“Si dovrebbe trattare l’incongruenza di genere come una condizione simile alla gravidanza: richiede attenzione medica ma non è una patologia”, dice Mattia, attivista dell’associazione Gruppo trans e uomo trans che vive in prima persona le trasformazioni della struttura sanitaria italiana sulla presa in carico della salute delle persone transgender. Da un lato, spiega, “negli anni la società italiana ha acquisito una nuova consapevolezza: la persona trans non è più solo un soggetto medicalizzato, ma un individuo con un’identità di genere non sempre determinata dal corpo. Questo trova conferma nella sentenza della corte costituzionale del 2015 che ha svincolato il cambiamento di genere anagrafico dall’intervento chirurgico sugli organi genitali. Resta il problema della legge 164 del 1982 che ancora dice il contrario e andrebbe abrogata”.
Le persone transgender, che secondo le stime dell’Istituto superiore di sanità sarebbero tra lo 0,5 e l’1,2 per cento della popolazione totale, sono individui che, in modo transitorio o persistente e con modalità diverse, si identificano con un genere diverso da quello assegnato alla nascita in base all’osservazione degli organi genitali esterni. Negli ultimi anni si è andata affermando l’idea che essere transgender non implichi necessariamente una “correzione” del corpo. L’identità di genere viene definita come la percezione che una persona ha di sé, a prescindere dalle caratteristiche anatomiche e fisiologiche. Fino al 2015 la legge italiana ammetteva la richiesta di cambio di nome e di genere all’anagrafe solo se accompagnata da un percorso medico mirato a una transizione fisica: per essere donna, per esempio, bisognava rimuovere il pene e ricostruire una vagina. La maggiore comprensione dei giudici del concetto di identità di genere, espressa attraverso la sentenza della corte costituzionale del 2015, ha però cambiato lo scenario e oggi permette alle persone trans di cambiare il nome sui documenti d’identità senza dover passare dalla rimozione o trasformazione dei propri caratteri sessuali primari e secondari.
Tuttavia la richiesta di interventi resta alta. Sul fronte medico il progresso scientifico permette una maggiore scelta, sia per quanto riguarda l’età di inizio del percorso di affermazione, che si sta abbassando, sia per quanto concerne i diversi interventi ormonali e chirurgici per compierlo. “È una tematica poco conosciuta, anche dai professionisti”, spiega Alessandra Fisher, endocrinologa che svolge attività ambulatoriale per persone con incongruenza di genere in età evolutiva e adulta nell’ospedale Careggi di Firenze: “Durante la gravidanza i genitali, l’elemento biologico considerato per assegnare il genere, sono influenzati dagli ormoni, ma lo stesso accade al sistema nervoso centrale, che è anch’esso un elemento biologico. Può accadere che genitali e sistema nervoso vadano in due direzioni diverse, generando l’incongruenza tra genere assegnato alla nascita e genere percepito”.
“Quello che non si dice mai è che essere transgender è un possibile esito dello sviluppo”, spiega la psicologa Jiska Ristori, attiva a Careggi. “Siamo nel pieno di un movimento di depatologizzazione della transessualità: nella classificazione internazionale delle malattie Icd-11, rilasciata dall’Organizzazione mondiale per la salute, non si parla più di disturbo ma appunto di incongruenza. È un passo avanti”.
Non sono un maschio
Per Greta, la mamma di Emily, accettare che sua figlia fosse transgender è stato naturale: “A quattro anni mi ha detto: ‘Non sono un maschio, sono una femmina’. Prima di dirmelo si svegliava di notte, non dormiva. Io nel mio cuore lo sapevo, è sempre stata diversa. Ora vivo in Germania e non tornerei in Italia perché ho paura della chiusura e della carenza di strutture dedicate. Qua siamo andate dalla psichiatra infantile non perché Emily sia considerata malata, ma solo per assicurarci che lo stigma sociale non la danneggiasse. Emily sta bene, è integrata e serena”. Per quanto riguarda il corpo le cose sono meno semplici: “Intorno ai sei anni ha chiesto: perché io ho il pisello e le altre la vagina? Il pisello per ora lo ha accettato ma se più avanti dovesse chiedermi i bloccanti, io non avrò obiezioni”, continua Greta. “I cosiddetti farmaci bloccanti dello sviluppo puberale, previo consenso dei genitori,vengono somministrati tramite iniezione già dal secondo stadio di pubertà – verso i 12 o 13 anni – e servono a desensibilizzare l’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi che attiva la produzione degli ormoni da parte di ovaie o testicoli”, spiega la dottoressa Fisher. “I bloccanti sospendono lo sviluppo: non spunta la barba o il seno, non si abbassa la voce, non ci sono le erezioni spontanee, e in questo modo si concede alla persona più tempo per riflettere e ponderare un eventuale percorso di affermazione di genere”.
Inizialmente utilizzati solo per i casi di pubertà precoce, dal 2018 l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha esteso l’uso di farmaci bloccanti alla cosiddetta adolescenza atipica. L’Aifa aveva chiesto parere al Comitato nazionale per la bioetica che si è espresso in favore, raccomandando però di adottare un approccio di prudenza e affidare la diagnosi e la proposta di trattamento a un’équipe multidisciplinare che valuti caso per caso. Uno dei pochi ospedali in Italia che possono garantire questo tipo di approccio è appunto il Careggi di Firenze. Nel 2014 Fisher e Ristori hanno deciso di aprire un ambulatorio dedicato all’affermazione di genere negli adolescenti, a cui negli anni si è rivolto un numero sempre crescente di persone. “All’inizio non eravamo preparate, quindi siamo andate nei Paesi Bassi, in una clinica attiva dagli anni ottanta, e abbiamo cominciato a portare in Italia alcuni protocolli per l’uso dei bloccanti. Osservando le sedute olandesi vedevo la concreta possibilità di dare una vita diversa alle persone, senza costringerle al travaglio psicologico che in Italia sembrava un requisito per l’accesso ai trattamenti”.
Il percorso multidisciplinare, che segue le linee guida del Wpath (World professional association for transgender health, un’organizzazione mondiale che propone gli standard di cura per la salute delle persone trans), prevede un supporto psicologico di circa sei mesi. “Questo però”, spiega Ristori, “non mira a una diagnosi e non avvalora l’iter medico: chi sono io per dire a qualcuno tu sei uomo o donna?”. “Quello che vogliamo”, prosegue, “è garantire un percorso individuale a ogni persona, perché non tutti gli adolescenti e le adolescenti trans soffrono rispetto al loro corpo. L’obiettivo è aiutarli a raggiungere il massimo benessere con il minimo intervento. L’identità di genere non dovrebbe essere la cosa più importante nella vita di una persona. E infatti di solito capisco che i ragazzi o le ragazze stanno meglio quando i genitori ci chiamano perché l’adolescente ‘salta’ scuola o fuma, cioè quando comincia ad avere i problemi tipici della sua età”.
Adolescenti vulnerabili
“Delle circa 45 persone che abbiamo in caricoper incongruenza di genere, circa un quarto ha chiesto di modificare anche il corpo”, spiega Fisher.“Ma solo parte della sofferenza deriva dal sentirsi dentro un corpo che non è il proprio”, aggiunge Ristori. “Spesso la sofferenza nasce anche dal vivere in un ambiente transfobico o dalla cosiddetta transfobia interiorizzata”, cioè il disprezzo di sé che la persona ha introiettato dall’ambiente circostante. “La letteratura scientifica sugli adolescenti ci dice che sono psicologicamente più vulnerabili dei coetanei, soprattutto a causa del bullismo strutturato: l’Italia è il secondo paese in Europa per aggressioni verso le persone trans”, spiega Ristori.
“Il contesto culturale influisce molto”, spiega Camilla Vivian, blogger e autrice di Mio figlio in rosa (Manni 2017), considerato un riferimento per molti genitori di figli trans. “L’altro giorno un ragazzo mi ha scritto che in Italia non usciva mai senza binder – la fascia per nascondere il seno – mentre da quando è in Spagna, dove nessuno ti guarda storto, si dimentica di metterlo. Con mia figlia è stato simile: ha sempre rotto le palle per mettersi la gonna e dei vestiti kitsch che io avrei evitato, ma da quando ha cominciato la terapia ormonale la gonna è sparita. L’iperfemminilizzazione è spesso una reazione: anche il passing, il passare per uomo o donna cisgender, è proprio un tentativo di evitare scocciature e sensazioni di inadeguatezza”, dice ancora Vivian.
L’altro obiettivo psicologico dell’approccio multidisciplinare è verificare che ci siano aspettative realistiche rispetto ai bloccanti: “Se l’adolescente si aspetta di mascolinizzare o femminilizzare il corpo, noi gli spieghiamo che con questa cura il corpo viene lasciato in una condizione prepubere reversibile che dura al massimo quattro anni. In questo modo la terapia ormonale, che invece è reversibile solo parzialmente, viene posticipata in avanti. Anche se poi alla fine del periodo nella maggior parte dei casi si sceglie comunque di farla”, spiega Fisher.
Proprio sui bloccanti gravano le polemiche più accese: “Ci hanno accusato di fare esperimenti sui bambini, hanno parlato di eugenetica”, racconta Ristori. “È ovvio che dei criteri vanno fissati, perché la maturità cognitiva di una persona di 12 anni non è scontata, ma una presa in carico precoce – che spesso manca per impreparazione dei medici di base – porta a risultati migliori. Oltre a evitare un’importante sofferenza psicologica, si fa a meno anche degli effetti irreversibili degli ormoni. Se una persona che s’identifica come femmina arriva alla terapia ormonale a vent’anni, sulla voce ormai non possiamo fare nulla, stessa cosa per il seno a chi si identifica come maschio, che a quel punto dovrà essere rimosso”, spiega Fisher.
I maschi trans sono sempre stati meno visibili, solo ora cominciano ad avere operazioni pensate ad hoc per loro
La somministrazione dei bloccanti generaperplessità in una parte della comunità scientifica: nel 2021 i sistemi sanitari svedese e finlandese hanno inasprito le proprie linee guida per il trattamento dei minori con incongruenza di genere, restringendo l’utilizzo dei bloccanti nei soli casi di disforia di genere manifestata nell’infanzia, che durano nel tempo e provocano un disagio evidente,escludendo per esempio casi di adolescenti che manifestano disforia di genere verso i 13 o 14 anni. L’ottava edizione degli standard Wpath, per ora in bozza, contiene aggiustamenti simili: l’adolescente deve provare una lunga storia di incongruenza ed è richiesta una valutazione psicologica per comprendere il contesto di provenienza ed eventuali sovrapposizioni con altre condizioni legate alla salute mentale.
Le ragioni di questa inversione sono state l’esplosione del numero di adolescenti che richiedono il trattamento negli Stati Uniti, la scarsa produzione di evidenza scientifica legata ai trattamenti e i loro possibili rischi di lungo periodo sulla salute: “Certo, ancora non sappiamo molte cose: il bloccante per esempio sospende l’acquisizione di massa ossea”, osserva la ginecologa Cristina Meriggiola dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna, a cui fa riferimento il Movimento identità trans (Mit). “Con l’introduzione degli ormoni cross-sex - cioè quelli che permettono lo sviluppo delle caratteristiche sessuali secondarie desiderate - l’osso riprende però lo sviluppo. Sono rischi minori rispetto alle reali idee suicidarie che queste persone intrattengono.”.
“Credo che un percorso serva. Per me l’attesa della terapia ormonale è stato il momento in cui ho preso consapevolezza, anche come attivista”, racconta Francesco Brodolini, uomo trans. “Noi maschi trans siamo sempre stati meno visibili rispetto alle donne trans e solo ora cominciamo anche ad avere operazioni ad hoc”. “La mastectomia per un uomo trans non è come la riduttiva di una paziente oncologica”, spiega la chirurga Giulia Lo Russo di Firenze. “Si tratta proprio della creazione di un torace maschile, in cui ricreiamo i capezzoli piccoli e laterali tipici dell’uomo. A fare questa chirurgia siamo pochi in Italia: questi ragazzi possono finalmente andare al mare a torso nudo. Ne opero circa otto nel pubblico e sei nel privato al mese. Il fenomeno è trasversale: sotto il mio bisturi sono passati notai, avvocati, gondolieri, pizzaioli, a breve opererò una ex suora di 61 anni”. “Ho tolto l’abito per motivi che esulano dalla transizione”, spiega Ruan, operatore sociale nello stesso centro in cui lavorava quando era suora. “Poi un giorno ho visto in tv una persona che si era levata il seno e ho finalmente preso coscienza di me: sono un uomo e sono etero. Quando arriverò da Dio non mi chiederà qual è il mio sesso, perché me l’ha fatto lui. Il percorso mi spaventa per l’età che ho, ma sento che è giusto e mi sento privilegiato a poterlo fare gratuitamente”.
In effetti il percorso di affermazione di genere è in buona parte a carico del sistema sanitario nazionale: “Sulla carta il servizio funziona”, racconta Vanessa, donna trans di Torino. “Hai una diagnosi, prenoti una visita gratuita all’istituto auxologico a Milano e cominci il piano terapeutico con bloccanti ed estrogeni. Però la verità è che prima di un anno non otteni un piano terapeutico. Io, potendolo fare, ho preferito passare dal privato. Ma forse questo è un problema generale della sanità pubblica. Inoltre gli interventi che migliorano il passing, come il raschiamento della trachea per la voce o la limatura degli zigomi, dovrò pagarli di tasca mia e li trovo quasi più prioritari dell’intervento ai genitali. Gli psicologi ti mettono subito davanti all’evidenza: accetta il tuo corpo com’è perché non sarai mai donna biologica. Però la medicalizzazione è utile. Per me esiste una via di mezzo: si costruisce la propria identità al di là del corpo, ma non si può far finta che non ci sia né pensare che sia un tempio inviolabile”.
“È importante informarsi”, spiega Francesco Brodolini, “io ho scelto di avere un’isterectomia (asportazione dell’utero) tramite laparoscopia perché, se mi avessero inciso, le aderenze avrebbero complicato un eventuale intervento di costruzione del pene. Alla fine ho optato per una metoidioplastica, che allunga l’ipertrofia clitoridea, con chiusura del canale vaginale e ricostruzione di testicoli e uretra: posso fare la pipì in piedi e il clitoride è come un minipene, molto sensibile grazie al testosterone”.
“Non esiste un solo intervento di falloplastica”, spiega Marco Falcone, urologo del Cidigem, Centro interdipartimentale disturbi identità di genere delle Molinette di Torino. “E le richieste non sono tutte le stesse: più vuoi, più rischi. Se si vuole un pene con canale urinario è previsto un 30 per cento di complicanze e se si vuole la protesi c’è la possibilità che dopo un anno si debba cambiare. Quasi tutti però scelgono di andare fino in fondo. A oggi, trasferendo tessuti innervati dall’avambraccio è possibile ricostruire un fallo con una buona sensibilità che però non avrà mai i corpi cavernosi necessari per un’erezione. Per quella esiste una protesi con un sistema idraulico che si gonfia e riproduce un’erezione. L’obiettivo è provare a ricostruire quello che loro si sono sempre immaginati di essere”.
“Mi sembra comunque ci sia meno disforia rispetto all’assenza di pene”, osserva Lo Russo. “Chiesi una volta a un paziente: ‘Lo vuoi un pene?’, e lui mi rispose: ‘Perché? Ne ho cinque in borsa!’”.
Conferme sociali
Cambiare la propria anatomia non è un processo solitario, spiega Vanessa: “Fosse per me mi sarei già messa in lista per la vaginoplastica al Mauriziano di Torino, ma mia moglie e mia figlia hanno bisogno di tempo, e io non le lascio indietro. La mia priorità per il momento è vivere apertamente la mia identità ed espressione di genere, e avere conferme sociali”.
“Lavoriamo per una sanità più inclusiva, meno ingabbiata da quella crocetta sulla f o sulla m”, spiega ancora la ginecologa Meriggiola. “Già dalle scuole di medicina e infermieristica le persone trans devono essere visibili”.
“Sono arrivata al Bufalini, dove operiamo uomini trans, da ignorante in materia, poi ho imparato”, spiega Gemma Panti, infermiera all’ospedale di Cesena. “Si presentano già con un aspetto maschile ma se non hanno cambiato i documenti, sulla cartella clinica c’è il nome da femmina, e io mi segno il nome che si sono scelti, per evitare di sbagliarmi. È l’unica accortezza che uso, per il resto sono pazienti come gli altri”.
“Le persone trans, con o senza documenti rettificati, sono scomodissime per il sistema sanitario. Io da quando sono Mattia, e quindi ‘m’ per lo stato, in pratica non posso prenotare una visita ginecologica con il Sistema sanitario nazionale e non ricevo più gli avvisi per il pap test, pur avendo un utero che necessita prevenzione. Però ho amiche che ricevono questi avvisi e hanno un pene”, racconta Mattia. “Oppure, se hai appena cominciato la transizione e sui documenti risulti ancora come Elisabetta ma ti percepisci come Giovanni, succede che la richiesta di essere chiamato Giovanni venga ignorata dal personale medico. Molte persone trans preferiscono trascurare i controlli piuttosto che esporsi a questo disagio”.
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