La biennale delle fotografe
Dopo l’interruzione nel 2020 della prima edizione a causa della pandemia da covid-19, la Biennale internazionale della fotografia femminile ritorna a Mantova dal 3 marzo, grazie al lavoro dell’associazione La Papessa e alla direzione artistica di Alessia Locatelli.
La particolarità del festival è dare spazio esclusivamente a progetti realizzati da fotografe, che ancora oggi lavorano in un settore dominato dallo sguardo maschile e dove spesso la rappresentazione del corpo femminile è legata agli stereotipi di genere. La biennale di Mantova offre alle artiste in mostra l’opportunità di far conoscere il loro lavoro, promuovendo un dialogo sulla parità, l’uguaglianza e la libertà di espressione.
Il tema di questa edizione ruota intorno al concetto di legacy, inteso come eredità per le generazioni future. Con Signs of your identity, Daniella Zalcman ritrae adulti indigeni americani che da bambini sono stati sottoposti dal governo canadese a una serie di abusi, fisici e psicologici, nelle scuole residenziali gestite dalla chiesa e ideate per cancellare ogni traccia della loro cultura di appartenenza. The war is still alive è un progetto dell’iraniana Fatemeh Behboudi, cominciato nel 2014. Anche lei, come Zalcman usa il bianco e nero per raccontare un trauma, quello delle madri che attendono ancora il ritorno del feretro dei figli, uccisi nella guerra tra Iran e Iraq.
Ilvy Njiokiktjien è una fotografa olandese che con Born free esplora cosa significa convivere con l’eredità dell’apartheid in Sudafrica. Il progetto è durato dodici anni, dal 2007 al 2019, e si concentra sulla prima generazione “libera”, quella nata dopo il 1994, con il suo primo presidente nero, Nelson Mandela, e una costituzione che garantisce gli stessi diritti per tutti i cittadini. Attraverso la vita quotidiana di questi giovani adulti, Njiokiktjien ci mostra un paese rinnovato ma ancora assediato dal razzismo e le disuguaglianze.
Highness di Delphine Diallo, artista francosenegalese residente a New York, porta avanti uno studio dell’iconografia tradizionale, basato sull’antropologia e la mitologia, per cercare di mettere a nudo gli stereotipi e le sovrastrutture sociali applicate alla rappresentazione delle persone di origine africana. Tami Aftab si relaziona invece con le sue origini creando una collaborazione con il padre, affetto da idrocefalia, una malattia che causa l’accumulo di liquido cefalorachidiano nei ventricoli del cervello. Venticinque anni fa durante un’operazione per un bypass coronarico, l’uomo ha avuto un’emorragia interna che gli ha danneggiato la memoria a breve termine. A causa di questa condizione, si dimentica spesso il cane in macchina, un episodio tipico e in un certo senso divertente per tutta la famiglia. Nasce così l’idea di The dog’s in the car, in cui la fotografa londinese naviga parallelamente tra il documentario e lo spettacolo per raccontare la sua famiglia.
Le altre autrici della biennale sono Solmaz Daryani, Sarah Blesener, Myriam Meloni, Flavia Rossi, Esther Ruth Mbabazi, Betty Colombo e il collettivo Lumina. Le mostre saranno aperte fino al 27 marzo.