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Libano, 2006. Civili arrivano a Tiro dopo essere fuggiti dai loro villaggi nel sud del paese durante i raid aerei israeliani. (Paolo Pellegrin, Magnum Photos)
Mosul, Iraq 2016. Combattenti peshmerga piangono la morte di un loro compagno, ucciso da un cecchino dell’Isis. (Paolo Pellegrin, Magnum Photos)
Grecia, 2015. Stanchezza e lunghe ore di attesa nel caldo cocente provocano il collasso e lo svenimento dei rifugiati sull’isola di Lesbo. (Paolo Pellegrin, Magnum Photos)
Kulychkiv, Ucraina 2023. Una donna inginocchiata sul ciglio della strada per il passaggio del corteo funebre di un soldato ucciso. (Paolo Pellegrin, Magnum Photos)
Stati Uniti, 2013. Una famiglia a Rochester, New York. (Paolo Pellegrin, Magnum Photos)
Cuba, 2006. Detenuti attraversano il campo 4 nel centro di detenzione di Guantánamo. (Paolo Pellegrin, Magnum Photos)
Cisgiordania, 2002. La madre di un bambino ucciso durante un’incursione delle forze di difesa israeliane a Jenin. (Paolo Pellegrin, Magnum Photos)
Italia, 2015. Angelina gioca a casa di sua nonna Sevla, Roma. (Paolo Pellegrin, Magnum Photos)

Paolo Pellegrin e l’orizzonte degli eventi

Nella fisica teorica l’orizzonte degli eventi è quella zona liminale in prossimità di un buco nero oltre la quale nessuna particella di materia può più passare, neanche la luce. Paolo Pellegrin, come tutti i fotografi, lavora con la luce e, come tutti i fotogiornalisti impegnati in zone di guerra o in situazioni estremamente delicate, sa bene che esiste una soglia che divide lo scatto giusto dal nulla. L’immagine va catturata in quel momento, subito prima che venga inghiottita nel buco nero.

Gli oltre trecento scatti di Pellegrin esposti alla mostra L’orizzonte degli eventi allestita alle Stanze della fotografia a Venezia, pur essendo scattati ai quattro angoli del mondo e nelle situazioni più diverse e con le finalità più disparate, hanno una cosa in comune: sono immagini letteralmente pescate dal buio e portate davanti ai nostri occhi. Non importa che nelle immagini compaiano soldati, guerriglieri, profughi, animali della savana, aquile o semplicemente sassi, alberi bruciati da un incendio o mari in tempesta, l’atteggiamento di Pellegrin è sempre lo stesso: di ascolto e di relazione silenziosa con ciò che vede. Il fotografo non è né il regista teatrale che reinterpreta una realtà caotica per rendercela leggibile giocando con luci e ombre, ma neanche il testimone muto e invisibile che afferra il suo scatto come un ladro.

Guardando le fotografie scattate in Ucraina, in Iraq, in Libano e in Palestina sentiamo la presenza del fotografo: lui è lì, in mezzo a persone che in quel momento soffrono, hanno paura o stanno rischiando la vita. E si palesa, si presenta a loro ma allo stesso tempo, ed è questa la chiave del suo lavoro, trova la giusta distanza. Il trucco per catturare l’immagine prima che scompaia oltre l’orizzonte degli eventi è quello di capire la giusta distanza, di esserci senza essere d’intralcio, di esserci senza influenzare la storia. Pellegrin parla di una “zona sacra” in cui lui rispettosamente chiede di entrare. Quando quel permesso gli è concesso e viene calcolata la giusta distanza, allora nasce lo scatto che non è solo un atto univoco del fotografo che cattura quell’atomo di realtà, ma nasce da una sorta di collaborazione con i suoi soggetti o con il paesaggio che lo circonda. Gli scatti di Pellegrin non sono attimi congelati nel tempo ma sono frutto di una relazione, di un rapporto che esisteva prima dello scatto e che continua dopo.

Tutte le foto di Pellegrin parlano di rapporti, di reciprocità, di solidarietà. Più ci sono limiti o impedimenti (le regole per fotografare all’interno del carcere di Guantánamo per esempio sono rigidissime) e più lui cerca l’angolo giusto, il punto di porosità attraverso cui lo sguardo può entrare senza forzature. Soprattutto tutte le foto di Pellegrin sono aperte: non importa conoscere i dettagli della storia, siamo noi con le nostre domande a completare l’immagine che vediamo: l’uomo che scava disperatamente tra le macerie di Beirut dopo un bombardamento troverà quello che cerca? Quel soldato con gli occhi terrorizzati tornerà a casa? Il migrante che bacia la terra quando arriva sano e salvo a riva ha capito che quello è solo l’inizio della sua Odissea? C’è vita dopo il dolore della madre palestinese che ha perso suo figlio a Jenin?

Una delle caratteristiche delle foto di Pellegrin è lo stile, o meglio la capacità di non avere sempre uno stile riconoscibile. Le sue foto hanno stile, sono composizioni spesso magnifiche ma il suo è uno stile proteiforme e inafferrabile. Ci sono sezioni della mostra, per esempio quelle più sperimentali legate al tema della sorveglianza, in qui Pellegrin sembra un altro fotografo.

A proposto di stile e di percezione: è un gioco facile e inevitabile riconoscere nella torsione dell’uomo libanese che chiama aiuto scavando tra le macerie un nudo della Zattera della medusa di Géricault o di vedere una madonna di Antonello da Messina nelle donne velate vittime della violenza di Boko Haram. Ma abbiamo appena il tempo di fare queste associazioni e già capiamo che siamo caduti in una trappola. Non è quello il punto: Pellegrin gioca a nascondino con lo stile ed è sempre bene attento a fare in modo che la forma o il bello scatto non prevalgano sull’urgenza e sull’umanità dell’immagine.

In mostra alle Stanze della fotografia ci sono anche tre video di grande impatto emotivo che, grazie all’immagine in movimento e a una notevole colonna sonora, fanno capire ancora meglio quanto sia fluido lo sguardo di Pellegrin e ci danno quasi l’impressione di seguirlo in soggettiva mentre lavora.

La mostra è curata da Denis Curti e Annalisa D’Angelo e resterà aperta fino al 7 gennaio. Il catalogo è pubblicato da Marsilio Arte.

Paolo Pellegrin sarà ospite del festival di Internazionale a Ferrara, dal 29 settembre al 1 ottobre.

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