Il terreno è recintato e sembra abbandonato. Sulla rete spiccano cartelli appesi di recente: “Basta rifiuti. Da qui non passerete”, proclama uno. “Gualtieri. Basta veleni”, si legge su un altro. Sul ciglio della strada ci sono cumuli di immondizia lasciati chissà da chi.
Siamo a Santa Palomba, nel luogo dove il sindaco di Roma Roberto Gualtieri prevede di costruire un termovalorizzatore da 600mila tonnellate all’anno per risolvere l’annoso problema dei rifiuti della capitale. “Dovrebbero farlo qui perché è un terreno comunale, anche se non c’è stata ancora nessuna comunicazione ufficiale”, sottolinea Paolo Ceccarelli, storico presidente del comitato di quartiere. Che aggiunge: “Ancora una volta il nostro territorio viene sacrificato”. A meno di un chilometro di distanza da qui, ai margini del comune di Albano, c’è la discarica di Roncigliano, dove sono stati portati i rifiuti di Roma dall’estate scorsa fino a marzo, quando è stata messa sotto sequestro dalla magistratura.
Santa Palomba è tecnicamente una confluenza intercomunale: un vasto spazio che non ha rappresentanza istituzionale propria, ma è diviso tra i comuni di Roma, Albano, Ardea e Pomezia. Percorrendo in macchina le strade punteggiate dai capannoni industriali costruiti negli anni sessanta, Ceccarelli indica via via in quale comune ci troviamo. Spesso la stessa strada è per metà di pertinenza di un’amministrazione, per metà di un’altra. “Siamo un territorio quattro volte periferico ed è anche per questo che ci hanno scelto per questo nuovo impianto”. Il presidente ricorda quando qui era tutta campagna. Suo padre coltivava più di 20 ettari di terreno. Poi, con i fondi della Cassa del mezzogiorno, sono comparsi i capannoni. Ora, con la crisi dell’industria, l’area sembra destinata a diventare un polo logistico e un centro di gestione dei rifiuti. L’enorme hangar di Amazon appena inaugurato è il simbolo della prima trasformazione, il termovalorizzatore annunciato dal sindaco della seconda.
Ma su questo il comitato è pronto a dare battaglia: “Noi diciamo a Gualtieri: se Roma ha bisogno di un inceneritore, che lo costruisca in centro, come quello tanto decantato di Copenaghen”, tuona Daniela Boccacci, segretaria del comitato. “Perché venire nel nostro territorio, che è già così privo di servizi e luoghi di aggregazione? Come rappresentanti delle varie realtà attive nel quartiere, diciamo no al piano del sindaco che propone una tecnologia vecchia, già bandita dall’Unione europea”.
Il piano in verità è per il momento solo un annuncio. Alla vigilia del Natale di Roma, il 20 aprile scorso, il sindaco ha sorpreso tutti dichiarando che aveva deciso di “realizzare un termovalorizzatore a controllo pubblico con le migliori competenze industriali”. Una dichiarazione che smentisce quanto annunciato a più riprese dallo stesso Gualtieri in campagna elettorale e che rappresenta un’ipotesi non prevista dal Piano regionale di gestione dei rifiuti: quest’ultimo, approvato dal consiglio regionale nel 2020, esclude esplicitamente la realizzazione di nuovi impianti di termovalorizzazione oltre all’unico operativo nel Lazio, quello di San Vittore, in provincia di Frosinone. Per andare in deroga al Piano regionale, il governo si appresta a nominare Gualtieri commissario straordinario per il giubileo del 2025, dandogli anche poteri speciali sulla gestione del ciclo dei rifiuti.
Un passato complicato
Non è da oggi che Roma ha un problema con la spazzatura. L’inizio della crisi può essere fatto coincidere con una data precisa: il 1 ottobre 2013. Quel giorno l’allora sindaco Ignazio Marino fece chiudere la discarica di Malagrotta, la “grande buca” in cui venivano gettati tali e quali i rifiuti prodotti dai romani. La decisione non era più derogabile: Roma rischiava di incorrere in una pesante procedura d’infrazione europea. Ma da allora il problema non ha trovato soluzione. Le amministrazioni che si sono succedute non sono riuscite a immaginare un modello di gestione funzionante e hanno finito per mandare i rifiuti in altre regioni, e a volte all’estero. Il “turismo della spazzatura” ha avuto due conseguenze: l’aumento dei costi ambientali dello smaltimento e l’incremento per i cittadini della tassa sui rifiuti (Tari), che è tra le più alte d’Italia.
La decisione di Gualtieri sembra dettata dalla necessità di dare un segnale di discontinuità rispetto all’amministrazione precedente e di trovare una soluzione a quello che è percepito da gran parte dei cittadini romani come una vera e propria emergenza. Appena eletto, nell’ottobre del 2021, il sindaco aveva promesso che la città sarebbe stata pulita entro Natale. La promessa non è stata mantenuta e Gualtieri si dev’essere reso conto che il problema non è la pulizia delle strade o lo svuotamento dei cassonetti da parte dell’ Ama, l’azienda municipalizzata romana. Il servizio è senz’altro carente, ma il vero nodo della questione è più a monte della filiera: la mancanza di impianti di trattamento e di smaltimento dei rifiuti.
A oggi, il sistema funziona così: la raccolta indifferenziata viene inviata negli impianti di trattamento meccanico biologico (Tmb), che selezionano i rifiuti per recuperare alcuni materiali che possono essere riciclati, producendo però altri rifiuti, che poi dovranno essere smaltiti in discarica o negli inceneritori. Dopo la chiusura di Malagrotta, Roma non ha saputo dotarsi di nessuna discarica di servizio e quelle presenti in regione sono sature o in via di saturazione per l’ingente quantità dei rifiuti romani. Il termovalorizzatore di San Vittore, che ha la capacità di trattare 320mila tonnellate all’anno, non è sufficiente.
Una soluzione estrema
Il Piano regionale del 2020 dava come prospettiva un incremento della raccolta differenziata al 70 per cento entro il 2025, in modo da ridurre l’esigenza di impianti per trattare l’indifferenziato. Ma non indicava le politiche da attuare per arrivare a questo risultato. Oggi, secondo gli ultimi dati disponibili dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), la percentuale in regione è al 52 per cento. Una cifra che, se si considera solo il comune di Roma, scende al 44 per cento. Puntare a un incremento di 18 punti percentuali in tre anni appare utopistico.
Il termovalorizzatore è quindi una scelta necessaria? O è una scorciatoia che, bruciando i rifiuti, è in contrasto con gli indirizzi di economia circolare dell’Unione europea? “L’inceneritore è una tecnologia lineare, in cui si buttano i rifiuti creando scarti, che dovranno a loro volta essere smaltiti”, sottolinea Enzo Favoino, coordinatore scientifico di Zero waste Europe. “Non è vero che riduce l’utilizzo della discarica. Crea invece le condizioni perché si rallenti l’implementazione delle misure prioritarie della strategia sui rifiuti dell’Unione europea”. La Commissione di Bruxelles indica una precisa gerarchia nel sistema di gestione dei rifiuti: in cima, c’è la prevenzione, ossia la riduzione. Poi c’è il riutilizzo. A seguire il riciclaggio. Solo dopo le tre R sono contemplati il recupero per la produzione d’energia, l’incenerimento e la discarica. Si tratta di soluzioni estreme e non è un caso che il “Next generation Eu”, il fondo da 750 miliardi di euro approvato nel luglio del 2020 per sostenere gli stati membri dopo il covid-19, esclude la possibilità di finanziamenti per impianti di termovalorizzazione.
Favoino ritiene che la scelta del comune di Roma lo inchiodi a una gestione del ciclo dei rifiuti che guarda al passato. “Una volta che costruisci un inceneritore di quelle dimensioni, lo devi alimentare. Vuol dire che ogni anno dovrai bruciare al suo interno 600mila tonnellate di rifiuti, che necessariamente dovranno essere prodotti”. Roma produce circa 1,7 milioni di tonnellate di rifiuti l’anno. Se prendiamo come riferimento l’obiettivo europeo di raggiungere il 65 per cento di raccolta differenziata, il 35 per cento rimanente dà proprio la cifra di 600mila tonnellate indicata da Gualtieri come capacità di trattamento del nuovo termovalorizzatore. “Ma quello europeo è un obiettivo minimo”, sottolinea Favoino. “Lavorando da anni come consulenti, abbiamo dimostrato come la presenza di un inceneritore impigrisca il sistema e rallenti la crescita della raccolta differenziata”.
L’esperto porta l’esempio della Danimarca. Il paese scandinavo, spesso citato dai fautori dell’inceneritore, ha una produzione di rifiuti che non ha eguali in Europa: 850 chilogrammi pro capite, contro una media europea di circa 500 chilogrammi. “La metà di questi vengono mandati a incenerimento, producendo molte più scorie e ceneri da inviare in discarica di quanto avviene in sistemi virtuosi in cui ci sono tassi di raccolta differenziata più elevati”. Il contro-esempio portato da Favoino è la provincia di Treviso che, senza inceneritori, ha un tasso di differenziata dell’84,5 per cento e produce la metà dei residui da discarica della Danimarca. O la Slovenia, che in meno di vent’anni, è diventata il primo paese in Europa per tassi di riciclo e per minimizzazione del rifiuto residuo. “Proprio grazie al fatto che si è scelto di non costruire inceneritori”.
Roma potrebbe seguire l’esempio della Slovenia o della provincia di Treviso? “Ogni grande agglomerato urbano ha un inceneritore”, sostiene Edo Ronchi, ex ministro dell’ambiente e presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile. “Purtroppo l’ipotesi ‘rifiuti zero’ non esiste: anche la raccolta differenziata più virtuosa produce dei residui che devono essere smaltiti. Per questi è meglio l’inceneritore che la discarica”. Ronchi è il padre del decreto rifiuti del 1997, che ha di fatto dato l’avvio all’incremento della raccolta differenziata e del riciclaggio. “Il termovalorizzatore da solo non serve. Dev’essere parte di una strategia complessiva che punti alla riduzione dei rifiuti, all’aumento della differenziata, al riciclo e solo in ultima battuta all’incenerimento”. L’ex ministro dell’ambiente sostiene che bisogna avere un approccio non ideologico sulla questione e aspetta di vedere il piano complessivo che l’amministrazione comunale presenterà.
“È difficile esprimere un giudizio senza aver visto il progetto generale. A occhio possiamo dire che la dimensione proposta di 600mila tonnellate all’anno al momento non appare granché motivata. Forse l’amministrazione avrebbe dovuto scrivere un piano e presentarlo ai cittadini prima di fare un annuncio che prevedibilmente avrebbe scatenato polemiche”.
Alternative più sostenibili
“I numeri che abbiamo dato non sono definitivi”, ha dichiarato in proposito l’assessora all’agricoltura, ambiente e ciclo dei rifiuti Sabrina Alfonsi in un incontro online organizzato da Visione Roma il 19 maggio. “Per vedere la portata dell’impianto che andiamo a costruire si stanno facendo dei calcoli precisi. Abbiamo parlato di 600mila tonnellate, ma si sta pensando a tecnologie che sono organizzate in linee”. Dalle parole dell’assessora si deduce che, se la decisione sul termovalorizzatore è stata presa, sulle dimensioni e il tipo di impianto la discussione resta aperta.
C’è poi un altro argomento che avanza chi si oppone all’incenerimento, che è quello delle strategie di decarbonizzazione dell’Unione europea. Finora gli inceneritori sono stati esclusi dal cosiddetto mercato Ets (Emission trading system), ossia l’acquisto di crediti per compensare le emissioni climalteranti. Pochi giorni fa la commissione ambiente del Parlamento europeo ha votato l’inclusione di questi impianti tra quelli che dovranno acquistare crediti a partire dal 2026, l’anno indicato dal sindaco per l’inaugurazione del nuovo termovalorizzatore. Se la proposta fosse confermata dalla plenaria del Parlamento e la Commissione europea emanasse la direttiva, aumenterebbero di conseguenza i costi di gestione, che sarebbero fatti ricadere sui cittadini.
“Il recente voto sull’Ets conferma che Roma si sta mettendo in un vicolo cieco. Molti paesi europei stanno avviando il superamento degli inceneritori. La stessa Danimarca ha annunciato la chiusura di sette inceneritori, pari al 30 per cento della capacità, per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione. Oggi non ha senso costruire un inceneritore”, insiste Favoino.
Il responsabile di Zero waste Europe propone altre soluzioni per il problema di Roma, “tecnicamente più rapide e fattibili”. Si tratta di impianti di recupero materiali in cui lavorano due sezioni parallele: da una parte viene lavorata la frazione residua dell’indifferenziata in modo da stabilizzarla e ridurre l’impatto relativo alla collocazione in discarica. Dall’altra si recuperano i materiali. “Un impianto di questo tipo è flessibile e adattabile alla crescita della raccolta differenziata: più questa aumenta, più diminuisce il trattamento del residuo”. Un esperimento di questo tipo era previsto a Colleferro, a partire dalla trasformazione di due inceneritori chiusi nel 2018 in una “fabbrica di materiali”. Doveva essere realizzato da Lazio ambiente, società partecipata al 100 per cento dalla regione. Ma non se n’è fatto nulla. E oggi il comune di Roma sembra aver imboccato decisamente un’altra strada. Con buona pace degli abitanti di Santa Palomba, che paiono destinati a subire ancora una volta le conseguenze di scelte politiche che non hanno alcun modo di influenzare.
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