Girando per la Valle Galeria, a cavallo tra il Grande raccordo anulare e l’aeroporto di Fiumicino, la toponomastica è da romanzo fantasy. C’è Malagrotta, tristemente nota per la sua immensa discarica. C’è via di Valle Bruciata, che si incunea come un serpente dall’Aurelia costeggiando campi di grano e più prosaiche raffinerie e piste di motocross. C’è via di Malnome, con le sue propaggini via di Castel Malnome e di ponte Malnome, aggrovigliate su stesse in un reticolo che fa impazzire i navigatori costringendoli a snervanti ricalcoli. “Nei nomi delle nostre strade era già scritta la nostra condanna”, scherza Emanuela D’Antoni, combattiva rappresentante del comitato Valle Galeria libera. “Pensa che questa via è stata rinominata Malnome perché una volta era chiamata monte cazzo”.
La leggenda narra che Malagrotta debba invece il suo nome a un drago ferocissimo e pestilenziale che, verso la fine dell’anno 1000, si era rifugiato in una grotta del circondario. Ucciso da un esercito di cavalieri, continuò ad ammorbare con il suo fetore tutta l’area, quasi a prefigurare il ruolo a cui essa sarebbe stata destinata poco meno di mille anni dopo. Perché è almeno dagli anni sessanta che il quartiere è sottoposto a “un inquinamento insopportabile, dovuto a una vera e propria discriminazione sociale, morale e culturale”, come sottolinea infervorandosi D’Antoni. “Hanno messo tutto da noi, quasi fossimo cittadini di serie B”.
Sommersi dai rifiuti
Qui non sorge solo l’ex discarica chiusa nel 2013 e ancora da bonificare, diventata simbolo nefasto dell’intero quartiere. Ci sono anche i due impianti di trattamento meccanico biologico (Tmb), uno dei quali è andato a fuoco il 15 giugno scorso; la raffineria Eni che si estende su 97 ettari, un deposito di carburanti di 22mila metri quadri, quattro oleodotti e un impianto di smaltimento di rifiuti ospedalieri, chiuso e trasformato in un’area di trasferenza, come si dice nel gergo dell’Ama (l’azienda che si occupa di rifiuti nel comune di Roma), cioè un luogo di accumulo dei rifiuti raccolti in città in attesa di essere trasferiti in un impianto di trattamento.
Tale è la concentrazione di siti pericolosi che l’intera area è stata classificata a “rischio di incidente rilevante”. “È mai possibile che cinque dei sei stabilimenti soggetti a rischio di incidente rilevante del comune di Roma siano nella zona di Malagrotta?”, si chiede D’Antoni. “Non dovrebbe valere il principio di una condivisione di oneri e rischi?”.
L’attivista mostra lo scheletro del Tmb dopo l’incendio del giugno scorso: se Roma è sommersa dall’immondizia è anche a causa di questo rogo. L’impianto trattava 900 tonnellate di rifiuti al giorno, che oggi non hanno destinazione. “Non so come sia scoppiato, ma so che si è evitata una tragedia vera: qui a pochi passi c’è un deposito di gas”, dice indicando l’impianto in questione.
All’indomani dell’incendio in un raggio di sei chilometri è stata dichiarata la zona rossa: per una settimana asili e centri estivi sono rimasti chiusi, i pascoli e il consumo di alimenti della zona vietati. Il rogo è stato la goccia che ha fatto traboccare un vaso, che era già ampiamente colmo. Molti se ne sono andati da parenti, non pochi stanno pensando di trasferirsi altrove. Come Roberta Micalessi, che ha una piccola attività di produzione di uova con duecento galline allevate all’aperto. “Dopo l’incendio non ho più venduto niente per diversi giorni”, dice sconsolata. La sua azienda sorge ai piedi della cava di monte Carnevale, dove l’ex sindaca Virginia Raggi voleva costruire una nuova discarica, a meno di un chilometro in linea d’aria da quella di Malagrotta. Non se n’è fatto nulla, e il proprietario della cava Valter Lozza è stato indagato. Ma intanto Micalessi ha capito che non era aria di fare quegli investimenti con cui pensava di allargare il business. “Dopo l’incendio ho perso ogni speranza, sto cominciando a guardarmi intorno per capire dove andare”.
Malagrotta è il simbolo più eclatante dell’abbandono in cui versa un’area vastissima che potremmo definire il quadrante che non c’è: Roma ovest. È in questa sequela di quartieri dormitorio staccati gli uni dagli altri e attraversati da grandi aree agricole poco sfruttate che si trova l’origine di molti dei mali della città e dei principali grattacapi per il sindaco Roberto Gualtieri. Sono scoppiati quasi tutti qui gli incendi che da un mese a questa parte stanno sfiancando la capitale, con una frequenza impressionante e sospetta. Qui è il terminale del mancato smaltimento dei rifiuti che Roma produce in abbondanza e non ricicla quanto dovrebbe. Qui ancora nei mesi scorsi è arrivata la nuova pandemia, non pericolosa per l’essere umano ma molto letale per maiali e cinghiali: la peste suina africana si sta diffondendo a macchia d’olio tra le mandrie di ungulati che da anni pascolano indisturbati tra i giganteschi parchi dell’area e le strade limitrofe.
Mancanza di identità
Se nell’immaginario collettivo la periferia più disgraziata è a Roma est, in quell’insieme di palazzoni, grandi sale scommesse e borgate sovraffollate che si estende dalla via Tiburtina alla via Casilina passando per la via Prenestina, Roma ovest è un concentrato più discreto ma forse più denso dei difetti della capitale, dall’abusivismo edilizio ai roghi tossici, dalla gestione improbabile del ciclo dei rifiuti all’assoluta mancanza di un trasporto pubblico degno di questo nome. Un luogo che il fumettista Michele Rech, in arte Zerocalcare, ha definito significativamente “Wild wild west, vasta area con lacune di identità”. Perché in effetti nessuno si definisce di “Roma ovest”. Non c’è un senso di comune appartenenza né un luogo rappresentativo. Non un cinema, né un teatro. “Noi del comitato ci troviamo in una piazzola”, dice D’Antoni. “Oppure a casa di qualcuno”.
In zone del quadrante considerate più centrali, perché all’interno del Grande raccordo anulare, la situazione non è certo migliore. “Questo è forse l’unico quartiere di Roma che non ha nemmeno una chiesa”, sintetizza Federica Scrollini, presidente dell’associazione Linearmente.
Siamo a Palmarola, agglomerato nato sull’onda del grande abusivismo degli anni settanta. Gli edifici, che sono stati via via condonati, non hanno nulla della periferia problematica: sono graziose villette a tre piani. Ma non c’è un punto di ritrovo, neanche quelli che parrebbero imprescindibili. La chiesa cattolica è ospitata in un garage, come le moschee semi-clandestine o i luoghi di culto delle chiese pentecostali alla periferia est. Un cartello sopra la saracinesca indica che è dedicata a santa Brigida di Svezia. L’oratorio è composto da un gruppo di container in un terreno incolto, circondato da una rete e battuto dal sole. La “piazza”, come la chiamano i residenti, è in realtà un parcheggio.
Nella sede di Linearmente, al piano terra di una villetta con giardino, è in corso un centro estivo con decine di bambini che giocano. “Io sono riuscita a fondare l’associazione perché ho messo la sede al pianterreno della palazzina della mia famiglia, che era adibito a deposito. Altrimenti non avrei trovato un luogo”, dice Scrollini. La sua è l’unica realtà che promuova attività culturali e ricreative, oltre a lavorare contro la dispersione scolastica, che ha tassi piuttosto elevati da queste parti. Anche perché nel quartiere non ci sono scuole: la materna è a Selva Nera, al di là del Grande raccordo anulare. Per quelle di altro ordine e grado bisogna andare a Ottavia. Il liceo più vicino è a Monte Mario. Le distanze non sarebbero neanche enormi, ma bisogna comunque percorrerle in macchina. “E in certi momenti della giornata puoi metterci anche un’ora per fare i quattro chilometri che separano Palmarola da Ottavia”.
Le strade sono intasate, i mezzi pubblici aleatori e del tutto inaffidabili. “Pensa che noi facciamo corsi di recupero a un ragazzo che è di Casal Selce, a sei chilometri da qui. E li facciamo online perché in autobus ci metterebbe due ore, tra andata e ritorno, per coprire quella distanza”. La difficoltà di spostarsi da un posto a un altro in parte spiega l’assenza di una rete di coesione sociale, così come l’apparente impossibilità di creare un senso di comune appartenenza. “Questi sono luoghi dove gli abitanti escono la mattina e tornano a dormire la sera”, dice Scrollini.
È stato il particolare sviluppo urbanistico di queste zone a renderle così sfilacciate? È questa continua interconnessione tra città e campagna a frenare ogni afflato di aggregazione? Passando da un quartiere a un altro sembra di finire in mondi separati, tutti ugualmente anonimi. Ma anche quelli che avrebbero gli strumenti per uno sviluppo di natura diversa alla fine paiono omologarsi al modello del dormitorio.
Direttamente connessa con il centro città, Ottavia è sulla linea del treno che in meno di mezzora arriva a Trastevere e Ostiense. Ha una storia di lotte anche importanti. “Se penso che lì la polisportiva è stata creata grazie all’occupazione dei campi negli anni settanta, non posso che rammaricarmi di quanto siano cambiati questi quartieri, di quello che si è perso”, riflette Scrollini.
Persino il centro commerciale, il luogo di ritrovo per antonomasia di tante periferie, qui non ha attecchito. Ci hanno provato, ma è andata male. Il Gulliver su via della Lucchina sembra una cattedrale spenta nel deserto: le scale mobili che conducono da un piano all’altro sono rotte, alcuni ingressi sbarrati, molte saracinesche abbassate. L’anfiteatro che doveva essere adibito ad attività culturali nel retro del centro non è mai entrato in funzione. È già cadente, e la notte dicono diventi luogo poco raccomandabile.
Rassegnati al fatalismo
Cosa è andato storto a Roma ovest? Com’è che non si sono innescati processi di partecipazione e di rivendicazione, e che i cittadini si sono adattati a queste condizioni di pura sopravvivenza? “Noi che siamo nel sociale facciamo fatica a lavorare anche per uno sviluppo dei territori perché siamo stritolati dalla gestione quotidiana, ma il problema è che la politica non ha una visione per queste zone. E questo crea un generale senso di rassegnazione e fatalismo”. A dimostrazione, Scrollini cita il fatto che nessuno ha protestato né chiesto conto dei vari incendi che si sono sviluppati negli ultimi tempi tutto intorno all’area di Ottavia e Palmarola. “Eravamo letteralmente circondati, ma le persone qui hanno solo aspettato che passasse. È incredibile che nessuno abbia fatto o detto nulla. Così come è assurdo che nessuno delle istituzioni abbia pensato di venire qui”.
Gli incendi hanno distrutto ettari ed ettari di terreni, costretto le persone a rimanere chiuse in casa, seminato panico e paura. E hanno colpito diverse aree del quadrante. Gli effetti più visibili sono nella zona più vicina al centro. Il parco del Pineto è un affaccio naturale sul quartiere Prati e la basilica di San Pietro, il cui cupolone è ben visibile all’orizzonte. Questa collina una volta rigogliosa è oggi totalmente bruciata, la vegetazione cancellata dall’incendio divampato il 4 luglio scorso.
I bibliotecari della Casa del parco ricordano bene quel terribile pomeriggio. Sono stati loro ad avvistare le prime fiamme nei pressi di un albero e a chiamare i vigili del fuoco. Nel giro di poco, il rogo ha mangiato l’intera area mettendo seriamente a rischio anche il casale del cinquecento che ospita la biblioteca comunale. “Per puro caso il vento ha girato all’improvviso, altrimenti questo edificio sarebbe andato in fumo”, dicono i bibliotecari e i ragazzi che qui svolgono il servizio civile. Dai piani alti lo spettacolo è impressionante: la macchia nera si estende a perdita d’occhio e arriva a lambire la costruzione.
Allo stesso piano della biblioteca, una mostra fotografica espone immagini d’epoca. Ci sono il parco, le grandi arterie che attraversano il quartiere, le fornaci dove una volta si producevano i mattoni. Una didascalia ricorda che l’attuale Valle Aurelia una volta si chiamava Valle dell’Inferno, perché di lì passarono i lanzichenecchi che nel 1527 misero a ferro e fuoco la città.
Uscendo dalla Casa del parco e andando verso la pineta, ci si imbatte in un cartello di legno affisso di recente. Mette in guardia contro i cinghiali che infestano la zona e dà alcune indicazioni per evitare la propagazione della peste suina: i picnic sono tassativamente vietati, e a tutti i visitatori è richiesto di disinfettarsi le scarpe quando si esce dal parco. Ma le istruzioni somigliano a un grido nel deserto. In giro non c’è un’anima. Il terreno è abbandonato all’incuria. La collina che declina verso il Vaticano è un cumulo di plastica e immondizia. Poco più in là, il fuoco ha fatto tabula rasa. Nessuno si avventurerebbe qui a fare una passeggiata o ad apparecchiare un picnic.
Tra i cinghiali, la sporcizia e i resti dell’incendio sembra di trovarsi in uno scenario post-apocalittico. E allora viene da domandarsi: non sarà che anche qui la toponomastica ha immaginato il futuro? Che la valle dell’inferno dei tempi antichi non era altro che la prefigurazione delle condizioni in cui ci troviamo oggi? E non sarà che Roma ovest, il quadrante dimenticato e anonimo, è in realtà esso stesso una prefigurazione del futuro, di un destino infausto verso il quale l’intera città sembra dirigersi?
Sono quattro i grandi incendi scoppiati a Roma tra il 15 giugno e il 9 luglio. Le proporzioni e la frequenza dei roghi sono anomale, al punto che la procura potrebbe unificare le indagini aperte su ciascuno di essi, circostanza che andrebbe a suffragare un’ipotesi suggerita più volte anche dal Campidoglio: il dolo.
Tutto comincia un mercoledì pomeriggio, il 15 giugno, quando il fuoco divampa a Malagrotta, in uno dei due impianti della zona destinati allo smaltimento di rifiuti indifferenziati. A incendiarsi è inizialmente il combustibile ottenuto dal trattamento dell’immondizia, e le fiamme si propagano molto rapidamente a un capannone di stoccaggio poco distante. I vigili del fuoco devono lavorare tutta la notte per spegnere le fiamme, ma rifiuti e terreno continueranno a bruciare per giorni. Nessuna vittima, per fortuna, e anche il danno ecologico sembra contenuto: i livelli di diossina, secondo l’Arpa Lazio, l’agenzia regionale per la protezione dell’ambiente, non avrebbero superato i livelli di allarme.
Passano meno di due settimane e il 27 giugno dal centro di Roma si vede una nuova colonna di fumo in cielo, verso nordovest: l’epicentro è alla Monachina, area periferica dove c’è anche un campo nomadi. Le fiamme aggrediscono un deposito di camper, molti dei quali dotati di bombole del gas: al rogo si aggiungono anche numerose esplosioni. Una quindicina gli intossicati, niente vittime.
Sette giorni dopo, il 4 luglio, è il parco del Pineto a prendere fuoco: è la seconda area verde per estensione di Roma, e l’incendio si propaga per cinquanta ettari, equivalenti a circa settanta campi di calcio. Diverse palazzine, una casa di riposo, un convento e un centro sportivo vengono evacuati, anche stavolta non ci sono morti.
Il più recente dei grandi incendi romani, per finire, è scoppiato nel quadrante est di Roma, vicino al quartiere di Centocelle: in fiamme due ex campi nomadi che in attesa di bonifica erano diventati zone di smaltimento dei rifiuti, e alcuni depositi di sfasciacarrozze. Non ci sono vittime, ma le diossine nell’aria hanno superato per giorni il limite di sicurezza.
Al di là dell’ipotesi dolosa, da verificare, fioccano le ipotesi colpose: degrado del territorio, cura del verde inadeguata, una cattiva gestione dei rifiuti sono tutti elementi in grado di concorrere agli incendi in una situazione amministrativa che per Roma non fa che aggravarsi di giorno in giorno, con o senza fiamme.
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