Solitudine in tre atti
A partire dalla metà degli anni ottanta il fotografo Gregory Crewdson ha intrapreso un’esplorazione degli Stati Uniti suburbani e rurali, quelli più lontani dai fermenti metropolitani nonché dall’illusione di vittoria e intraprendenza individuale alla base del sogno americano.
Le sue opere prendono forma all’interno della staged photography, un genere in cui il racconto è affidato a una messa in scena elaborata, fatta di metafore e allusioni. Crewdson, nato a New York nel 1962, non ha l’anima del fotoreporter che osserva la realtà nelle strade e l’attimo dopo la immortala nella sua fotocamera. Il suo metodo è più assimilabile a quello di un regista cinematografico: ogni serie che realizza è preceduta da lunghi sopralluoghi, la stesura di uno storyboard, la scelta di modelle e modelli; al suo fianco lavora una vera e propria troupe con un direttore della fotografia, e c’è posto anche per gru e macchine fotografiche di grande formato. “Non sono a mio agio se tengo in mano una fotocamera”, ha raccontato al New York Times un paio di anni fa, “mi interessa di più quello che vedo di fronte a me”.
Per temi e atmosfere, i suoi lavori sono stati accostati a film come Velluto blu, Incontri ravvicinati del terzo tipo, Vertigo e La morte corre sul fiume, anche se l’ispirazione fondamentale resta l’opera di Edward Hopper, il pittore che prima di tutti mise in scena la solitudine negli Stati Uniti del novecento.
Nel 2012 si è lasciato alle spalle un matrimonio fallito, New York, le modelle prese in prestito da Hollywood (come Julianne Moore e Gwyneth Paltrow) e si è spostato verso il Massachusetts, dove ha cominciato a lavorare a progetti più personali. Si è stabilito a Becket, un piccola località dove andava in vacanza da bambino, vivendo in mezzo alla natura e in una chiesa metodista sconsacrata, dove ha ritrovato la bellezza di cui aveva bisogno per ripartire.
Così è nato Cathedral of the pines, che è il nome di una strada in cui si è imbattuto nelle sue lunghe escursioni nella zona, lavorando con una troupe ridotta e lasciandosi incantare dalla luce naturale della foresta. In Cathedral, concluso nel 2014, troviamo dei soggetti che nonostante l’apparente solitudine cercano una cura, un posto nuovo dove rifugiarsi e connettersi a qualcosa o qualcuno.
Con il successivo An eclipse of moths (2018-2019) Crewdson si è spostato a Pittsfield, sempre nel Massachusetts, una città colpita pesantemente dalla crisi economica e dalla dipendenza da oppioidi. Nella disperazione delle falene (moth) attratte ma confuse dalle luci elettriche, private dai loro punti di riferimento, ha visto una metafora della sconfitta della stessa Pittsfield. “Purtroppo non è stato difficile trovare delle comparse tristi e depresse. Non è stato necessario rivolgersi ad attori o modelli professionisti, e in ogni caso non avrei voluto usarli”, ha detto.
Cathedral of the pines e An eclipse of moths fanno parte di una trilogia conclusa da Eveningside, commissionato in parte da Intesa Sanpaolo per Gallerie d’Italia a Torino. Quest’ultimo progetto si concentra sulla contemplazione della vita quotidiana e dei luoghi di lavoro, abitati da personaggi che sembrano interrogarsi sulla loro condizione esistenziale attraverso il riflesso di uno specchio o nella vetrina di un negozio. Per la prima volta il fotografo ha scelto il bianco e nero, un omaggio al cinema classico e all’immaginario gotico. Eveningside non è un luogo preciso, ma il risultato di una geografia composita, ricreata dall’unione di alcune cittadine del New England che Crewdson aveva già fotografato.
Alle Gallerie torinesi approdano quindi tutti i tasselli di questa trilogia, dislocata su una lunga strada solitaria sulla quale l’autore ha portato la sua ricerca esistenziale e politica per ritrovare spazi familiari e tracciare la desolazione dell’America di oggi. La prima serie che vediamo nella mostra, curata da Jean-Charles Vergne e aperta fino al 22 gennaio, prende però in contropiede: si tratta di Fireflies, che Crewdson realizza da solo, senza messa in scena o post-produzione, e dove si concentra sull’osservazione poetica e minimalista delle lucciole al crepuscolo. Come racconta Vergne, Fireflies rappresenta un gesto inaspettato, forse troppo intimo, che il fotografo ha lasciato nel cassetto per dieci anni. In realtà introduce bene lo spettatore alla contemplazione della natura che è alla base dell’opera di Crewdson, rivelandone la sua sostanza metafisica.
Un articolo di Christian Caujolle su An eclipse of moths è stato pubblicato su Internazionale 1383, il 6 novembre 2020.