È sempre sola nelle foto, spesso al centro dell’inquadratura. La distanza da cui è ritratta è scelta con cura, per creare delle simmetrie all’interno di spazi aperti. Se si escludono due o tre scatti fatti al crepuscolo, tutte le foto sono scene notturne: paesaggi abitati da un solo personaggio che, spostandosi nel buio da un posto all’altro, evoca una storia senza esplicitarla.
La fotografa Hann Enong ha intitolato questo suo primo lavoro fotografico In transito, 2019 o, come a volte preferisce chiamarlo, Persa, 2019. Enong infatti si sente così, non sola, ma persa. E muovendosi di luogo in luogo cerca il suo posto in un mondo che sembra non offrirgliene nessuno.
Hann Enong è cambogiana, ha 28 anni, ed è nata a Siem Reap, la città da cui si parte per raggiungere i templi di Angkor. Ed è qui che lavora nel turismo, dopo essersi formata nel campo della finanza. Ma i suoi veri interessi sono la fotografia e la pittura. È una pittrice amatoriale, ma le piace dedicarsi a composizioni astratte, ritratti, autoritratti o scene di vita rurale, nello stile di Svay Ken, il primo pittore cambogiano moderno. La sua tecnica è migliorata anche grazie agli insegnamenti di Mak Remissa, il più importante fotografo cambogiano che, dopo aver studiato all’università reale di belle arti di Phnom Penh, è tornato a lavorare con la pittura e la insegna.

All’inizio Enong aveva un approccio amatoriale anche alla fotografia, e non l’aveva mai considerata seriamente un lavoro fino al 2019, quando ha collaborato con il fotografo Sovan Philong, che è anche uno degli organizzatori del festival di fotografia di Phnom Penh. Philong ha da poco terminato la sua serie In the city by night, in cui illumina con il faro della sua moto persone e luoghi della città. Ma da tempo insegna anche ai giovani, di solito in provincia. Un atto generoso, visto che a parte lo Studio images dell’istituto di cultura francese di Phnom Penh, attualmente chiuso per mancanza di fondi, in Cambogia non ci sono altri luoghi che offrono corsi di fotografia.

Così dall’incontro con Philong è nata questa prima serie di Hann Enong, in cui si sente l’influenza delle sue ricerche sul colore in pittura. Le immagini sono caratterizzate da una tavolozza ricca e intensa, che sfrutta le luci e i contrasti per rivelare delle tonalità più sobrie su cui spiccano zone di maggiore intensità. Come nella visione di un mercato con le bancarelle e gli ombrelloni chiusi dove la figura di Enong vestita di nero con lo sguardo rivolto al cielo rimane immobile in piedi, e la sua ombra si proietta sul suolo bagnato. Oppure, nell’atmosfera tra sogno e incubo di una risaia verde intenso dove risaltano le fiamme di un incendio, in cui le sagome di tre palme accolgono l’artista, sempre vestita di nero e con il volto impassibile, mentre guarda verso la macchina fotografica. O ancora su una strada grigia o vicino a un canale di un azzurro tremolante, inquadrati per mettere in evidenza le linee di fuga.
Bisogno di speranza
Sono scene enigmatiche, ed è qui che risiede la forza della serie di Hann Enong. Ogni foto sembra una dichiarazione, grazie alla forma e alla struttura apparentemente semplici e leggibili, ma non fornisce alcuna chiave di lettura né sull’importanza né sulle circostanze che hanno portato alla scelta di quel luogo.

Il progetto, che a un primo sguardo sembra un racconto incentrato su un personaggio, si rivela alla fine come un lavoro sul paesaggio. Un fatto raro in Cambogia, dove la fotografia è di solito incentrata sull’elemento umano e sui personaggi. Ma l’approccio di Enong al paesaggio è basato soprattutto su una messa in scena dello spazio, non sulla sua descrizione o analisi. La ripetizione dell’inquadratura trasforma così il paesaggio in una scenografia e non nell’oggetto o nel soggetto della fotografia, anche se in fin dei conti è così.

Le diverse espressioni e posizioni di Hann Enong, che si fotografa a volte di schiena o di tre quarti, esprimono la sua volontà di interrogarsi: dove sono? Qual è il mio posto? C’è un posto per me? Questi interrogativi sulla propria identità – che in Cambogia si ritrovano in artisti diversi e che testimoniano quanto sia ancora vivo il trauma causato dalla storia tragica del paese – assumono nelle foto una dimensione estetica più evidente. Una dimensione apparentemente più serena, che a prima vista esalta la ricerca plastica. Hann Enong però dice apertamente di aver sentito la necessità d’interrogarsi sul suo posto nella società: “Volevo esprimere la difficoltà di capire cosa dobbiamo e possiamo fare. Dove possiamo trovarci. Per ognuno di noi la vita è difficile. Così ho cercato a lungo degli spazi dove rappresentare il dolore, le domande, le incertezze, conservando sempre una parte di mistero e ricordando la necessità di continuare a cercare, per mantenere viva la speranza. Vorrei condividere questo sentimento, vorrei che i giovani avessero fiducia, più fiducia”.
Non c’è quindi una “generazione perduta”, ma c’è invece la necessità di trovare, e quindi d’inventare, il proprio posto in questo mondo così grande, dove ciascuno si rende conto di essere solo un piccolissimo personaggio. Ma un personaggio che sarà più forte proprio perché si confronterà con la realtà e si ritroverà in essa.
Ed è quello che Hann Enong sta facendo con la sua seconda serie, a cui stavolta lavora come una professionista: mette in scena degli oggetti per parlare della pandemia di covid-19, che in un primo momento aveva risparmiato la Cambogia, ma che oggi mette in seria difficoltà il paese. ◆ adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1419 di Internazionale, a pagina 66. Compra questo numero | Abbonati