Nei tre mesi e mezzo trascorsi tra le festività natalizie e quelle pasquali Enrica Amaricci ha incontrato sua madre, 73 anni e affetta da alzheimer, due volte: il 24 marzo e il 14 aprile. “A dicembre la residenza sanitaria assistenziale (rsa) nella quale è ricoverata, vicino a Roma, ha interrotto tutte le visite per la presenza di alcuni pazienti positivi al covid e, quando ha riaperto, ha limitato gli accessi al giovedì mattina”. Amaricci è tra i familiari che si stanno mobilitando per denunciare che, mentre l’Italia è uscita formalmente dall’emergenza pandemica, molti anziani nelle rsa sono ancora costretti a sacrificare le proprie relazioni. “Chiediamo la riapertura totale delle rsa ma anche che le istituzioni affrontino i problemi strutturali e rivedano i parametri di accreditamento che secondo noi sono inadeguati”, spiega Claudia Sorrentino, figlia di un’anziana in rsa e animatrice del Coordinamento nazionale parenti, associazioni, lavoratrici e lavoratori (Conpal). Il 30 maggio il Conpal ha organizzato per la seconda volta in due mesi un presidio al ministero della salute a Roma e altre proteste in sedi istituzionali di sei città italiane ottenendo un incontro con Tiziana Coccoluto e Alessandro Milonis, capo e vice capo di gabinetto del ministero, “che si sono presi l’impegno di scrivere alle asl in merito alle riaperture e di fissare nuovi appuntamenti”, dicono dal Conpal.

Le visite erano state sospese nella prima fase della pandemia, quando il covid si era diffuso in molte rsa causando un’impennata di decessi tra i pazienti. Con l’avvio della vaccinazione e il calo dei contagi anche il governo ha riconosciuto la necessità di autorizzare nuovamente le visite in sicurezza. A maggio del 2021, con un’ordinanza del ministro della salute Roberto Speranza, e poi con i decreti che di volta in volta hanno regolato le misure per contenere la pandemia, il governo ha consentito l’accesso ai visitatori, sette giorni su sette, per un massimo di 45 minuti. Ai direttori sanitari è però stata lasciata la facoltà di adottare restrizioni, con il risultato che ogni struttura sta decidendo in autonomia.

A Civitavecchia, nella rsa dove è ricoverata la madre di Antonio Burattini, tra i fondatori del comitato di familiari Anchise, le visite avvengono nella cappella della residenza: “Possiamo entrare in due, per mezz’ora, e un operatore sta con noi tutto il tempo per controllare che non abbassiamo la mascherina”. Burattini incontra la madre, 91 anni e in sedia a rotelle, una volta alla settimana. Prima della pandemia pranzava con lei tutti i giorni: “Le portavo i dolcetti e facevo compagnia anche agli anziani più soli ”. Anche Monica Mazzullo, del Comitato parenti di anziani in rsa di Torino, incontrava la madre, 76 anni, tutti i giorni dopo il lavoro. “Invece sono tre anni che non trascorro il Natale o la Pasqua con lei perché nei festivi il personale diminuisce e la struttura non riesce a garantire le visite”. La madre di Mazzullo è cieca a causa del diabete: “Il contatto fisico per lei è fondamentale. Un giorno ho infranto le regole e l’ho abbracciata”.

Come le madri di Amaricci, Burattini e Mazzullo, circa 265mila anziani, secondo dati Istat del 2018, sono ricoverati in residenze sociosanitarie, strutture extraospedaliere introdotte nel servizio sanitario nazionale alla fine degli anni ottanta e destinate a persone non autosufficienti, affette da malattie croniche, che hanno bisogno di assistenza continua. Gli anziani occupano più del 70 per cento dei posti letto delle strutture assistenziali presenti in Italia, mentre il 13 per cento è destinato a persone con disabilità e disturbi psichiatrici. Anche le loro famiglie si stanno mobilitando insieme al Conpal per gli stessi motivi.

La salute di queste persone non è stata messa a rischio solo dal covid ma anche dal prolungato isolamento. L’Istituto superiore di sanità, in un report del marzo 2021, scrive che il distanziamento fisico e sociale espone gli anziani al rischio di sentirsi abbandonati, e che questo può portarli a rifiutare le cure o renderle meno efficaci fino a determinare, nei casi più gravi, la morte. Il contatto con figli e nipoti ha un valore terapeutico e motiva il percorso riabilitativo. Inoltre molte strutture hanno sospeso per mesi attività di fisioterapia, logopedia e terapia occupazionale. Secondo un’indagine della comunità di Sant’Egidio effettuata su 240 strutture in dieci regioni, nella primavera del 2021 il 64 per cento non consentiva le visite, il 61 per cento non permetteva uscite nemmeno per esami specialistici e appena il 20 per cento aveva una “stanza degli abbracci”, un ambiente con una parete trasparente e morbida che consente il contatto fisico. I parenti denunciano ancora oggi le stesse difficoltà nonostante l’Italia abbia riaperto quasi tutte le attività. Inoltre per entrare nelle rsa l’obbligo di green pass è stato esteso fino alla fine dell’anno, senza possibilità di entrare con il solo tampone negativo, sollevando le proteste dei familiari non vaccinati.

Diritti violati

A gennaio del 2022 la madre di Amaricci è risultata positiva al covid. “Nonostante fosse asintomatica, non potevo parlare con lei nemmeno al telefono perché era in isolamento nella sua stanza. Quando l’ho rivista alla fine di marzo era disorientata e non camminava quasi più”. Quando la struttura ha riaperto “c’era così tanta gente in coda che riuscivo a ottenere un appuntamento ogni quindici giorni. Le misure sono state allentate a giugno: visite consentite tutte le mattine per mezz’ora, festivi esclusi, e senza entrare in reparto. Inoltre posso farla uscire in giornata”. Per Amaricci il tempo è prezioso: “Oggi mia madre mi riconosce, domani non lo so”.

Non è solo la riduzione delle visite a pesare. Da più di due anni i parenti non possono entrare nelle stanze e questo per molti significa aver perso il controllo sui bisogni dei loro familiari anziani. Lo racconta anche Debora Del Pistoia, ricercatrice di Amnesty international che in due rapporti ha denunciato la violazione di diritti di anziani e lavoratori nelle rsa durante la prima fase della pandemia: “Le famiglie hanno un ruolo di supporto all’assistenza e di ispezione delle condizioni di salute dei propri cari, che oggi è saltato perché nessuno può più entrare nei reparti. Con la carenza di personale esplosa con l’emergenza, inoltre, abbiamo riscontrato anche casi di ricorso a misure di contenzione ai letti”.

Anche se le residenze assistenziali sono previste dal servizio sanitario nazionale, il quadro è frammentato. Le rsa rispondono a venti sistemi di accreditamento regionali diversi . Anche i costi del servizio e le rette variano a seconda delle regioni. In media si aggirano attorno ai 110 euro al giorno per paziente, circa 3.300 euro al mese. Di solito i servizi sanitari, circa la metà dell’importo, sono coperti dal finanziamento pubblico, mentre la quota alberghiera, tra i 1.500 e i duemila euro, è a carico del paziente e dei figli. Solo in caso di disagio economico interviene il comune.

Il sistema è frammentato anche sotto il profilo dei gestori. Negli ultimi anni è aumentato il peso delle grandi società private, che gestiscono decine di strutture sanitarie e sociosanitarie ciascuna, coprendo circa il 26 per cento dei posti letto. Quasi il 49 per cento invece è nelle mani del privato non profit: cooperative, fondazioni, associazioni, enti religiosi. Poco più del 25 cento è gestito da un soggetto pubblico.

Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, ha seguito la situazione nelle rsa fin dai primi giorni della pandemia e ha chiesto agli assessori alla sanità regionali un monitoraggio sulle modalità delle visite. “Il problema è che gli assessorati regionali non possono imporre le loro decisioni ai direttori sanitari, che possono decidere di limitare le visite per paura di dover rispondere della mancata tutela dei pazienti”, dice Palma. “Per questo il 20 giugno durante la mia relazione al parlamento chiederò che la salvaguardia delle relazioni affettive diventi uno dei criteri di accreditamento, ma anche più garanzie per i direttori”. Per l’Associazione italiana ospedalità privata (Aiop), i direttori sanitari si attengono semplicemente alle norme. “Il ministero ci invita a trovare soluzioni, ma mantiene una serie di paletti, soprattutto in presenza di contagiati”, spiega Enrico Brizioli, coordinatore della commissione rsa per l’Aiop. Inoltre, per organizzare le visite serve personale per la sorveglianza. “Spesso, però, lavoriamo con l’organico al limite: i pazienti positivi vanno isolati e richiedono più personale che, a sua volta, resta a casa se contagiato”.

Le difficoltà legate alla gestione in pandemia hanno messo in luce problemi già esistenti come la carenza di personale. Sulla difficoltà cronica di reperire infermieri, hanno pesato le assunzioni straordinarie nel settore pubblico per far fronte alla pandemia. A migliaia hanno lasciato un impiego nell’assistenza agli anziani, poco valorizzato, più faticoso e meno remunerativo.

“Un infermiere o un operatore del settore sociosanitario privato ha uno stipendio inferiore di circa 350 euro al mese rispetto a un collega che lavora nel pubblico”, spiega Barbara Francavilla, segretaria nazionale sanità privata della Fp Cgil. A creare disparità di retribuzione e diritti contribuisce la proliferazione dei contratti del settore: 47, più della metà dei quali definiti “pirata” dalla Cgil perché firmati da associazioni di imprese e sindacati non rappresentative. “La situazione cambia a seconda della struttura, ma anche all’interno dello stesso luogo di lavoro tra vecchi e nuovi assunti”, spiega Francavilla. Il suo sindacato, insieme alla Cisl Fp e alla Uil Fpl, alla fine di marzo ha avviato una mobilitazione per l’apertura di un tavolo sui contratti di due delle principali organizzazioni che rappresentano le imprese, l’Associazione religiosa degli istituti sociosanitari (Aris) e l’Associazione italiana ospedalità privata, che risultano fermi a 14 anni fa. “Siamo consapevoli che il contratto non viene rinnovato da molti anni”, dice padre Virginio Bebber, presidente dell’Aris. “Tuttavia per avviare un confronto riteniamo necessario un contributo finanziario da parte del ministero della salute e delle regioni a copertura di questa voce”. Una linea condivisa da più di dieci operatori del settore sociosanitario, da Confcooperative all’Unindustria, che a marzo hanno lanciato un appello al governo chiedendo di adeguare le tariffe di accreditamento, “ferme da più di dieci anni”, per poter coprire i crescenti costi di gestione e “scongiurare il collasso dell’intero settore”.

Catena di montaggio

Oltre al fattore economico, sul personale pesa lo stress. Tra le cause denunciate da alcuni rappresentanti sindacali ci sono i turni straordinari, lo scarso riconoscimento della professionalità e un’organizzazione del lavoro che assegna a ogni paziente un “minutaggio”. Si va dai 120 ai 210 minuti al giorno a paziente a seconda del grado di non autosufficienza e degli standard regionali.

“La mattina abbiamo circa sette minuti per vestire un paziente. Per la doccia, una volta alla settimana, un quarto d’ora. Gli imprevisti non mancano: in alcune strutture non è un problema, in altre si lavora in fretta per paura di ritorsioni”, racconta Mauro Caffo, operatore sociosanitario in una rsa di Parma e delegato sindacale dell’Usb. “Inoltre, secondo le nostre stime”, dice Caffo, “il numero di operatori sociosanitari, infermieri e medici presenti nelle strutture in rapporto ai pazienti è spesso troppo basso”. Per Gianna, operatrice sociosanitaria per trent’anni e delegata sindacale della Cub sanità Torino, “la vita degli anziani nelle rsa è organizzata come una catena di montaggio. Non hanno più nulla che gli ricordi la vita precedente. Anche per i lavoratori è pesante, sia fisicamente, perché sono arrivata a cambiare anche 120 anziani a turno, sia psicologicamente, perché avrei voluto più tempo da dedicargli”.

Mancano anche i posti letto. Nel 2019 l’Italia ne aveva meno della metà rispetto alla media dei paesi dell’Ocse: 19,4 ogni mille pazienti di più di 65 anni contro 45,6. L’Italia è anche il paese con più anziani in Europa, il 23 per cento della popolazione, e l’Istat stima che nel 2050 potrebbero arrivare al 35 per cento. Nel 2019 le persone di più di 75 anni erano 6,9 milioni; di questi, 2,7 milioni presentavano una ridotta autonomia. Di questi più di un milione ha dichiarato di non poter contare su un aiuto adeguato. “Il servizio sanitario non riesce a garantire la continuità delle cure alle quali tutti i malati, anche quelli cronici non autosufficienti, hanno diritto per legge”, denuncia Maria Grazia Breda, presidente della Fondazione promozione sociale onlus di Torino. “Troppi anziani attendono per mesi, anche anni, di essere ricoverati in convenzione e le famiglie che non ce la fanno più sono costrette a sostenere costi che le portano a indebitarsi”.

Per Antonio Sebastiano, direttore dell’Osservatorio settoriale sulle rsa del Centro sull’economia e il management in sanità e nel sociale della Liuc business school, sui costi pesa la crescente necessità di cure sanitarie: “Oggi nelle rsa entrano soprattutto anziani over 85, totalmente non autosufficienti, con disfunzioni fisiche importanti e una marcata compromissione della sfera cognitiva. Hanno bisogno di assistenza 24 ore su 24 e difficilmente sono gestibili a domicilio”.

Le difficoltà emerse durante la pandemia hanno portato il governo a inserire tra gli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) una riforma dell’assistenza agli anziani non autosufficienti entro la fine della legislatura, nella quale rientrano le rsa. I lavori sono stati affidati alla commissione per le politiche in favore della popolazione anziana, istituita dal presidente del consiglio Mario Draghi e composta dai rappresentanti di tredici ministeri. La commissione a metà maggio ha inoltrato alla presidenza del consiglio dei ministri il testo di una proposta di legge delega che ora attende di essere discussa e approvata per poi essere presentata al parlamento.

L’obiettivo è integrare le politiche sociali, sanitarie e previdenziali. Lo spiega monsignor Vincenzo Paglia, coordinatore della commissione interministeriale: “La proposta prevede servizi integrati di assistenza domiciliare, sociale e sanitaria perché gli anziani, nei limiti del possibile, vanno lasciati nella loro abitazione. Intorno a questo elemento abbiamo progettato un continuum assistenziale che va da servizi di rete, di prevenzione e di inclusione, ai centri diurni integrati fino a soluzioni residenziali aperte e in piena connessione con le famiglie, il volontariato e il territorio”.

A seguire da vicino i lavori della commissione è il Patto per un nuovo welfare per la non autosufficienza, formato da più di cinquanta realtà del terzo settore: “Proponiamo la creazione di un sistema nazionale di assistenza agli anziani con un unico percorso di accesso alle prestazioni e una chiara definizione dei livelli di assistenza, uguali per tutti sul piano nazionale e poi calibrati nel contesto regionale”, spiega Franca Maino, docente universitaria e parte del gruppo di esperti del Patto. “Oggi, invece, il quadro è frammentato e produce molte disuguaglianze”.

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