Arrivando nelle Terre di castelli, quel territorio che si estende dalla pianura padana ai crinali dell’Appennino modenese e che ha il suo centro nella città di Vignola, si prova una sorta di déjà-vu architettonico: le strade larghe, i torrioni, i ponti levatoi e le rocche ricordano Ferrara, più che la vicina Modena. La ragione è semplice: qui hanno regnato per molti anni gli Estensi, i duchi di Ferrara, che avevano trasferito il loro ducato in questi luoghi.
Si dice che l’aceto balsamico tradizionale (Abt) – quello prodotto con mosti cotti, fermentati, acetificati e invecchiati per almeno dodici anni e fatti di uve provenienti dai vitigni Lambrusco, Sangiovese e Trebbiano – sia nato nelle campagne di Modena e Reggio Emilia proprio al tempo del ducato degli Estensi, raffinati signori amanti della buona tavola. Quando nel 1598 il papa li cacciò da Ferrara e Modena divenne capitale, i duchi si portarono i loro condimenti per mitigare le carni, ma qui trovarono il mosto cotto e si cominciò a usare quello.
Il balsamico in realtà ha origini molto più antiche, come racconta Massimo Fini, gran maestro della Consorteria dell’aceto balsamico tradizionale a Spilamberto, dove comincia il nostro viaggio lungo la strada dei castelli: “Probabilmente esiste dal tempo degli antichi romani, ma è con gli Estensi che viene usata la prima volta la parola ‘balsamico’. Non inventarono nulla, ma furono capaci di valorizzare il nostro oro nero, che oggi è in attesa di diventare patrimonio immateriale dell’Unesco”, spiega Fini, che si muove tra le botti come un alchimista, ma con i modi cordiali dell’imprenditore emiliano.
Se la provincia modenese vanta la più ricca selezione di prodotti a denominazione di origine protetta è forse merito dei signori d’Este, anche se l’Emilia è sempre stata una terra di contadini e imprenditori. Una terra “abitata da gente ingegnosa”, come venne descritta alla fine del cinquecento da un emissario di papa Gregorio XIII, e così è ancora oggi.
Un’acetaia popolare
Anche se l’aceto balsamico è un prodotto elitario, perché fatto principalmente nelle case dei ricchi – nel seicento e settecento, quando una nobile si sposava era data in dote una batteria di botti di balsamico – esistono anche acetaie comunali come quella di Castelvetro e un magnifico progetto di acetaia popolare nel comune di Spilamberto. “Per fare il balsamico tradizionale serve una batteria di botti di diversi legni e grandezze, e venticinque anni di tempo. Non tutti li hanno o possono permetterselo”, dice Umberto Costantini. È il giovane sindaco di Spilamberto e responsabile del turismo dell’Unione dei comuni Terre di castelli, che oltre alla sua città comprende anche Vignola, Castelnuovo Rangone, Castelvetro di Modena, Guiglia, Marano sul Panaro, Savignano sul Panaro e Zocca. “A Spilamberto”, spiega Costantini, “vogliamo realizzare una grande acetaia dove chiunque potrà avere una quota, anche persone che vengono da fuori”.
Nel Torrione di Spilamberto, antico bastione medioevale costruito a difesa dai bolognesi, c’è anche la sede dell’Ordine del nocino modenese: gli Estensi, di nuovo con la loro cultura gastronomica elevata, amavano il liquore ottenuto dal mallo della noce, che avevano anche incluso nella loro farmacopea come rimedio per curare i disturbi di stomaco. In questi borghi il nocino è storicamente appannaggio delle donne: mentre gli uomini erano impegnati con il balsamico, le donne facevano il liquore. Dal 1978 l’Ordine del nocino modenese, associazione gestita principalmente da donne, fa conoscere questa eccellenza del territorio attraverso corsi di produzione e degustazione del liquore.
Dal borgo di Spilamberto si sale verso Savignano sul Panaro, millenaria città fortificata e uno dei centri più suggestivi dell’Emilia-Romagna. Savignano va semplicemente girata a piedi, possibilmente perdendosi nella nebbia e immaginando di essere al tempo di Matilde di Canossa, che si dice abbia vissuto qui. La prima tappa gastronomica è la bottega della signora Silvana, in pratica una salumeria che non appare su nessuna guida. È il luogo ideale per un aperitivo antinebbia, con un pezzo di gnocco fritto e un bicchiere di lambrusco. Dopo Savignano, che è la cittadina più romantica della zona, si può scendere verso Vignola, la “capitale” delle Terre di castelli, che con la sua rocca e le sue ciliegie morette è conosciuta nel mondo.
Vignola è vivace e va visitata anche solo per due motivi: una scala e una torta legate dallo stesso nome. All’interno del palazzo Contrari Boncompagni, oggi sede dell’Acli, Associazioni cristiane lavoratori italiani, si trova la scala elicoidale dell’architetto Jacopo Barozzi: è di una bellezza che fa girare la testa. Poco distante è poi d’obbligo una sosta alla pasticceria Gollini per comprare la torta Barozzi, che da Jacopo prende il nome. La Barozzi è una torta leggendaria (una sorta di brownie al cioccolato fondente e caffè) dalla ricetta segretissima. Nessun ristorante del modenese è mai riuscito a imitarla, tanto che ancora oggi si trova nei menù con la denominazione “torta tipo Barozzi”. L’originale non costa poco, ma dura 50 giorni ed è un po’ come la Nutella o la Coca-Cola, un classico inimitabile.
I borlenghi
È arrivato il momento del pranzo, e il pranzo in Emilia, si sa, è una cosa seria. Se il gnocco e le tigelle sono conosciuti anche fuori dalla regione, saranno i meno noti borlenghi i protagonisti del pasto. Piatto tipico di Guiglia, sono delle sfoglie ripiegate come crêpe sottilissime e croccanti, farcite con battuto di lardo ed erbe aromatiche. Difficilissimo, se non impossibile, mangiarli a Modena, i borlenghi si trovano spesso nelle trattorie di questa zona. Ma con una raccomandazione: vanno accompagnati dal Lambrusco e non da vini corposi, per motivi che si capiscono al momento della digestione.
E a proposito di Lambrusco Grasparossa, dopo pranzo la strada ci porta proprio a Castelvetro, la città del vino. Prima di visitare lo splendido borgo collinare con la sua famosa piazza della dama, chiamata così per la caratteristica pavimentazione a lastre bianche e nere, vale la pena di fermarsi alla Fattoria Moretto, dove si produce uno dei Grasparossa migliori della zona. È un’azienda a conduzione familiare dove si può fare una visita guidata e una degustazione. Per arrivarci si percorre la via Tiberia, una delle strade più belle dell’Emilia-Romagna: tra i colori pastello dei casolari, la strada si protrae sul crinale della collina, da una parte il castello di Levizzano Rangone e dall’altra i filari a perdita d’occhio. Conviene arrivare fino all’oratorio di San Michele, una chiesetta romanica solitaria e immersa nelle vigne.
Infine si riscende in pianura, per concludere il viaggio al primo museo della salumeria in Italia: il MuSa di Castelnuovo Rangone. Qui in piazza, al posto della solita statua del patriota, c’è un maialino di bronzo, donato al borgo emiliano dall’Ente esportazioni carni olandese come segno di riconoscimento per la qualità del lavoro e dell’impegno nella lavorazione delle carni suine.
La campagnola
Per assaggiare i borlenghi e un’autentica zuppa inglese, a Vignola
AltoForno
Sotto ai Sassi della Rocca Malatina, per mangiare o acquistare un pane pluripremiato
Gelato
Sotto al torrione di Spilamberto, dove il gelataio filosofo fa il gelato alla castagna, al nocino, all’aceto balsamico e all’amaretto
Pasticceria Gollini
Per l’inimitabile torta Barozzi, a Vignola
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