Chiara Galeazzi ‒ scrittrice, autrice comica e speaker su Radio Deejay ‒ racconta: “Un’amica, leggendomi, mi ha detto che al mio posto non ce l’avrebbe mai fatta. Che non l’avrebbe vissuto con il mio spirito, che adesso non riuscirebbe mai a riderne. Sicuramente hanno influito il carattere e la deformazione professionale, ma sono certa che tutti avrebbero reagito come ho reagito io. Il punto è che a loro non è successo”. Pausa. “Per fortuna, eh”. Risata, cominciamo.

Il tema è: si può ridere di una tragedia? Lei, con il romanzo Poverina (Blackie edizioni), sembra dire di sì. È una vicenda autobiografica che comincia una domenica d’ottobre del 2021: ha 34 anni quando viene colpita da un’emorragia cerebrale, ma in fondo “gli ictus, come i figli, è meglio averli da giovani”. A ripeterglielo sono fior di esperti e neurologi che la seguono nella lunga riabilitazione all’ospedale Niguarda di Milano, ed è uno dei primi segnali di una vicenda che “ha cominciato a far ridere dal giorno uno”, sostiene. Nessun sintomo, solo piccoli accenni che le fanno pensare a una crisi di panico e la fanno imbottire di psicofarmaci, prima di correre al pronto soccorso. “A quel punto il cervello aveva già preso a sanguinare. Mi spiegano la situazione, gli rispondo: ‘Eh… addirittura!’. C’era già abbastanza materiale per scrivere un libro”.

Il resto è offerto da antivaccinisti che in periodo di pandemia ricamano teorie varie sulla sua disgrazia, compagni di ospedale, amici, conoscenti. Ma prima di spiegare il meccanismo comico con cui rilegge questa storia, e che le sembra perfino scontato, fa delle precisazioni: poteva andarle peggio e il lieto fine (”spoiler: altrimenti non sarei qui”) aiuta il pubblico a riderne e a sentirsi in pace con se stesso mentre lo fa. “Qualcuno addirittura si commuove, ma non lo capisco. In assoluto, preferisco quelli che mi dicono: ‘Mi dispiace troppo, ma non ho potuto non ridere’. Comunque sto registrando diversi tipi di risposte”.

Per comprendere Poverina, però, bisogna partire proprio dal finale. Non ci sono insegnamenti, né per l’autrice né per noi; non ci sono frasi motivazionali, passaggi a effetto su come affrontare momenti del genere; la protagonista non ne esce rinata, non ne esce diversa. Il ritorno a casa è, banalmente, la riconquista di una detestabile routine, come in quella scena di I Simpson in cui Homer crede di morire per un’intossicazione, poi scopre che i medici si sbagliavano e promette a se stesso di godersi ogni istante di vita futura, salvo riscoprirsi già nei titoli di coda a vedere il solito scemo programma alla televisione disteso sul divano. Faceva ridere nel 1991, fa ridere oggi.

“La mia comicità non rappresenta nessuno e non nasce per confortare”

È un gioco di prospettive, è lo scarto spiazzante tra aspettative e realtà, tra la promessa di come immaginiamo si debbano vivere certi eventi e come si vivono davvero. “Ho puntato molto su questa differenza”, spiega Galeazzi. “Il fatto è che non abbiamo un rapporto con la morte e la malattia. Le abbiamo rimosse, pensiamo non esistano. Così il discorso in merito, specie da parte di chi non ne è coinvolto, è retorico. Il malato è un guerriero, combatte, o è una vittima. E se è malato, allora è solo malato, non può essere altro nella vita. Ed è, soprattutto, ‘poverino’. Non è empatico quell’aggettivo, è spersonalizzante. E da quando sono stata ricoverata ho avuto tante prove della scarsa sensibilità altrui”.

Non c’è, dice, voglia di denunciare, né di impartire lezioni. “Desidero solo far ridere. Ma se chi mi leggerà si farà un esame di coscienza, tanto meglio. Ho scelto un umorismo delicato, che mi rappresenta, perché la comicità, se usata bene, è il lubrificante migliore per veicolare un messaggio. Coccola gli spettatori, sì, ma li colpisce comunque sui nervi scoperti”. Che un’opera così sia perlomeno audace, e che la malattia sia uno dei grandi rimossi della nostra realtà, lo dimostra, concordiamo, la pressoché totale assenza di prodotti umoristici sul covid, al contrario di una satira che invece non si è risparmiata sulle politiche di governi e opposizioni. E lo dimostrano, poi, le interviste sempre più frequenti in cui le chiedono curiosità sull’ictus in sé e non sul libro stesso. “Tra un po’ mi interpelleranno come neurologa”, scherza lei.

Il racconto di Galeazzi è duplice e sovrapposto. Si ride di noi, del modo in cui ci relazioniamo ai malati, come quando racconta di una signora che sostiene di comprendere i fastidi di lei e della compagna di stanza perché soffre di cervicale, o quando a una festa, mesi dopo la malattia, scopre che chiunque ormai la associa solo alla sua malattia. Ma si ride anche di ciò che le accade nella riabilitazione, dei personaggi strani che incontra, degli incidenti. “Ho lavorato molto sul ridicolo e sul grottesco, mio e degli altri”, dice. “Volevo riportare tutto sulla terra, smontarlo dal tono epico o vittimistico che avvolge queste storie. Una parte di me non ha mai smesso di ridere e prendere appunti, che spesso mandavo ai miei amici tramite messaggi”. Una volta riportati nel formato del romanzo, ha lavorato su tempi comici e linguaggio, con capitoli che sembrano racconti brevi. “L’ictus, alla fine, è stato un pretesto. Più che delle battute su un’emorragia cerebrale, ho fatto battute su cosa succede quando si ha un’emorragia cerebrale”.

Poverina s’inserisce in un filone di libri umoristici che finalmente sta definendo una dinastia anche in Italia. Fino a meno di dieci anni fa, erano pochissimi: i primi Fantozzi di Paolo Villaggio, il cult L’uomo di marketing e la variante limone di Walter Fontana, poco altro. Ora, da Valerio Lundini allo Sgargabonzi, si moltiplicano. “Credo che le nuova generazione di comici, quelli della stand-up comedy, sia abituata a scrivere i propri testi. Per loro, a quel punto, è anche più facile dedicarsi alla letteratura”, dice lei. Però è paradossale, a pensarci, perché si parla comunque di un periodo in cui in molti, tra comici e non, denunciano un irrigidimento della sensibilità generale nei confronti della satira.

Il motto è di quelli triti: “Non si può più dire niente”, la cosiddetta dittatura del politicamente corretto. Ecco, Galeazzi prende la strada contromano, scherza su un ictus. C’è un limite? “I limiti sono il contesto e l’autobiografia. Spesso ci mandano in bestia delle battute scritte su Twitter, senza che possiamo sapere niente del loro autore”, ammette. “In questo senso, il libro è perfetto: leggendolo saprete tutto su di me. Ma la mia comicità non rappresenta nessuno, e non nasce per confortare chi ha avuto un’emorragia cerebrale. Aver vissuto tutto questo sulla mia pelle, però, mi dà sicurezza a sufficienza per poterne parlare e rispondere a eventuali critiche”.

Ci tiene a precisare che comunque il racconto è fin troppo filtrato dai suoi stati d’animo, di allora e di quando l’ha scritto. Che, insomma, non è un reportage, non ha niente di oggettivo, ma è pura comicità. Sarà per questo allora che a leggere un racconto così, spoglio di ogni retorica, viene in mente, magari sbagliando, che la sua sia stata un’esperienza terribile, certo, ma non così terribile. Che, come diceva all’amica, chiunque avrebbe reagito come ha reagito lei, e che riderne sia quasi un gesto dovuto, naturale. La malattia è uno degli ultimi tabù. “La satira politica migliore è quella sul governo che non funziona e i monologhi più brillanti sull’amore nascono quando si viene mollati. A me è sempre sembrato ovvio: oppure bisogna ridere solo quando le cose vanno bene?”. ◆

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