L’estate italiana sarà caldissima, cortissima, cattivissima. Ma al di là del clima, e per chi non voglia passare l’agosto a parlare di microalleanze e s’interessi ai problemi sociali ed economici, di cosa si parlerà in questa campagna elettorale? Già da decenni, almeno dalla firma del trattato di Maastricht e poi del patto di stabilità e crescita, lo spazio della politica economica nazionale si è ristretto.
A meno di non proporre l’uscita dell’Italia dall’Unione europea – e nessun partito, nel momento in cui l’Unione ci assegna 191,5 miliardi da spendere in investimenti, si sogna di mettere questo suicidio nel suo programma – chi vincerà le elezioni si troverà davanti un sentiero già scritto. Da un lato, dovrà mettere in pratica il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), per ottenere le tranche di finanziamento successive ai 46 miliardi già incassati (modifiche al Piano si possono proporre, ma non sarebbero ben accette da Bruxelles); dall’altro, in caso di turbolenze sui mercati che facciano crescere eccessivamente la differenza di rendimento (spread) tra i titoli italiani e quelli tedeschi, dovrà sottomettersi alla ulteriore vigilanza prevista dal nuovo scudo della Banca centrale europea (Bce), varato proprio nel giorno della caduta del governo di Mario Draghi e del quale probabilmente l’Italia sarà il primo test.
Ma sarebbe sbagliato dedurne che, a questo punto, non c’è spazio per due (o più) opzioni di politica economica. O che, peggio, siamo alla solita riedizione del derby tra i moderati-europeisti-realisti –che grosso modo si propongono come i garanti in Italia dell’establishment europeo, infischiandosene della loro ex-base sociale e delle sofferenze di chi non arriva a fine mese – e la destra populista in campagna elettorale permanente, che interpreta quel disagio con promesse di spese e sgravi che non può mantenere. Sarebbe sbagliato perché molto è cambiato dal 2018, in Europa e in Italia.
Vista dall’Europa, la campagna elettorale italiana è pericolosa. Ma stavolta non solo e non tanto per l’Italia, quanto per l’Europa stessa. Che a fatica, e con continui rischi di tornare indietro, si è data degli strumenti attivi di bilancio con il piano Next generation EU (la cornice dentro la quale sta il Pnrr), finanziato con un embrione di debito comune assai ostacolato e mal visto dai falchi del nord; e ha confermato uno scudo di solidarietà contro la speculazione, dopo il “whatever it takes” del 26 luglio 2012 (esattamente dieci anni fa), anche questo ancora da mettere alla prova e rafforzare.
Non è solo l’Italia che si gioca l’aiuto e i soldi europei; ma anche l’Unione europea che, se l’Italia cede, si gioca la possibilità di andare avanti su una strada federale, solidale e progressista, nella cui difficilissima costruzione la leadership italiana dovrebbe avere un ruolo, tessendo le alleanze giuste e ponendo proposte attuabili. Le spinte a difendere solo gli interessi nazionali dei più forti sono sempre presenti, e aumenteranno in tempi di crisi; singolare e tragico sarebbe se anche i deboli, come noi, si associassero a queste spinte: un po’ come se i poveri votassero per i partiti che propongono di tagliare le tasse ai ricchi, come purtroppo è successo più di una volta da Donald Trump a Matteo Salvini.
Ai temi “vecchi” si aggiungono le nuove emergenze dell’inflazione e della crisi climatica
Capovolgendo il punto di vista, non è però vero che la partita italiana si gioca solo in Europa. Ammesso di mantenere gli impegni del Pnrr, e il relativo flusso di cassa, e di rimanere protetti sotto il nuovo scudo della Bce, erede più deboluccio del bazooka di Draghi, molto resta ancora da fare, e sarà tutta farina del nostro sacco.
Ci sono da fare le famose riforme, a partire da quella fiscale: il governo Draghi, retto da una solidarietà nazionale forzata, aveva presentato una legge di delega fiscale timidissima e reticente su molti punti, a partire dalla riforma del catasto, un classico esempio della realtà capovolta nella quale i piccoli proprietari poveri vengono convinti della bontà di una situazione che avvantaggia solo i grandi proprietari di case di lusso sottovalutate dal catasto.
C’è poi da rivedere il superbonus, scritto male e attuato peggio, anche qui per evitare una redistribuzione da Robin Hood all’incontrario, da chi ha di meno a chi ha di più. Mentre, lo ha ribadito pochi giorni fa l’Indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia, l’indice della disuguaglianza della ricchezza in Italia continua a crescere.
E ancora: è necessario difendere e rivedere il reddito di cittadinanza, che, ha certificato l’Istat, ha salvato dalla povertà mezzo milione di famiglie. E c’è il salario minimo, sul quale sarebbe il caso che i sindacati si dessero una scossa, evitando di difendere con i contratti nazionali uno status quo che penalizza milioni di lavoratori sottopagati e non contrattualizzati.
A questi temi “vecchi” si aggiungono le nuove emergenze dell’inflazione e della crisi climatica, strettamente connesse dato che l’aumento dei prezzi viene in gran parte dai costi dell’energia fossile. Se si pensa che la lotta all’inflazione non sia da affidare solo alla Banca centrale europea – con continui aumenti dei tassi che a loro volta ci butterebbero in recessione – bisogna trovare lo spazio per politiche dei e sui prezzi, nazionali e sovranazionali.
Per esempio, incentivando beni e consumi pubblici in luogo di quelli privati energivori; indirizzando gli incentivi alle costruzioni esclusivamente a questo scopo; ridisegnando in quest’ottica i luoghi e i tempi di lavoro, dopo la pandemia. Sono solo accenni, limitati e non certo esaustivi: ma non è di questo che varrebbe la pena di parlare, nella breve ma decisiva campagna elettorale che ci aspetta?
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