La storia di Boris – la “serie sulle serie”, uno dei migliori prodotti di satira nati in Italia negli ultimi vent’anni, da oggi su Disney Plus con la quarta stagione – è una storia interrotta. Le prime tre erano uscite tra il 2007 e il 2010 su Fox, a costo ridotto e con un successo assai modesto. Qualcosa si è mosso solo dopo, quando il passaparola e modi più o meno legali per recuperarla in rete ne hanno alimentato un culto sempre meno carbonaro.
Poi in pandemia Netflix ne ha comprato i diritti trasformandola nel fenomeno di massa che non era mai stata, tale da spingere la produzione a provarci ancora. A quel punto, però, almeno una generazione di fan era già cresciuta nel mito di un’opera mai vista “in diretta” ma resa eterna online, lentamente.
Il fatto è che la trama, scritta da Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, è semplice, a tratti vicina alle sit-com (all’epoca erano molto influenti in un certo tipo di comicità in tv), ma piena di frasi e di archetipi definiti proprio lì e tipici di un cinema piccolo, che deve “portare a casa la giornata” tra difficoltà, squallori e compromessi, sviluppati talmente bene da parlare anche e soprattutto ai non addetti ai lavori.
S’ironizza, in sostanza, su una troupe di cinquantenni ritrosi che incarna il peggio che il mondo del lavoro del nostro paese possa produrre
In sintesi: c’è da girare Gli occhi del cuore, una fiction nazionalpopolare di bassa lega sugli intrighi sentimentali di un primario; sul set, protagonista divo, scarso ed egocentrico (Stanis La Rochelle, cioè Pietro Sermonti) e coprotagonista altrettanto diva e impacciata davanti alla telecamera (Corinna Negri, ovvero Carolina Crescentini), regista di talento frustrato dallo stagno piccolo dove deve calarsi per avere uno stipendio (René Ferretti, interpretato da Francesco Pannofino, che si confida solo con un pesce rosso, Boris appunto) e assistente-soldato (Caterina Guzzanti nella parte di Arianna), “schiavi” (tra cui lo stagista Alessandro, di Alessandro Tiberi) e manovalanze burbere prese dal sottoproletariato (Biascica, ergo Paolo Calabresi), direttori della fotografia svogliati e cocainomani (il Duccio di Ninni Bruschetta) e sceneggiatori cialtroni (tra cui quello interpretato da Valerio Aprea), coordinati da dirigenti come Diego Lopez (Antonio Catania), più attenti al bilancio e alle ingerenze della politica che all’arte.
Le dinamiche interne e i loro modi di dire – dal “cagna maledetta” per l’attrice scarsa al “dai, dai, dai” d’incoraggiamento di Ferretti, fino al “molto italiano” di Stanis, ma sono tantissime le frasi che si potrebbero citare – hanno cristallizzato nell’immaginario comune una serie esilarante, perfetta nel bilanciare iperrealismo e surrealismo, amarezza di fondo e gag di primo piano, in un racconto corale che approfondisce le maschere dei protagonisti senza ridurle a macchiette.
Il segno dei tempi
Rimettere mano a un lavoro così era pericoloso: ne può uscire un’appendice che non aggiunge niente all’originale, rivolta solo ai fan, o semplicemente un prodotto non all’altezza delle aspettative altissime. Così per questi nuovi episodi, gli sceneggiatori – a cui manca Mattia Torre, morto nel 2019 e qui omaggiato dalla presenza-assenza del suo corrispettivo interpretato da Aprea – hanno rischiato poco, trapiantando l’impianto comico originale nell’attualità.
Sono trascorsi dodici anni anche in Boris quindi, e c’è solo da accettarlo: gli stagisti hanno fatto carriere impronosticabili, la presenza sui social è fondamentale, le televisioni generaliste che criticavano in parte sono state sconfitte e ora c’è “la piattaforma” (in rappresentanza di Netflix, Amazon Prime o della stessa Disney Plus), con i dirigenti smart e sadici in “call” da ogni parte del mondo. A lei e al suo indecifrabile “algoritmo” si deve vendere Vita di Gesù, sei episodi ispirati alla Bibbia con il cinquantenne Stanis (quello valorizzato più e meglio in questa stagione) nella parte del trentatreenne Gesù, e per la prima volta anche produttore.
Da un lato, quindi, la serie riallaccia i fili: i tic originali e i rapporti tra i personaggi si rinnovano con gag riuscite e coerenti, che si tratti delle ambizioni di fuga verso “la qualità” di Ferretti o di quelle da padreterno dello stesso Stanis, degli accordi malavitosi di Lopez o delle insicurezze trascinanti di Alessandro, che da stagista è passato a un ruolo manageriale senza che il confronto con un passato così iconico sia mai il vero motivo della risata.
Dall’altro lato, anche la satira al sistema in realtà è fresca e centrata: s’ironizza, in sostanza, su una troupe di cinquantenni ritrosi che incarna il peggio che il mondo del lavoro del nostro paese possa produrre, e sul suo non riuscire ad adeguarsi ai codici etici e d’inclusione che la “piattaforma” impone, ma senza finire mai nella critica in stile “non si può più dire niente”. Quando l’algoritmo chiede agli sceneggiatori di inserire una “storia teen” nella biografia di Gesù o delle comparse di etnia cinese, gli effetti sono brillanti e grotteschi; quando entra in scena TikTok, quello che poteva essere un terreno scivoloso su cui fare commedia alla fine si risolve in modo, perlomeno, indolore.
Un po’ per fisiologico entusiasmo da ritorno e un po’ per il reiterarsi di una serie di dinamiche consolidate, quindi, fino a metà delle trasmissioni tutto suona piacevole, famigliare, arricchente. È sulla lunga, però, che Boris 4 tradisce proprio come serie, per struttura e per alcune novità che in partenza sembrano grandi promesse e che non si mantengono. Su tutte il personaggio di Lalla (Aurora Calabresi), la nuova stagista intraprendente e per questo in conflitto con l’accettazione passiva di Arianna.
Poteva essere l’occasione per riflettere sull’approccio al lavoro delle nuove generazioni, per creare paralleli con Arianna stessa e Alessandro che l’aveva preceduta; invece viene fuori un ritratto poco spesso, con un percorso narrativo chiuso davvero bruscamente e una sottotrama pure interessante ma solo accennata e mai davvero conclusa. Allo stesso modo, i dirigenti della “piattaforma” sono dipinti in maniera stereotipata ma senza avere a disposizione lo spazio necessario a sviluppare quei profondi guizzi comici che hanno reso grandi i protagonisti della serie, comunque anche loro basati su delle “maschere”.
Ma non è solo questione di spazi e margine di movimento. È vero che otto episodi sono pochi per gli standard della casa (la seconda e la terza stagione ne avevano quattordici), però sembra soprattutto che gli sceneggiatori abbiano avuto la paura – più che legittima, ed enfatizzata dalla mancanza di Torre – di rovinare quanto di bello fatto in passato, e quindi si siano limitati un po’ al compitino. Complice una scrittura che sul finale tende a sfilacciarsi, oltre a perdersi in passaggi a tratti approssimativi, perfino frettolosi, la sensazione è che non sia un lavoro all’altezza dei precedenti. Non che manchino intuizioni, né che siano sviluppate male; è che non ha, per esempio, il messaggio apocalittico della terza e al contempo però non sviluppa nessuna forma di redenzione, oltre a non tenere conto nelle conclusioni di come (e se) siano cambiati i tempi rispetto al 2010. Come fosse un’appendice minore ed estemporanea, un omaggio rispettoso ma dimesso che niente toglie e poco aggiunge. La generazione Boris, insomma, resta interrotta. Evidentemente era anche giusto così.
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