I palazzi spiccano tutti uguali intorno a un grande piazzale coperto di erbacce e immondizia. C’è la fermata di un autobus “che ogni tanto passa, non si sa quando”, dice una ragazza in attesa. Nessun negozio, a parte un centro scommesse. Non un bar, non un alimentari, zero servizi per le 17mila persone che abitano qui. Ma anche questa cifra è approssimativa, nessuno conosce il numero esatto: il quartiere è interamente abusivo, tutte le case sono occupate. Lo Zen 2 è un universo a sé stante alla periferia settentrionale di Palermo. Concepito come utopistico progetto di edilizia popolare nel 1969 dall’architetto Vittorio Gregotti, è oggi lo specchio di un fallimento, un non luogo che la città considera un margine da ignorare.
“A chi vive in questo quartiere è negato il diritto di esistere”, dice Mariangela Di Gangi, che per dieci anni è stata presidente dell’associazione Zen insieme, e oggi è candidata al consiglio comunale con la lista Sinistra comune alle elezioni del 12 giugno. “La maggior parte degli abitanti non ha una residenza e non può accedere ai servizi basilari. L’unico modo per vivere qui è occupare”, aggiunge. Negli ultimi anni, con la collaborazione dell’amministrazione, è stata avviata una sanatoria per assegnare agli occupanti gli appartamenti di proprietà dell’Istituto autonomo case popolari (Iacp). “È un processo inclusivo, un enorme passo avanti, ma si scontra con le lentezze della burocrazia”, dice Di Gangi, seduta nel cortile del centro che gestisce la sua associazione. Il centro, sostenuto da Save the children, fa doposcuola a bambini e ragazzi, corsi di danza, teatro, informatica e altre cose, ed è di fatto l’unico luogo di aggregazione di Zen 2.
Acronimo di Zona di espansione nord, il quartiere è diviso in due parti molto diverse. Se Zen 1, costruito prima e fatto di case popolari assegnate nel tempo, somiglia a un’ordinaria periferia, Zen 2 è un agglomerato di cemento privo di tutto. Gli anonimi palazzoni sono raggruppati in comprensori chiamati insulae dove è così difficile orientarsi che per distinguerli stanno dipingendo le facciate con colori diversi. In giro non c’è un’anima, tranne un paio di ragazzini che giocano a pallone. Carcasse di automobili incendiate giacciono ai lati della strada. Perfino la chiesa, costruita nella zona di passaggio tra Zen 1 e Zen 2, volge le spalle al quartiere. Tutta l’area sembra abbandonata, separata dal resto della città dall’assenza di trasporti pubblici funzionanti. “Siamo di fronte a un paradosso: qui allo Zen”, dice Di Gangi, “vivono persone reali, quelle con i bisogni non soddisfatti. Ma il dibattito elettorale è dominato da questioni che interessano i pochi abitanti del centro, un piccolo gruppo di politici e giornalisti che si autorappresenta”.
Il ritorno di Cuffaro e Dell’Utri
A pochi giorni dalle elezioni il dibattito pubblico sembra piuttosto scarno. I partiti hanno deciso i propri candidati all’ultimo momento, e non senza scontri. Il centrodestra si è raggruppato dietro all’ex rettore dell’università di Palermo, ed ex assessore regionale alla sanità, Roberto Lagalla. Il centrosinistra ha puntato su Franco Miceli, presidente dell’ordine degli architetti. Fra i due, appoggiato da + Europa e Azione, c’è Fabrizio Ferrandelli, 42 anni, eterno candidato mai eletto, noto per aver provato a conquistare il comune sotto ogni bandiera: nel 2012 con il Partito democratico e il centrosinistra, nel 2017 con una coalizione di centrodestra trainata da Forza Italia, oggi con il partito di Carlo Calenda e il movimento guidato da Emma Bonino.
Se pochi dubitano della vittoria di Lagalla, probabilmente già al primo turno in virtù di una legge elettorale che in Sicilia assegna il successo con il 40 per cento dei suffragi, l’atmosfera nel centrodestra è tutt’altro che rilassata. Indicato da Salvatore Cuffaro, ex presidente regionale condannato a sette anni di carcere per favoreggiamento verso persone appartenenti a Cosa nostra, e da Marcello Dell’Utri, ex senatore di Forza Italia condannato anche lui a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa, Lagalla è stato accettato con riluttanza dai dirigenti nazionali dei partiti che oggi lo sostengono.
Fino all’ultimo ogni partito aveva proposto candidati che si sono via via fatti da parte. Se ora il centrodestra mostra unità, i manifesti surreali affissi in città che invitano a votare come sindaco Francesco Cascio, candidato di Forza Italia e Lega poi ritiratosi, segnalano che l’accordo raggiunto in extremis era tutt’altro che scontato. Sullo sfondo ci sono le elezioni regionali in autunno, in cui lo scontro nel centrodestra si ripresenterà amplificato come prova generale del voto nazionale dell’anno prossimo: Fratelli d’Italia ha già indicato il suo sostegno al governatore uscente Nello Musumeci, mentre Lega e Forza Italia vorrebbero cambiare cavallo.
Intanto, in città si respira un’atmosfera da fine impero. Comunque vada, il 12 giugno a Palermo si chiuderà un’era, quella dominata dalla figura carismatica e ingombrante di Leoluca Orlando. Sindaco nel 1985, poi di nuovo dal 1993 al 2000 con l’elezione diretta durante la cosiddetta primavera di Palermo, e ancora per dieci anni dal 2012 a oggi, Orlando è quasi una personificazione della città. Non potendo ripresentarsi dopo cinque mandati e ventidue anni da sindaco, sembra osservare la situazione dall’alto. L’attuale contesa elettorale gli sembra quasi un esercizio prosaico, con candidati incapaci di proporre una visione di lungo respiro.
Poca modestia
“Oggi tutti sono impegnati a prendere le distanze da Orlando e vogliono affermare la discontinuità, ma la verità è che noi abbiamo rivoluzionato questa città”, dice il sindaco, 75 anni, seduto a un tavolino nel cortile del settecentesco Palazzo Sant’Elia. Tra digressioni storiche e ragionamenti sul presente e sul futuro, Orlando traccia un bilancio. Eletto per la seconda volta sindaco all’indomani dell’uccisione dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel 1992, è diventato il volto della primavera di Palermo. “Ho visto la mafia governare la città”, racconta all’Essenziale, “e ho visto affermarsi una cultura dell’antimafia che oggi è parte integrante del nostro tessuto sociale e che si declina nell’affermazione dei diritti. Per questo mi preoccupa che oggi il centrodestra sia ostaggio di persone come Cuffaro e Dell’Utri. Lagalla, che pure è persona rispettabilissima, sconta quest’enorme ipoteca su di sé”. L’assenza del candidato del centrodestra alle commemorazioni per la strage di Capaci, il 23 maggio scorso, ha rafforzato i timori e inasprito la polemica.
Orlando da parte sua rivendica il lavoro fatto, la “missione compiuta ma da completare”, come ripete varie volte, citando uno slogan di cui va particolarmente fiero. Durante i suoi ripetuti mandati, la città ha cambiato volto. Il centro storico si è rivitalizzato, anche per la pedonalizzazione degli assi di via Maqueda e corso Vittorio Emanuele. Quartieri come Ballarò sono oggi meta di turisti italiani e stranieri. Iniziative culturali si susseguono ovunque. “Non c’è altra città europea”, dice, “che sia mutata in modo così radicale. Potrei citare Berlino o Mosca, che sono state sconvolte da eventi epocali, come la caduta del muro e la fine dell’Unione Sovietica. Noi pure abbiamo avuto il nostro trauma: siamo passati attraverso la guerra di mafia”.
Tra i riconosciuti pregi che ha Orlando, non c’è quello della modestia. “Io sono unico a Palermo, perché non c’è nessuno che come me ha attraversato la merda e l’oro di questa città”. E intende dire che oggi il capoluogo siciliano vivrebbe un periodo di grande floridezza. Ma è un giudizio su cui non molti concordano. A chi gli fa notare che la città è in dissesto, le strade rigurgitano spazzatura e sono perennemente intasate dalle macchine, i servizi dei cimiteri hanno difficoltà a seppellire i morti e le periferie come lo Zen sono in totale abbandono, lui ribatte che ha saputo affermare una visione. E che ha trasformato Palermo in una capitale culturale europea, sulla scia dei due grandi eventi del 2018: la biennale d’arte contemporanea Manifesta e la nomina a capitale italiana della cultura. Quando gli si menzionano i suoi bassi indici di gradimento, risponde che “i palermitani si lamentano, ma tutti sanno che se potessi ricandidarmi sarei eletto al primo turno”.
“Il problema di Orlando è che vede solo il suo specchio e vive in una stanza piena di specchi”, ironizza Roberto Alajmo. Lo scrittore alla città ha dedicato il libro Palermo è una cipolla (Laterza), e ha un giudizio del tutto negativo dell’ultimo mandato del sindaco: “Ha ridotto Palermo alla putrefazione. E volutamente non ha lasciato eredi. È come un pino marittimo, che fa ombra a tutto ciò che gli sta intorno e i cui aghi velenosi non fanno crescere nulla alla base. Al contempo le sue radici sono poco profonde, così alla prima tempesta vola via”. Se Orlando forse si riconoscerebbe pure nella prima parte della metafora, la seconda gli è senz’altro meno congeniale. Il sindaco è convinto di lasciare un’eredità importante che sarà riconosciuta negli anni a venire. Non tanto in successori politici, che non ha voluto né saputo indicare, ma in una precisa idea di città, che oggi potrebbe essere in pericolo. “Non vorrei”, dice, “che tutto questo finisse e che la mafia torni a governare”.
Mafia e antimafia
Palermo come città della mafia e dell’antimafia, ferita dagli omicidi degli anni ottanta e inizio anni novanta e oggi plasmata da una cultura che si è definita proprio in quegli anni, con le grandi manifestazioni, i lenzuoli bianchi alle finestre, il Movimento delle agende rosse: nel contesto di un’elezione che la città guarda con un misto di indifferenza e rassegnazione, il trentennale dell’assassinio di Falcone e Borsellino diventa quindi occasione per riflettere sull’eredità che quegli eventi traumatici hanno lasciato.
I ragazzi cresciuti politicamente in quegli anni oggi non sono al potere, né sembrano interessati a entrare nelle istituzioni. E la cosa è sorprendente. “Probabilmente la figura di Orlando ha soffocato il conflitto e impedito a una generazione di militanti di impegnarsi in prima persona”, analizza Filippo Pistoia, imprenditore culturale di 47 anni, che vent’anni fa con alcuni amici ha fondato l’associazione Clac, specializzata in progetti di rigenerazione urbana, imprenditoria artistica e azioni sociali.
Lo incontriamo ai cantieri culturali alla Zisa: 55mila metri quadri recuperati da un ex mobilificio, oggi sede di associazioni, centri culturali, cinema, teatri e spazi di produzione artistica. Un luogo a suo modo unico in Europa: sono trentadue le realtà che trovano ospitalità e fanno rete in questo gigantesco incubatore di idee. Ai tavolini del Cre. Zi. Plus, bar ristorante che gestisce insieme ad alcuni colleghi, Pistoia racconta il rapporto controverso che ha con l’amministrazione: “Orlando ha fortemente sponsorizzato il progetto dei cantieri. Poi, come spesso accade con le idee di cui si innamora in modo fugace, l’ha un po’ abbandonato, intervenendo solo quando era necessario”.
Anche lui condivide un giudizio che molti esprimono: il sindaco ha trascurato la gestione corrente per concentrarsi sulle cose più simboliche. Ottenendo, a dire il vero, anche risultati tangibili: “Nella cultura oggi Palermo ha un ruolo riconosciuto. Siamo inseriti in reti strutturate e dialoghiamo con i grandi centri di produzione artistica mondiale. Poi certo la politica è abbastanza estranea a questo processo, così come noi siamo estranei alla politica”. La candidatura di Mariangela Di Gangi a sindaco aveva risvegliato un certo entusiasmo. “Si poteva creare un gruppo, che avrebbe lavorato intorno a lei mettendo a frutto le reti e le conoscenze che si sono create in questi anni”. C’è stato un momento in cui l’ipotesi sembrava realizzabile: lo stesso segretario del Partito democratico Enrico Letta era venuto in visita allo Zen per incontrare la possibile candidata. Ma poi si è scelto diversamente. E oggi la generazione più attiva in città guarda già al dopo Orlando. “L’amministrazione di centrodestra, che probabilmente verrà, rianimerà il conflitto e forse permetterà di attivare forme di coinvolgimento politico meno ovattate di quelle conosciute finora”, auspica Pistoia.
Anche Marco Sorrentino fa parte di quella generazione di attivisti che si sono impegnati diversamente. È presidente della cooperativa Terradamare, che dieci anni fa si è inventata tour turistici in zone meno scontate della città e ha contribuito alla riscoperta di tanti monumenti minori. L’attività è partita da Ballarò, dove l’associazione ha sede nella Torre San Nicolò, una costruzione quadrangolare risalente al 13esimo secolo. “Quando abbiamo cominciato, questa era solo una piazza di spaccio. Oggi abbiamo contribuito ad affermare un’economia pulita”.
Dalla cima della torre si gode una delle viste più belle di Palermo. Si vedono le montagne che circondano la città, il porto che occupa il lungomare, si intuisce in lontananza lo Zen. Sul terrazzo c’è una statua di terracotta e stoffa fatta dallo scultore Filippo Leto: è una signora bellissima, con il seno scoperto ma vestita di stracci. La donna, che sta a simboleggiare Palermo, è offesa con i suoi abitanti e chiede loro di farla rinascere annunciando che non si muoverà di lì fintanto che non sarà ascoltata. Realizzata nel marzo 2014, è ancora al suo posto, immobile e fiera ma un po’ consumata dal tempo e dalle intemperie.
Questo articolo fa parte di una serie sulle città in cui si vota il 12 giugno. Finora sono uscite le puntate su Genova, Verona, Pistoia, Catanzaro, Riccione e L’Aquila. La prossima settimana: Monza.
Nel 2017 Leoluca Orlando è stato eletto al primo turno per il quinto mandato da sindaco. Ha ottenuto il 46,3 per cento dei voti, percentuale sufficiente secondo la legge siciliana per evitare il ballottaggio. Era già stato sindaco dal 1985 al 1990 quando il primo cittadino era eletto dal consiglio comunale, poi per due mandati consecutivi dal 1993 al 2000, e ancora dal 2012. Il secondo classificato nel 2017 è stato Fabrizio Ferrandelli, sostenuto dal centrodestra, che ha ottenuto il 31,2 per cento. Terzo Salvatore Forello, del Movimento cinque stelle, che ha ottenuto il 16,3 per cento. Ferrandelli si era già candidato contro Orlando nel 2012, sostenuto dal Partito democratico, e aveva raggiunto il ballottaggio, al termine del quale aveva ottenuto il 27,6 per cento delle preferenze, contro il 72,4 per cento di Orlando.
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