L’11 febbraio, durante una visita in città, il presidente del consiglio Mario Draghi ha dichiarato che “la storia recente di Genova, e il coraggio dei genovesi, ci mostrano soprattutto come ripartire dopo una tragedia”. Le parole di Draghi sembrano suggerire un parallelismo tra quanto ha fatto Genova con i fondi per la ricostruzione dopo il crollo del ponte Morandi il 14 agosto del 2018, che causò 43 vittime, e quanto può fare l’intero paese dopo la pandemia, grazie ai soldi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).
L’idea che Genova sia ripartita dopo anni di declino è centrale nella comunicazione del sindaco Marco Bucci, di centrodestra, che ha anche l’incarico di commissario per la ricostruzione. Adesso gli elettori decideranno se confermarlo sindaco: Genova è infatti tra le città in cui il prossimo 12 giugno verranno rinnovate le amministrazioni comunali.
Non tutti però condividono l’ottimismo di Bucci. “Sfido chiunque a venirlo a dire a me, che c’è una ripresa: da qui la gente scappa, sempre che riesca a vendere casa e negozio”, dice Massimiliano Braibanti, proprietario di un centro estetico a Certosa, il quartiere affacciato sul torrente Polcevera, poche centinaia di metri a nord del ponte crollato.
Qui si sarebbero dovuti concentrare gli aiuti dopo la tragedia, ma così non è stato. Dei 30 milioni di euro di fondi una tantum previsti per sostenere le attività commerciali, ne sono stati spesi poco più di 16, gli altri sono tornati allo stato. Quelli utilizzati, come ricostruito da un’inchiesta di Marco Grasso, iniziata sul quotidiano cittadino Il Secolo XIX e continuata sul Fatto quotidiano, in buona parte sono andati a studi legali, notai e commercialisti con sede nel centro della città e a boutique di lusso. Inoltre gli sgravi fiscali per incentivare le nuove imprese hanno premiato società a responsabilità limitata oggetto di sequestri preventivi per mafia, un hotel a ore, imprese che sembrano rimandare ad attività fantasma. La procura della repubblica ha aperto un’indagine per truffa ai danni dello stato.
Le serrande chiuse dei negozi
Braibanti, che è presidente del Comitato zona arancione ponte Morandi, è tra quelli che non ha preso un euro, ma almeno è riuscito a tenere aperta la sua attività. “Proviamo a tirare avanti”, racconta, “ma molti si sono arresi: in via Jori ci sono 150 metri di serrande chiuse”.
Passeggiare per Certosa in primavera è piacevole: le vie sono state rimesse a nuovo, i bar hanno i tavolini nelle piazzette, i palazzi sono stati ravvivati con grandi murales, il più noto di tutti ritrae Fantozzi. “Stuccô e pittûa fan bella figûa”, dicono però i critici dell’attuale amministrazione. Si tratta di un proverbio genovese secondo cui, se devi vendere una nave vecchia, lo stucco e una mano di pittura la fanno sembrare nuova, anche se sotto rimane la ruggine.
In realtà durante il primo mandato di Bucci, a cui in qualità di commissario viene riconosciuto il merito di aver portato a termine i lavori per il ponte senza troppi ritardi, alcuni grandi progetti strategici che da anni erano fermi sono stati avviati. Uno su tutti: il rifacimento del lungomare tra l’attuale area del porto antico e la foce del Bisagno, su disegno di Renzo Piano. Al posto della vecchia fiera troveranno spazio aree verdi e residenze di lusso.
Per molti genovesi è un cambio di passo significativo dopo la lunga stagione del centrosinistra che ha governato da metà degli anni novanta al 2017, e che nell’ultimo periodo si era distinto per un sostanziale immobilismo. Ma questo non vuol dire che il declino della città sia stato arrestato. Così lo sfidante Ariel Dello Strologo, a capo di un’ampia coalizione rosso-gialla che va dai partiti a sinistra del Partito democratico fino al Movimento 5 stelle, nei sondaggi è quindici punti dietro.
A Certosa le serrande si abbassano, i valori immobiliari crollano e, dall’altra parte del torrente, le vecchie industrie sono sempre più rare, soppiantate da grandi magazzini che non garantiscono quei buoni posti di lavoro che erano stati promessi. “Qui un cinque vani senza ascensore, piano alto, lo vendiamo a 32mila euro”, racconta Carmelo Albanese, consulente della Grimaldi-Gabetti immobiliare.
“La gente se ne va, non ci sono aree verdi, non ci sono scuole, non c’è lavoro per i giovani”, sostiene Enrico D’Agostino, presidente del comitato Liberi cittadini di Certosa. In piazza il comitato raccoglie firme per chiedere nuovi parcheggi: il quartiere è infatti stretto tra i cantieri per la metropolitana e la nuova linea ferroviaria ad alta velocità Genova-Milano che servirà anche il porto. Qui, a pochi metri dalle case, passeranno i treni merci lunghi settecento metri, fino a 40 al giorno. Come molte altre periferie di Genova, Certosa ha sempre meno abitanti, sempre più vecchi, case vuote, una qualità della vita minacciata dalle servitù industriali.
Se si guarda alle sue vecchie fabbriche, alle botteghe familiari nel centro storico, al porto dove resiste la Compagnia unica dei lavoratori – i camalli – mentre nel resto del paese la logistica è deregolamentazione selvaggia, si potrebbe pensare che Genova sia una città ferma nel passato, nel bene e nel male. Ma dal punto di vista demografico, è invece il futuro del paese, lo precede di circa vent’anni.
Una città che si spopola
Nel 1965 la città raggiuge il suo picco di abitanti, oltre quota 848mila. Il declino comincia con la deindustrializzazione degli anni ottanta e novanta: le famiglie smettono di avere figli, o decidono di averne uno solo. Agli inizi degli anni duemila la città ha poco meno di 610mila abitanti. “Risale un po’, grazie alle immigrazioni e a nuovi posti di lavoro nel turismo e nei servizi, fino a oltre 620mila abitanti nel 2005”, spiega Marco De Silva, dell’ufficio studi Cgil. “Ma dopo, turismo e immigrati non bastano più a contrastare il trend”.
Nel 2017, quando Bucci diventa sindaco promettendo di riportare la città a 700mila abitanti, Genova ha una popolazione di 580mila persone. Ma nel 2021 – secondo dati Istat del 2022, ancora provvisori – i residenti sono poco meno di 561mila: una perdita di circa un terzo in poco meno di cinquant’anni. Il sindaco contesta i dati: se si conteggiano le celle telefoniche che registrano chi gravita sulla città, in realtà si scopre che ci sono 650mila persone, sostiene. Ma le statistiche ufficiali dicono altro.
“Se guardiamo all’età media della popolazione, l’Italia con i suoi 45 anni si trova più o meno dove si trovava Genova nel 2002, quando l’età media era 45,6. Ma oggi a Genova l’età media è cresciuta a 47,4 anni, 2,4 in più che nel resto del paese. Un elettore su quattro ha più di 65 anni” spiega Luca Beltrametti, ordinario di economia all’università di Genova. “È un circolo vizioso”, aggiunge, “e dovremmo abbandonare la retorica della silver economy secondo cui la presenza degli anziani può essere un elemento di dinamismo, perché non è così”.
Gli occupati nel comune di Genova nel 2021 sono 223.979, ben sotto la metà della popolazione residente e circa seimila in meno rispetto al 2018 del crollo del ponte Morandi, anche se rispetto al 2020 sono cresciuti.
Secondo Igor Magni, segretario Cgil della camera del lavoro, “Genova non ha più una manifattura forte e lo sta pagando. Per alcuni anni i servizi, il commercio e il turismo hanno garantito un’offerta di posti di lavoro che ha compensato la desertificazione industriale, ma oggi siamo arrivati al limite e i nuovi occupati sono precari, stagionali, con stipendi che non consentono di uscire dalla povertà”. Genova, sostiene Magni, “ha alcuni punti di forza, ma oggi non vedo una classe imprenditoriale in grado di investire”.
La desertificazione industriale
I maggiori terminal container del porto sono gestiti da una società di Singapore, Costa Crociere fa parte di un gruppo nordamericano. La rivale Msc, attiva anche nel trasporto container e nei traghetti, è di Gianluigi Aponte, imprenditore campano la cui azienda ha sede in Svizzera.
La famiglia Perrone ha venduto il Secolo XIX al gruppo Gedi, di cui è diventata un piccolo azionista. Carige, vent’anni fa uno dei maggiori poli creditizi del paese, è stata ceduta al prezzo simbolico di un euro a Bper senza che la famiglia Malacalza sia riuscita a rilevarne il controllo. Rispetto al futuro della città, le grandi famiglie cittadine sono diventate irrilevanti.
E poi ci sono le acciaierie, dove la crisi è ininterrotta da quando nel 2005 a Genova fu spento l’altoforno: un accordo con i proprietari di allora, la famiglia Riva, si prefiggeva l’obiettivo di traghettare il polo genovese dell’Ilva verso una produzione più pulita, preservandone l’occupazione.
Ma gli operai che sono entrati in fabbrica a inizio degli anni duemila non hanno mai vissuto anni in cui lo stabilimento non fosse interessato dalla cassa integrazione. Adriano Garofalo, 47 anni, operatore di banchina, è uno di questi: “Io credo che il paese non possa fare a meno di lavorazioni come l’acciaio. Non credo che in una città senza fabbriche le mie figlie troveranno lavoro”. Lunedì scorso lo stabilimento era in sciopero dopo che domenica mattina un cavo, spezzandosi, ha causato la caduta di una bobina.
Dopo un secondo incidente martedì, l’Asl3 ha ordinato il fermo del ciclo di lavorazione della latta per motivi di sicurezza e i lavoratori sono stati messi in cassa integrazione. Gli investimenti sono al palo, le manutenzioni anche, dicono i sindacati.
La storia di Genova racconta quanto sia difficile risalire la china una volta imboccata la strada del declino industriale e demografico e di come sia del tutto impossibile farlo senza attirare capitali e persone che vengono da fuori. Grazie ai soldi del Pnrr, oggi la città scommette sulla nuova diga per il porto, un’opera da un miliardo di euro che consentirà di accogliere meglio le grandi navi portacontainer.
Senza una regia
Con il collegamento ferroviario veloce con l’Oltre Appennino attualmente in costruzione, un’opera da 7 miliardi di euro attesa da oltre trent’anni, Genova vuole diventare il porto della Svizzera e della Baviera, non più solo del nord Italia.
Ma l’operazione non è priva di rischi e avrà ricadute positive sull’occupazione solo se l’Italia riuscirà a trattenere la merce sul territorio per le lavorazioni nei centri logistici. Tuttavia la zona logistica semplificata che dovrebbe estendersi nell’entroterra cittadino, prevista dal decreto Genova del 2018, è ferma al palo “perché il governo non ha nominato il commissario straordinario”, spiega Giampaolo Botta, direttore dell’associazione degli spedizionieri genovesi. “Per Genova”, dice ancora Botta, “significherebbe cinquemila nuovi posti di lavoro”.
Ma senza una regia precisa, il rischio è che il porto sia solo il punto terminale di un tunnel per i container diretti verso nord, che lascia poco sul territorio.
Accanto al porto, l’altra grande scommessa è l’alta tecnologia, su cui da anni insistono manager come Carlo Castellano. Fondatore quarant’anni fa dell’Esaote, che fa apparecchi per la diagnostica medica, è stato tra i promotori, nel 2003, di Genova Hi Tech, un progetto finalizzato a raggruppare le maggiori aziende cittadine attive nell’alta tecnologia in un distretto sulla collina degli Erzelli, nel ponente genovese.
Vent’anni dopo il distretto è realtà ma è ben lontano dagli obiettivi che ci si era prefissati: le aree sono sfruttate solo in parte e il trasferimento della facoltà di ingegneria non è stato ancora realizzato.
Più fortuna ha avuto l’Iit, l’Istituto italiano di tecnologia che il governo Berlusconi decise di far partire a Genova nei primi anni duemila e che oggi conta quasi duemila addetti, in gran parte ricercatori stranieri che lavorano nella sede di Morego, nell’entroterra genovese, su applicazioni tecnologiche di frontiera nei settori della robotica e dei nanomateriali.
“Erzelli e Iit sono primi passi, ma la città deve andare più veloce, investire sulla scuola, sulla formazione, attrarre investitori stranieri anche con politiche mirate di sgravi, come ha fatto Dresda in Germania. Le infrastrutture sono fondamentali, ma non bastano”, dice oggi Carlo Castellano.
Houman Bahmani Jalali, un ricercatore iraniano di 33 anni che lavora all’Iit da due, riassume così gli aspetti critici: “Ho scelto di venire qui per l’Iit, non per Genova, che ha un buon clima ma è una città anziana, ben poco internazionale e con una burocrazia difficile, dove non si parla inglese nemmeno all’ufficio immigrazione. Genova dovrebbe fare di più per attirare giovani stranieri qualificati”.
Troppo cemento
Durante la campagna elettorale del 2017 l’allora candidato Bucci inciampò in una gaffe quando, in un’intervista su Panorama, dichiarò che Genova sarebbe potuta diventare “il più bel sobborgo di Milano”, ben collegato grazie ai treni veloci. La città, in realtà, sta provando a percorrere molte strade per essere qualcosa di più che un satellite del capoluogo lombardo, per quanto di lusso.
Ma se continuasse lo spopolamento, se l’obiettivo di portare nuovo lavoro fallisse, non si può escludere un futuro fatto di residenze eleganti sul mare, un centro storico magari ripulito, periferie sempre più invecchiate, con palazzi svuotati e quartieri fantasma.
Il restringimento della città è già iniziato: a ottobre è stata abbattuta la Diga, un grande complesso residenziale popolare costruito nel 1980 nella periferia di Begato. C’è troppo cemento, concepito per un numero di abitanti che Genova difficilmente tornerà ad avere. E questo è un problema grave per una delle città italiane più soggette al cambiamento climatico.
Tra i grandi cantieri degli ultimi anni, un buon numero riguarda opere di mitigazione per evitare che le piene dei torrenti travolgano auto e persone, come è successo sempre più spesso negli ultimi vent’anni. Anche in questo Genova affronta oggi problemi che in un futuro prossimo saranno comuni a molte parti d’Italia.
Il 12 giugno a Genova si voterà per il rinnovo dell’amministrazione comunale. Il sindaco attuale, Marco Bucci, è stato eletto il 25 giugno 2017 come candidato indipendente a capo di una coalizione di centrodestra di cui facevano parte Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia e liste civiche. Ha ottenuto il 55,24 per cento dei voti al ballottaggio sconfiggendo Gianni Crivello, esponente del Partito democratico sostenuto anche da alcune liste civiche. Bucci al primo turno aveva ottenuto il 38,8 per cento contro il 34,4 per cento di Crivello, mentre Luca Pirondini, del Movimento 5 stelle, il 18,1 e Paolo Putti, ex cinquestelle orientato a sinistra, il 4,9.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it