Vedi Napoli e poi mangia la pizza. Parafrasando il vecchio detto reso celebre da Goethe, è inevitabile che un viaggio a Napoli, per quanto breve e occasionale, finisca per sfociare nell’assaggio di una pizza. A portafoglio, fritta, a metro, a ruota di carretto, ad alta idratazione, battilocchio o montanara: comunque la si scelga, sembra un gesto naturale, appena si sbarca nel caos della stazione centrale, dirigersi verso una pizzeria, rifugio caldo e profumato di pane.
È in effetti il modo migliore per entrare in sintonia con la città e in connessione sentimentale con il popolo napoletano. E con i suoi quartieri, visto che la città è “mille culure”, per dirla con Pino Daniele, un caleidoscopio di mondi stratificati, nei quali anche la pizza assume una dimensione e una forma diversa, a seconda dei colori dei vicoli e delle abitudini dei suoi abitanti.
Cominciamo quindi un giro per raccontare alcune di queste realtà, senza la pretesa di trovare la pizza migliore di Napoli, missione quasi impossibile in cui solo un napoletano doc potrebbe provare a cimentarsi.
Partenza dal Vomero
Prima di mettersi in marcia per Mergellina e Bagnoli, con un passaggio per il rione Sanità, facciamo una premessa salendo al Vomero, la collina che sovrasta il lungomare. Quartiere residenziale, borghese, giovane, terrazza panoramica da visitare per uno sguardo dall’alto ma anche per la barocca Certosa del museo di San Martino, per il medievale Castel Sant’Elmo, piazza Vanvitelli, Villa Floridiana e altri gioielli urbani.
Come racconta Dario De Marco nel suo Alla ricerca della pizza perfetta (66thand2nd 2021), le prime pizzerie nascono in centro a metà del settecento. Ma qualcosa cambia quando le pizzerie si spostano verso le zone più ricche, più borghesi. Nel 1916 aprono Umberto a Chiaia e Gorizia al Vomero (esistenti ancora oggi). In questo passaggio la pizza si imborghesisce, si dà un vestito nuovo per un nuovo ceto sociale. Diventa più piccola, non trabocca dal piatto come quella “a ruota di carretto”. Si arricchisce di mozzarella, che prima serviva solo a dare colore, e si accompagna con altri piatti, finendo per far nascere le varianti più note della margherita, a cominciare da salsiccia e friarielli.
Se si vuole fare un salto nella tradizione, non c’è che l’imbarazzo della scelta, dalla pizza di Michele ai Tribunali all’Antica Pizzeria Port’Alba, in piazza Dante. Qui siamo in uno slargo di via Toledo, dove comincia un mondo fatto di una miriade di librerie e bancarelle che portano a piazza Bellini, al Conservatorio, a Spaccanapoli. Per restare nella tradizione ci sono anche Ciro a Santa Brigida, Mattozzi a Piazza Carità, Lombardi a Forìa.
Noi cominciamo il nostro itinerario cercando qualche realtà nuova, visto che da tempo i pizzaioli di Napoli sono diventati grandi, sono imprenditori che esportano la pizza in tutto il mondo, aprono locali a raffica (vedi Gino Sorbillo e Salvatore Di Matteo) e sperimentano, con impasti ad alta idratazione e farine di qualità.
È il caso di 50 Kalò, la pizzeria di Ciro Salvo: siamo a piazza Sannazzaro, tra Posillipo, Mergellina e Fuorigrotta, punto d’approdo di via Caracciolo, il lungomare che fiancheggia il parco della Villa comunale e la riviera di Chiaia. Ciro Salvo è alla terza generazione di pizzaioli. 50 Kalò è un nome strano, che ha una sua spiegazione: “50” nella cabala napoletana è il pane, mentre kalò nell’antico gergo non scritto dei pizzaioli significa buono, dal greco kalos. L’ambiente è minimal, moderno, ma lo spazio è talmente grande da rischiare l’impersonalità, la freddezza: sedie di plastica, grandi foto di mozzarelle alle pareti. Non si prenota, come in molte pizzerie napoletane, ma la fila scorre
veloce.
La pizza è una delle migliori in circolazione, con un impasto soffice, digeribile, con una lievitazione tra le 20 e le 24 ore e un’idratazione molto alta. Quella dell’alta idratazione è una delle armi in più dei nuovi pizzaioli (tra loro Guglielmo Vuolo) che, aiutandosi con farine forti, ricche di glutine, creano un impasto leggero, profumato, alto, con una straordinaria alveolatura (gli alveoli sono i buchi che si trovano nel cornicione, il bordo della pizza). Così è la pizza di Ciro Salvo, che primeggia anche per materie prime: l’olio extravergine a fine cottura, il pomodoro di Casa Marrazzo, il fior di latte di Agerola. Una margherita costa 6,5 euro, le altre non superano i 9,5 euro. Come vino, ci beviamo un bicchiere di Gragnano, un’eruzione di schiuma rossa che evoca il Vesuvio e che ben si sposa con la pizza (meglio un rosso frizzante, o una bollicina spumante, della solita birra).
Se vogliamo uscire dai vicoli del centro e vedere la Napoli meno oleografica, è il momento di andare a Bagnoli, devastata dalle acciaierie e oggetto di mille progetti di riqualificazione, che per ora hanno visto nascere la bellissima Città della scienza. Non ha aspettato avveniristici progetti Diego Vitagliano, nato nel 1995, giovane certezza della nuova generazione dei pizzaioli contemporanei, che ha aperto qui “10”, un grande ristorante moderno ma caldo, con un lunghissimo bancone, uno spazio per la pizza senza glutine e una panetteria.
Sui bei tavoli di ferro ci aspetta una salvietta aromatizzata alla crosta di pane, ma a noi interessa questo spettacolare disco realizzato con un impasto con prefermento di tipo 1 bio, una lievitazione di 36 ore, alta idratazione e un bassissimo quantitativo di sale. Il cornicione è alto, a canotto, con qualche lieve bruciacchiatura. Il sito Big seven travel l’ha giudicata la migliore pizzeria d’Europa: noi non ce la sentiamo di allargarci così tanto, ma certo è uno spettacolo. Grazie anche alla materia prima, tutta campana, con l’eccezione dell’olio pugliese Muraglia. Vitagliano sperimenta e in menù ci sono anche pizze croccanti e fritte, quelle di cui andava pazza Sophia Loren.
Un lunghissimo bancone
Ma per questo capitolo, cioè le pizze fritte, ci spostiamo alla Sanità, quartiere popolare di Napoli. In questo rione c’è un classico della tradizione: Concettina ai Tre Santi. Ma noi proviamo una giovane che si sta facendo strada, Isabella De Cham. Prima si è fatta le ossa in posti di qualità: da Zia Esterina Sorbillo, alla Masardona, e con Vincenzo Durante a Forcella. Poi è tornata nel quartiere dov’è nata e ha creato il suo locale: piccolo, moderno, a due piani.
Se l’idea di una pizza fritta vi spaventa, niente paura, siamo nel regno della leggerezza. Fritture aeree, profumate, per batocchi (ripiene), montanarine (con salsa di pomodoro, formaggio e basilico) e pizze lievitatissime, gonfie, soffici, acrobatiche, con gli alveoli che respirano. Il batocchio costa 5 euro, la pizza 7 ed è offerta in molte versioni: marinara, completa (con cicoli, provola e ricotta), diavola gialla (con peperoncino), tarallo (con ’nduja), con finocchi o polpo.
Sui vini il ristorante lascia un po’ a desiderare (ci consigliano un prosecco), e le sedute di pelle nera sono un po’ fuori luogo, ma comunque ciò che conta, come in tutte le pizzerie, è quel che ti portano a tavola. E qui le pizze valgono il viaggio, così come lo vale la vivacissima via Arena della Sanità, che contiene due millenni di storia in 200 metri.
Qui ci sono il sepolcreto ellenistico, un tratto dell’acquedotto del Serino, palazzo de’ Liguoro di Presicce e lo splendido Palazzo Sanfelice, dove Eduardo De Filippo girò Questi fantasmi. Da visitare alla Sanità (per ora è chiuso, ma si attende la riapertura) il cimitero delle Fontanelle, realizzato dentro una cava di tufo scavata sotto la collina di Capodimonte. Ci sono centinaia di crani anonimi, le anime abbandonate di Napoli. Le chiamano le pezzentelle, le piccole mendicanti. O capuzzelle. Corpi senza nome, usciti dalle fosse comuni degli appestati.
50 Kalò
piazza Sannazzaro 201/c
Pizza e patate 9,5 euro (coperto 2 euro)
10 Pizzeria
via Nuova Agnano 1
Pizza margherita 6,5 euro (coperto 2,5 euro)
Isabella De Cham
via Arena alla Sanità 27
Pizza fritta alla bufala 7 euro (coperto 2 euro)
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