La classe media va all’inferno
Nel 1985 Chauncey Hare dona il suo archivio fotografico alla biblioteca Bancroft dell’università della California. La condizione è che ogni sua riproduzione riporti questa didascalia: “Queste fotografie sono state realizzate da Chauncey Hare per protestare contro il crescente predominio delle multinazionali, i loro proprietari e manager sulla forza lavoratrice”.
Le sue immagini, scattate tra la fine degli anni cinquanta e gli ottanta, raccontano la classe media bianca statunitense, quella che lavora negli uffici di grandi aziende e vive nei suburbs, le aree residenziali ai margini della città. Tra quegli impiegati annoiati c’è anche lui, per vent’anni alla scrivania della Standard Oil come ingegnere chimico.
In questo ruolo duplice, di soggetto e osservatore delle vite degli altri, Hare costruisce un discorso che lega l’arte alla politica, riflettendo sugli effetti del capitalismo sulle persone comuni. Nonostante tre borse di studio della fondazione Guggenheim, una mostra al Moma e la pubblicazione di due monografie per Aperture (Interior America del 1978 e This was corporate America del 1984), il fotografo preferisce non inserirsi nelle logiche commerciali del mondo dell’arte e rinuncia al successo preferendo una carriera come psicoterapista. Nel 1997 scrive insieme a Judith Wyatt il libro Work abuse: how to recognize and survive it.
Sebbene per Hare questo percorso nella medicina rappresenti l’antitesi della sua precedente attività artistica, è evidente quanto abbia indagato le stesse tematiche per tutta la vita. Come ricorda Tim Adams sul Guardian, già negli settanta le sue foto erano state accostate, dalla critica Janet Malcolm del New Yorker, al modo in cui uno psicoanalista lavora tramite le libere associazioni; immagini apparentemente banali ma che sembrano “tremare” per la carica di significati latenti, come se ogni cosa al loro interno rappresentasse qualcos’altro.
L’opera di Hare, rimasta dimenticata dopo il successo degli anni settanta, è stata recuperata e approfondita dallo storico dell’arte Robert Sifkin in Quitting your day job (Mack), una biografia critica che con saggi e interviste mostra come le sue foto possano, ancora oggi, parlarci della pervasività delle grandi aziende nella nostra vita quotidiana e della relazione controversa tra arte e potere.