“Il burro no, è reato, non scherziamo. Sarebbe come mettere la panna nella carbonara”. Sofia ha solo diciott’anni, lavora al ristorante il Genovese e sa già tutto quello che c’è da sapere sul pesto. Anche se gli ingredienti della carbonara sono diversi, è identica la passione quasi fanatica con la quale i locali cercano di codificare e nobilitare una presunta ricetta tradizionale che, naturalmente, non esiste.
A Genova la battaglia del pesto la combattono tutti i giorni le migliori osterie, per la gioia dei clienti. E per la nostra, che abbiamo fatto un tour per mettere alla prova classifiche e certezze consolidate. La prima delle quali è che il pesto è fatto di sette ingredienti, non uno di più non uno di meno: basilico, olio extravergine taggiasco ligure, parmigiano reggiano, pecorino sardo, pinoli, aglio e sale grosso.
Cominciamo il viaggio da Sâ pesta, in via dei Giustiniani, nel centro storico di Genova. Siamo in una sciamadda, una di quelle botteghe che devono il loro nome alla “fiammata” per cuocere farinate, focacce e panisse, bocconcini di polenta di ceci fritti. Antonella, erede della famiglia Benvenuto che dagli anni cinquanta gestisce il ristorante, è una donna scaltra e ironica, brusca come si addice ai genovesi. Srotola un canovaccio con la ricetta del pesto e, mentre ci mettiamo a nostro agio con una farinata spettacolare, racconta: “Sâ pesta vuol dire sale pestato, questo era un magazzino del sale, che allora era in monopolio. Mia nonna veniva da Sori a vendere la prescinsêua”. Una sorta di cagliata acidula che se non volessimo sfidare l’ira dei genovesi chiameremmo yogurt.
Ed ecco il pesto, che qui mangiamo con le trofiette. Piatto abbondante, sincero, con la giusta dose di aglio e un formaggio delicato. Un ottimo inizio, a un prezzo competitivo, 9 euro. Come viene fatto? Antonella non si tira indietro. Il basilico: “Naturalmente ligure, di Pra’”. L’aglio? “Di Vessalico. È rosso e più delicato”. Formaggio? “Solo parmigiano invecchiato trenta mesi, non usiamo pecorino, perché seguo la ricetta di mio padre”. Il pinolo? “Di Pisa”. Tradizione e folclore vogliono che il basilico sia pestato con il mortaio. Ma sarà ancora così? “Figuriamoci, è impossibile per un locale, noi usiamo il frullino. E il basilico, prima, lo laviamo con l’Amuchina”. Prego? Quella del covid? “Sì, serve a eliminare i pesticidi”. Fagiolini e patate? (fatto così, il pesto si chiama “avvantaggiato”): “Ma va, quello è roba da turisti. La patata serve per l’amido, ma si usa soprattutto con la pasta secca, perché ha lo stesso tempo di cottura, 13 minuti. La nostra trofia fresca, invece, si fa in tre minuti”.
I caruggi del centro storico sono molto cambiati: “Qui c’erano operai e signorinelle che si vendevano. Tutta gente per bene”, racconta. “Ora è tutto più pulito, ma c’è anche molto spaccio”. Paghiamo, Antonella non ha il resto e lasciamo un euro in più, sarà un caso ma siamo a Genova.
La prima ricetta del pesto – tenetevi forte – non aveva il basilico ma prezzemolo e maggiorana
Ed eccoci all’Acciughetta. A gestirlo è un tornado della ristorazione cittadina che risponde al nome di Giorgia Losi. È una giovanissima genovese che dopo aver lavorato qualche anno come social media manager ha mollato tutto e ha aperto una trattoria che è un’oasi, alla fine di via Prè. Percorrere questa strada fa molto Fabrizio De André ma è anche un po’ un girone dantesco e bisogna attrezzarsi. Il centro storico di Genova è così, affascinante e problematico. Si può evitare via Prè arrivando da piazza Sant’Elena, oppure andando nella seconda sede, a Carignano, da Quelli dell’Acciughetta, dove si sperimenta di più.
Dall’Acciughetta si trovano trofie al pesto (12 euro), ma la specialità sono gli gnocchi alla romana al pesto (13 euro). Sono un piccolo capolavoro di equilibrio. Gli chef Matteo Rebora e Simone Vesuviano non si discostano dai fondamentali: aglio di Vessalico, basilico di Pra’, pinoli italiani, mentre sul formaggio c’è un misto di parmigiano e pecorino (fiore sardo). Ma perché questo diktat sul basilico di Pra’? “Perché ha le foglie piccole”, spiega Rebora. “Lo so che a voi piacciono grosse, ma piccole è meglio, perché diventano più facilmente una crema”. Mortaio? “Frullatore. Con l’accortezza di usare del ghiaccio prima, per evitare il surriscaldamento. Sennò il basilico si ossida e diventa marrone”.
Noce di burro
La prima citazione del pesto risale al 1863, nella Cuciniera genovese di Giovanni Battista Ratto e del figlio Giovanni. La ricetta di allora – tenetevi forte – non aveva il basilico ma prezzemolo e maggiorana. Come spiega anche l’esperto Paolo Lingua, “in passato il basilico è quasi assente”. E al posto di parmigiano e pecorino, c’era il gouda, il formaggio olandese. E poi, ebbene sì, c’era anche il burro, la “panna” del pesto. E allora ci vuole uno chef giapponese per riprendere le tradizioni rinnegate. Noriyuki Uchida, dopo sette anni in servizio all’Osteria San Giorgio, ha aperto un suo locale alla Foce, borgo di pescatori diventato un quartiere residenziale.
Uchida è arrivato in Italia con l’idea di entrare nella ristorazione di altissimo livello: “Poi una sera ho mangiato in uno stellato e mi sono detto: tutto qui? Sono uscito e avevo ancora fame. Sono entrato nella prima trattoria che ho trovato e ho mangiato un piatto a caso: le lasagne al pesto. Ecco, ho pensato, questo è quello che voglio fare”. E questo è quello che fa nella sua Osteria San Pietro. Pinoli nazionali, fiore sardo stagionato 24 mesi, olio Anfosso di Imperia, il solito aglio di Vessalico. Insieme alle trofie e agli gnocchi, le lasagne sono la morte, gloriosissima, del pesto. A Genova le chiamano mandilli de sea, lasagnette sottili come un fazzoletto di seta. E quelle di Uchida (10 euro) sono morbidissime e delicate. È qui che il simpatico chef confessa: “Ci metto una noce di burro. Ma piccola eh, per stemperare un po’ il gusto dell’aglio. Forse, però, è meglio non scriverlo!”.
Campioni mondiali
Resta un ultimo indirizzo nel nostro carnet. Il Genovese è la trattoria di Roberto Panizza, inventore, nientedimeno, del campionato mondiale di pesto al mortaio. Una trattoria calda, su due piani, rumorosa il giusto. Si comincia con un assaggio di pesto in purezza, servito in un piccolo mortaio. È una salsa pronta, venduta anche in barattolo come Pesto Rossi. Un po’ deludente: qualche riflesso scuro e un sapore davvero eccessivo di pecorino, come si usa nel cosiddetto “pesto maleducato”. Ma poi arrivano gli gnocchi, fatti in casa (11 euro). E qui cambia tutto. Un piatto sontuoso, morbidezza celestiale sulla quale riposa una salsa perfettamente equilibrata. Puoi sentire tutto: i pinoli, l’aglio, il formaggio, l’olio. Nessuno sgomita, tutti contribuiscono al successo finale.
Ma cosa si beve con il pesto? Domanda difficile. Uchida aveva consigliato un pigato, brezza marina agrumata e sapida. L’Acciughetta un’impalpabile bianchetta o un’Etichetta verde Santa Caterina, fenomenale vermentino biodinamico, più aggressivo. Al Genovese, per cambiare, abbiamo provato un rosso, un Rossese Altavia “Skip intro”, molto fruttato. Si sposa bene? Sì e no. E d’altronde Paolo Lingua, autore di un prezioso libretto sul Mistero del pesto (Il melangolo, 2016), dopo attenta ricostruzione conclude che l’abbinamento migliore è con l’acqua. Perché, dice, “lui basta a se stesso, regna da solo, autonomo e indipendente, accanto a un bicchiere di acqua fresca. Molto genovese e understatement”.
Alla fine ce ne andiamo senza certezze: meglio il pesto di Sa pesta, senza pecorino, quello nipponico con una noce di burro, quello gourmet dell’Acciughetta o quello godurioso e classico del Genovese?
Farinata
Al forno di Albaro, via Albaro 24
Stoccafisso
Antica Osteria di Vico Palla, vico Palla 15
Pansoti con la salsa di noci
Cavour modo 21, piazza Cavour 21
Focaccia al formaggio
Panificio Mario, via san Vincenzo 61
Cappon magro
Voltalacarta, via Assarotti 60
Tortelli ripieni al pesto genovese
Il Marin, calata Cattaneo 15
Baccalà
Trattoria Rosmarino, salita del Fondaco 30
Cima alla genovese
Trattoria Arvigo, via Cremeno 31
Coniglio alla ligure
Bruxaboschi, via Mignone 8
Ravioli al tocco
Le Cicale in Trattoria, via Ruspoli 55
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