli strumenti per essere ciò che sono. Per conoscermi e farmi conoscere. Per trasformare una passione in lavoro. E sì, anche per non incepparmi nelle interviste”.
Nel suo accento ci sono ancora tracce delle origini calabresi, anche se Francesco Carlo, 45 anni, vive a Roma dal 1995. Era arrivato da Reggio Calabria per studiare filosofia del diritto all’università e non se n’è più andato.
Come rapper si è formato a metà degli anni novanta, quando in Italia il genere stava uscendo dalla prima fase, politica e militante – quella delle posse, della sinistra e dei centri sociali – per entrare in quella segnata da dischi come 107 elementi di Neffa e i messaggeri della dopa, più leggeri e attenti alla tecnica. Il suo stile si colloca a metà, comunque lontano dal rap di oggi, dominato da edonismo e storie di malavita.
Per lui il genere è sinonimo di impegno sociale e militanza nella scena alternativa. Spesso partecipa a concerti che hanno un carattere politico, come quello per le celebrazioni del 25 aprile a Roma. Il suo album d’esordio, Sacco o Vanzetti(2009), è ispirato alla vicenda dei due anarchici condannati a morte negli Stati Uniti nel 1927.
“Ma sono contento di com’è oggi il rap e del successo che ha”, precisa. “Bisogna educare all’ascolto consapevole, a distinguere cos’è sbagliato e cos’è giusto nella vita vera, non nelle canzoni. Il rap di strada mi piace, in parte lo capisco. Quando ero bambino la mia città era sconvolta dagli scontri tra mafiosi, ho visto diversi morti sui marciapiedi. E comunque la popolarità del gangsta rap mi aiuta in ciò che faccio. Anche e soprattutto in prigione”. Kento infatti da più di dieci anni organizza laboratori di rap nelle carceri minorili, oltre che nelle scuole.
Pranziamo all’aperto, a Roma, in un ristorante lungo viale del Tintoretto, uno stradone costeggiato da grandi palazzi e parchi. È una bella giornata di primavera, lui indossa una giacca scamosciata sopra a una maglietta nera. Siamo arrivati con la sua macchina: il posto è fuori mano, ai lati di una stazione di servizio. È arredato come un diner statunitense e cucina carne all’americana, ma i gestori sono italiani. “Smoked american barbecue”, c’è scritto sull’insegna.
“Ci vengo spesso, me ne sono innamorato fin dalla prima volta”, spiega. “Mi appassionano le storie di coraggio, quelle di chi fa crescere idee in luoghi impervi, come qui. Questo locale è un’oasi”. Tutti quelli che ci lavorano lo conoscono. Uno dei camerieri, 19 anni, ha cominciato a fare rap e lui l’ha preso sotto la sua protezione. Scherzano un po’, me lo presenta. Quando il ragazzo si allontana, Kento dice: “Può dare tanto come artista, quindi sono esigente con lui. Ma ti assicuro che lo sono anche con i detenuti”.
Ultimi tra gli ultimi
In Italia sono 17 le carceri per minori: ci finiscono ragazzi e ragazze tra i 14 e i 18 anni, che per scontare la pena possono rimanerci fino ai 24. A gennaio del 2022 erano 316 in tutta Italia. “Sono vere prigioni, quindi con gli agenti della penitenziaria, gli spioncini perfino al cesso, le manette, le strutture e in generale gli spazi destinati agli adulti; ma dentro ci sono dei bambini”, mi racconta Kento.
“Per fortuna è difficile finire lì dentro, di solito vengono applicate misure alternative”. A parte i casi più gravi, quelli che non riescono a evitare il carcere sono spesso “gli ultimi tra gli ultimi: chi non può permettersi i domiciliari, chi non ha una famiglia che lo segue, chi è stato mal consigliato e magari ha avuto un atteggiamento sopra le righe con il giudice, chi è arrivato da solo nel nostro paese”.
Gli domando se queste storie finiscono nei testi che i ragazzi scrivono con lui. Si toglie gli occhiali, nicchia. E mi spiega come funzionano i suoi laboratori. Per esempio, dice, i suoi allievi in carcere sono interessati soprattutto ad avere successo una volta fuori, lui gli trasmette fin da subito l’idea che la musica è un lavoro e va vissuta come tale, da professionisti.
Gli incontri – a cui di solito partecipano anche gli educatori in veste di supervisori – si dividono in sessioni d’ascolto, dibattiti, analisi di videoclip e di testi (“non solo musica, di recente abbiamo letto Cesare Pavese”) e momenti di scrittura vera e propria.
L’hip hop è il genere più apprezzato nelle carceri minorili: perché è quello con cui i ragazzi hanno maggiore familiarità insieme al pop neomelodico, ma anche perché viene dalla strada, ha radici popolari e ribelli, “rigorosamente antirazziste”, dice.
Inoltre è immediato e relativamente semplice da fare. “Se dovessimo fare rock dovrei insegnare a tutti a suonare almeno la chitarra. Così invece bastano le basi, che porto io. Loro scrivono, io li aiuto a sistemare la metrica. Non interferisco mai con i contenuti, cerco piuttosto di stimolarli a raccontare in maniera originale ciò che sentono. Non mi capita quasi mai di leggere testi che esaltano il crimine: chi è in carcere sa già che il crimine non paga. Spesso, semmai, parlano d’amore anche in modo un po’ ingenuo. Scrivono dediche per la loro ragazza. In generale, sognano una vita normale. Quella che non hanno mai avuto”.
Protezione
Chiacchieriamo ancora con il cameriere che fa rap, poi torniamo a parlare di carcere mentre prendiamo il caffè. “Non voglio conoscere il motivo per cui chi partecipa a un mio laboratorio è dentro”, dice. “Una volta, prima di un’esibizione, uno di loro tremava. Mi ha guardato e mi ha detto: ‘Sono più agitato di quella volta in cui ho sparato allo sbirro’. Preferisco non sapere”.
Però conosce molte delle loro storie, spesso drammatiche. “Mi ricordo un ragazzo che per buona condotta era uscito in permesso per il suo compleanno. Per rivedere una donna più grande, con cui credo avesse avuto una relazione, ebbe un tragico incidente. Morì il giorno del suo compleanno”.
È stata una delle poche volte in cui Kento ha pensato di sospendere il laboratorio. Gli altri partecipanti però l’hanno convinto a continuare. “Hanno scritto una canzone per il compagno. Nella prima strofa ci sono i loro ricordi insieme, tutto ciò che avevano condiviso. Nella seconda invece immaginano la sua risposta: ‘Non piangete per me, ora sono in pace’”, ride.
Kento ha raccontato la sua esperienza di docente in carcere in un libro intitolato Barre (minimum fax 2021). Gli chiedo se è una lettura utile per i ragazzi in cella. “Tendo a non farlo girare tra loro”, risponde, “è pieno di considerazioni sul carcere minorile. Pagine intere in cui dico che andrebbe abolito”.
Ha paura di spingerli a ribellarsi, e questo “gli si ritorcerebbe contro. Va sempre così in cella, a rimetterci è il detenuto. L’ho capito tanti anni fa, quando il primo laboratorio che avevo organizzato fu cancellato per una serie di frasi contro il carcere minorile che avevo rilasciato per un documentario. Ora preferisco scendere a compromessi e proteggerli”.
Saliamo in macchina, sono le tre di pomeriggio, lo aspettano per un laboratorio. “Uno dei miei allievi, all’inizio della pandemia, era stato trasferito in comunità per buona condotta. Aveva più spazi, più libertà, in generale delle condizioni decisamente migliori da tutti i punti di vista. Dopo un po’ è fuggito di proposito per farsi arrestare e poter tornare in carcere. Mi ha detto che in comunità soffriva: non aveva la possibilità di fare rap, e non aveva gli amici di sempre. Con quali prospettive stiamo crescendo questi ragazzi?”.
Phil’s deli
Viale del Tintoretto 420, Roma
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