Rave è una parola che appare ciclicamente sui mezzi d’informazione, è usata per dire tutto e il contrario di tutto. Per esempio per riferirsi ai free party (questo il nome corretto delle feste libere a base di musica elettronica), ma anche a eventi a pagamento, festival, feste private e qualunque cosa abbia un volume abbastanza alto, un suono abbastanza moderno e partecipanti abbastanza giovani da irritare i benpensanti.
In realtà il termine è legato a un momento preciso della storia dei free party, quello delle feste acid house della scena inglese di fine anni ottanta, che costituirono il prodromo dei futuri rave, ma avevano caratteristiche assai diverse da quelle di oggi.
Che la parola si presti a strumentalizzazioni è chiaro fin dalla sua origine. “Un termine nuovo e sgradevole è entrato a far parte del vocabolario inglese: raver”, scriveva il quotidiano popolare britannico Daily Mail nel 1961 a proposito dei partecipanti al festival di Beaulieu, in Francia, infiammati dalle note dei gruppi jazz che suonavano sul palco. “Rave” era quindi già usata in chiave dispregiativa.
Sui giornali italiani è comparsa molto più tardi rispetto all’organizzazione dei primi free party. Qualcosa di simile ai rave si vedeva già sulla scena romana degli anni novanta, con eventi come il Virus o l’Hard raptus. E in quella toscana, in cui una rete di fuori orario, ovvero feste che cominciavano all’alba per accogliere chi arrivava da altre serate, si era affiancata al giro progressive dei club (in cui la musica era techno e non tekno, che indica un sottogenere più veloce, ma anche alcune pratiche come l’occupazione di spazi abbandonati, eventi che durano più giorni e l’opposizione ai circuiti dell’intrattenimento mercificato). Tutto ciò succedeva nella completa ignoranza dei mezzi d’informazione.
L’underground era davvero sotterraneo e lo sarebbe stato a lungo: nel 2001 eventi legati al mondo free tekno come quello organizzato per capodanno dal centro sociale Livello 57 di Bologna erano descritti dalla stampa con parole come “odissea da alternativi fuori orario” o “grande festa di suoni e immagini all’insegna della contaminazione”. Mancavano ancora i termini giusti per raccontare quel mondo. E se non si usava ancora rave, figurarsi free party, free tekno o tribe (i gruppi di persone che portano in giro un soundsystem, ovvero i muri di casse, facendone spesso uno stile di vita).
Quando qualcosa non può essere definito è difficile anche da reprimere. A Milano, al grande free party di San Silvestro del 2002 arrivarono alcuni poliziotti: trovandosi di fronte quei muri di casse che sparavano tekno a 160 bpm, chiesero perplessi cosa stesse succedendo. La storica pioniera Betty23 gli disse che era “solo un raduno di culture underground che sarebbe finito in un paio di giorni” e quelli se ne andarono tranquillamente, limitandosi a dire di non lasciare vetro in giro.
A quei tempi, anche se alla stampa mancavano ancora le parole per raccontarle, il mondo delle feste libere era già entrato nella fase successiva, l’era delle tribe. Per capire di che parliamo bisogna però fare un passo indietro.
Nel 1992, quando nel Regno Unito la prima ondata di acid house era già passata, accadde un fatto importante: sei tribe (Circus warp, DiY, Cirkus normal, Adrenaline, Bedlam e Spiral tribe) portarono i loro soundsystem al Castlemorton common festival, un evento hippy nel Worcestershire, trasformandolo in una festa di una settimana, con picchi di trentamila presenze.
Nonostante ogni cosa si fosse svolta in pace e armonia, i mezzi d’informazione scatenarono una tempesta di allarmismo, e tredici persone della Spiral tribe furono arrestate e portate alla sbarra in quello che sarebbe stato uno dei più lunghi e costosi processi nella storia del Regno Unito. Furono tutti assolti, ma nel 1994 fu approvato il Criminal justice and public order act, che vietava “eventi dove la musica include suoni caratterizzati dall’emissione di una successione di battiti ripetitivi”.
Un caso quasi unico di discriminazione musicale, tant’è che a cercare un precedente si finisce nella Germania nazista, dove il regolamento per le orchestre vietava i “ritmi sincopati e isterici della musica delle razze barbare” per non “stimolare bassi istinti” contrari al “senso ariano di disciplina e moderazione”.
Ma l’invenzione delle tekno tribe era troppo potente per poter essere fermata da una legge e gli Spiral, che avevano ancora negli occhi le masse festose di Castlemorton, lo sapevano. Si era trovata una sintesi nuova tra quattro sottoculture: il nomadismo e la psichedelia degli hippy avevano incontrato l’autoproduzione del punk; l’idea giamaicana del soundsystem come mezzo di riappropriazione dello spazio pubblico aveva trovato la sua musica ideale nei suoni techno e il risultato aveva una capacità di mobilitazione che non si vedeva dagli albori del rock.
Fu così che gli Spiral tribe decisero di lasciare il Regno Unito per diffondere il verbo. Francia, Italia e Repubblica Ceca furono tra le prime destinazioni: annunciati da semplici volantini fotocopiati con la scritta “Spiral tribe in the area”, free party piccoli e grandi cominciarono a spuntare in giro per il continente. Ben presto agli Spiral tribe e ad altri gruppi britannici cominciarono ad aggiungersi anche tribe di altri paesi.
In Francia nacquero gli Okupé, i Tomahawk, gli Ubiq, i Metek, gli Heretik, in Italia gli Olstad, i Kernel panik, i Latitanz, i Tekno mobil squad (e poi Revolt99, HZD, OTK, Tribe Unitz, Zapotek, Mad Factory), in Repubblica Ceca i Cirkus alien e i Matchbox (e ancora Metro, Swamp, Frontall) in Austria i Lego, nei Paesi Bassi i Kierewiet…
È una lista lunga ma incompleta, dato che nascevano in continuazione nuove tribe e altre si fondevano prendendo nomi differenti: nel giro di pochi anni i siti internet del movimento presentavano elenchi di più di duecento tribe, dai piccoli soundsystem locali agli organizzatori di teknival da decine di migliaia di persone.
Con il moltiplicarsi delle tribe cominciarono a prendere forma anche grandi ritrovi annuali, i teknival appunto, dove venivano montati più muri di casse, dando così vita a vere e proprie città temporanee: la bibbia del movimento era del resto il saggio pubblicato nel Regno Unito nel 1991 T.A.Z. Zone temporaneamente autonome (Shake 2007) del filosofo anarchico Hakim Bey.
Nel 2004 al CzechTek di Boněnov, in Repubblica Ceca, si ritrovarono 165 tribe da tutta Europa, con 84 muri di casse. Era solo il culmine di una stagione grandiosa – da quasi un decennio si svolgevano almeno un paio di teknival all’anno in Europa –, ma simili grandezze di scala non potevano più passare inosservate.
I mezzi d’informazione cominciarono a inquadrare il fenomeno – usando ossessivamente la parola rave –, la politica vide un’occasione di propaganda e le forze dell’ordine cambiarono atteggiamento.
Il CzechTek del 2005 a Mlýnec fu attaccato brutalmente dalla polizia ceca e gli episodi di repressione si moltiplicarono ovunque, senza però riuscire ad arginare il fenomeno, che continuava a mutare e spostarsi, proteiforme.
Nel 2007 a Pinerolo c’è stata la festa più grande mai organizzata in Italia, con cinquantasette muri di casse per una settimana e più di balli. A molti è sembrata un canto del cigno, dato che negli anni successivi si sarebbe assistito a una relativa degenerazione della scena: diventati più visibili, i free party hanno cominciato a essere frequentati anche da persone che non ne condividevano i valori libertari e sono spuntate droghe pesanti come eroina e cocaina, che hanno peggiorato l’atmosfera.
Le sostanze d’elezione dei raver sono psichedelici come l’lsd, entactogeni (molecole che aumentano l’empatia) come l’mdma e dissociativi come la ketamina.
Questa degenerazione, insieme all’aumento della repressione, ha portato alcuni a smettere di frequentare i free party e altri a rivolgersi al mondo dei psytrance, l’altra metà del cielo della cultura rave. Nati a Goa, in India, questi festival sono caratterizzati da un immaginario post hippy e fin dall’inizio hanno preferito stare nel perimetro della legalità, con un biglietto da comprare per partecipare.
Forse è lì il nodo, e il motivo di un accanimento che continua ancora oggi: free party significa festa libera, ma anche festa gratuita, e questo ostinato posizionarsi fuori dalle logiche del capitale continua a non andare giù al sistema, una parola che sarebbe modernariato, se la free tekno non l’avesse rimessa in circolo con il suo “fuck the system” (fotti il sistema) mutuato dal punk e affiancato da corollari come “the only good system is a soundsystem” (l’unico sistema buono è un soundsystem).
I free party si sono affermati come una prassi per ragazze e ragazzi che decidono di stare insieme e fare festa, e come tale andrebbero considerati
Tutto questo porta agli eventi della scorsa estate. Rispetto agli anni bui tra il 2009 e il 2014 sono cambiate tante cose, anche grazie a una nuova generazione di tribe, meno legata a uno stile di vita nomade ma molto motivata a organizzare free party.
Già dal 2015 si cominciano a vedere feste di grandi dimensioni – e con la giusta vibrazione – come i vari Borderless sound explosion, il primo Space travel o il Labirinz decade. Finché, nel ferragosto 2021, accade l’imprevedibile: lo Space travel vol.2 di Valentano, al confine tra Toscana e Lazio, si presenta come un vero e proprio teknival a piena potenza. Quasi un centinaio di tribe da tutta Europa per una trentina di muri di casse: numeri da epoca d’oro.
La reazione della stampa supera però l’allarmismo visto fino ad allora. Si diffondono notizie false per criminalizzare l’evento, a cominciare da quella sull’annegamento di un ragazzo, Gianluca Santiago, in un lago a una mezz’ora dal teknival.
Nessun giornale verifica se i due fatti sono collegati – alcuni giorni dopo il padre dirà che il figlio non era stato alla festa – e il “morto al rave” finisce sulle prime pagine. A questo punto la narrazione si spinge ancora oltre: si parla di un secondo morto, di coma etilici, stupri, cani morti e perfino di un parto in mezzo alla polvere.
Notizie false che nella maggior parte dei casi compaiono sui giornali online della Tuscia, sono riprese (sempre senza controlli) dalle edizioni locali dei grandi quotidiani e finiscono in tv e nelle cronache nazionali.
Già nei giorni del teknival giornali come Esquire, Il Dubbio, il Manifesto, DinamoPress, Il Foglio, RomaToday, Leggilanotizia e L’Indipendente smontano questa narrazione, ma non basta a rompere il clima di panico morale contro i rave.
In parlamento la ministra Luciana Lamorgese è messa sotto accusa dalle destre, ma in realtà la gestione dell’evento a livello di ordine pubblico è stata sensata, con un monitoraggio dall’esterno che ha permesso di evitare incidenti, lasciando ai raver anche il tempo di ripulire l’area. La Lega propone un disegno di legge contro i rave, ignorando la sentenza 36228/2017 della corte di cassazione, che sancisce la legittimità dei rave in virtù dell’articolo 17 della costituzione.
Che una legge contro i rave sia inutile e dannosa lo dicono il buonsenso e la storia: in Francia, dove un provvedimento del genere esiste dal 2001, l’effetto è stato nullo, visto che ci sono più free party oggi che vent’anni fa, mentre l’unica cosa che è cambiata è la ferocia della repressione, come dimostra quello che è successo nel giugno 2021 a Redon, dove un ragazzo ha perso una mano a causa di una flashball (un’arma non letale usata per disperdere le folle) usata dalla gendarmerie.
Ma è forse il caso di andare oltre un semplice no a leggi di questo tipo. A trent’anni da Castlemorton i free party si sono affermati come una prassi per ragazze e ragazzi che decidono di stare insieme e fare festa, e come tale andrebbero considerati.
L’effetto sulla società europea di un simile rizoma di libertà, musica e socialità è stato peraltro solo positivo. Vale la pena ricordare le parole di un anziano di Pinerolo che, intervistato in occasione del teknival organizzato in un ex ballatoio militare della città, fece notare che il luogo in cui i ragazzi arrivati da tutta Europa ballavano era lo stesso in cui un tempo altri ragazzi si erano addestrati a uccidere durante la leva.
Allora si potrebbe riprendere un’idea che circolava su certi volantini proprio a Pinerolo: una candidatura dei free party (no, non dei rave) a patrimonio immateriale dell’Unesco. Era una cosa a metà tra lo scherzo e la provocazione, ma ci vuole poco a prenderla sul serio: piacciano o no, i free party sono una delle poche espressioni culturali europee spontanee e trasversali a livello di classe, razza e genere, e fanno ormai parte della coscienza collettiva e della storia dei nostri paesi.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it