La proposta del Partito democratico (Pd) di aumentare la tassa di successione per i patrimoni sopra i 5 milioni di euro e finanziare con il ricavato una “dote” destinata alle ragazze e ai ragazzi di 18 anni è insieme minima, radicale e divisiva. Il che è un bene, in una campagna elettorale che si è occupata pochissimo, finora, dei temi seri e di proposte innovative, in particolare riguardo ai giovani.
La proposta è minima, perché sarebbe solo un piccolo passo di avvicinamento al livello al quale gli altri paesi europei tassano le eredità; inoltre rispetto alla situazione attuale, nella quale al momento della successione in linea retta (figli, coniuge, nipoti, genitori) si applica un’aliquota del 4 per cento per i patrimoni superiori a un milione di euro, si passerebbe a un’aliquota del 20 per cento, ma solo se il lascito supera i 5 milioni di euro, circostanza che riguarda, mediamente, non più di 500mila persone (l’1 per cento della popolazione).
Nonostante questi limiti la proposta è molto divisiva, lo schieramento di destra la usa per attacchi politici spesso strumentali, e forse non a caso non è presente nei materiali di propaganda che lo stesso Pd fornisce ai militanti. Quel che colpisce è che la proposta non è contestata solo dai più ricchi – si possono definire così coloro che hanno più di 5 milioni di euro in proprietà e risparmi – e da chi li rappresenta, sia in felpa o in doppiopetto. C’è una tendenza generale a dire: basta nuove tasse. A questo argomento si può rispondere: non sarebbe una nuova tassa, ma un modo per rendere più equa ed efficace una tassa che già esiste, chiamando gli eredi dei più ricchi a pagare un po’ di più al momento in cui incassano quello che non è il frutto di fatica o merito, ma del proprio privilegio di nascita.
C’è poi un’altra obiezione, fatta dallo stesso Draghi da presidente del consiglio quando il Pd avanzò per la prima volta la proposta: non è il tempo di prendere soldi, ma di darli. Che sarebbe uno slogan perfetto, se non fosse che fisco e contributi continuano a “prendere” in media il 40 per cento di quello che una persona guadagna lavorando, e zero dalla ricchezza ricevuta in eredità; e che in aggiunta è arrivata la tassa da inflazione, a prendere tanta parte del nostro potere d’acquisto quotidiano.
Dunque, forse è il momento di prendere qualcosa a chi ha (sempre) di più, e dare qualcosa a chi ha (sempre) di meno. Non sarebbe certo la sanatoria della profonda ingiustizia del sistema fiscale italiano, il cui peso grava in modo sproporzionato sul lavoro dipendente; ma sarebbe una piccola correzione di rotta, nella direzione giusta.
I soldi così ricavati sarebbero usati per finanziare un assegno di 10mila euro destinato a chi ha 18 anni, ed è questo che rende la proposta è radicale. L’idea ha un padre nobile, l’economista Tony Atkinson, uno dei massimi studiosi della disuguaglianza, morto nel 2017. Atkinson proponeva di dare a ogni persona, in quanto componente della società, una dote di partenza, abbastanza consistente e incondizionata, per riequilibrare le disuguaglianze che ci sono alla nascita. La proposta è stata studiata, adatta alla situazione italiana e rilanciata dal Forum diseguaglianze e diversità di Fabrizio Barca. Il Pd l’ha fatta sua, anche se mitigandola.
Tutte le critiche ignorano un fatto: è una proposta limitata e specifica, sull’uso di fondi ottenuti con un’altra misura limitata e specifica
A quanto si sa, la “dote di cittadinanza” non andrebbe a tutti i ragazzi e le ragazze di 18 anni, ma sarebbe distribuita in base al reddito e alla condizione familiare: si stima che la riceverebbero 280mila diciottenni, circa la metà del totale. Ci sarebbe l’obbligo di usarla per attività di formazione, per lanciare un’attività imprenditoriale o per comprare una casa. Insomma, si possono sperperare i soldi di papà e mamma, non quelli dello stato.
Anche con questi accorgimenti, la proposta è stata molto criticata: perché continua a puntare sui “bonus” monetari, invece che su cambiamenti strutturali delle condizioni di vita e lavoro; perché favorirebbe anche chi non ha strettamente bisogno; perché persone con più anni di età, senza lavoro o con lavori precari e magari con figli, hanno più problemi dei diciottenni che ancora vivono con i genitori; perché è una mancia a chi va a votare per la prima volta.
Tutte queste critiche ignorano un fatto: è una proposta limitata e specifica, sull’uso di fondi ottenuti con un’altra misura limitata e specifica (l’imposta di successione per l’1 per cento molto ricco). Non è alternativa alle misure per contrastare i lavori sottopagati, gli squilibri tra lavoratori e lavoratrici, gli affitti troppo alti, le bollette impazzite: anzi, deve necessariamente andare di pari passo con queste. E in particolare con la riforma della cittadinanza, per non escludere i diciottenni italiani di fatto ma non di diritto.
In questa limitatezza, la proposta è comunque innovativa e radicale, perché per la prima volta mette il potere – i soldi – nelle mani dei giovanissimi, e non come elemosina o come paghetta dei genitori (ricchi), ma come diritto. Cosa che non piace ai più grandi, e neanche ai loro genitori, che sono la schiacciante maggioranza. Sarà per questo che se ne parla poco o male. Sarebbe il caso di ascoltare, in proposito, il parere dei diretti interessati, i 571.994 che compiono 18 anni nel 2022.
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