La democrazia non è in pericolo
La Razón, Spagna
In Italia il grande assente nel dibattito politico prima delle elezioni del 25 settembre è stato il presunto ritorno del fascismo, un argomento chiuso per gli abitanti del paese, ma continuamente rilanciato come uno spauracchio dalle sinistre nel resto d’Europa. Gli italiani hanno votato spinti da preoccupazioni reali, che hanno a che fare soprattutto con il fallimento di un modello politico a cavallo tra il realismo magico del nuovo populismo antisistema e le tradizionali proposte socialiste. Un modello responsabile dell’impoverimento di ampie fasce di una popolazione già colpita da decenni di stagnazione dei salari, da tasse troppo alte e dal deterioramento dei servizi pubblici, il tutto nonostante l’enorme indebitamento pubblico. Dal punto di vista economico la società italiana è spaccata tra il nord e il sud, dove più di un milione di persone sopravvive grazie ai sussidi pubblici e al lavoro nero.
La vittoria della coalizione di destra guidata da Giorgia Meloni – che rappresenta tutto ciò che non è sinistra, dal suo slogan “Dio, patria e famiglia” alle denunce contro lo stato inefficiente e incapace di gestire le risorse – mostra che l’Italia fa ormai parte del nuovo corso ideologico che sta prendendo piede in Europa. Una corrente conservatrice senza complessi, in cui crescono partiti come Fratelli d’Italia, fino a poco fa trattati come appestati e tenuti lontani dal potere attraverso cordoni sanitari creati dai vecchi stereotipi della sinistra.
Ma non c’è nessun motivo per allarmarsi. Né Italia né Svezia (dove l’estrema destra ha ottenuto più del 20 per cento dei voti alle recenti elezioni politiche) vanno verso l’apocalisse. L’Unione europea non rischia di spaccarsi e la democrazia non è in pericolo.
Al massimo, e non è poco, si metterà l’accento su altre politiche economiche e sociali che non aspirano a trasformare la società forgiando un nuovo paradigma civico, ma solo a dare sollievo ai settori produttivi e a garantire migliori condizioni di vita alle famiglie. Questo modello parte dalla consapevolezza di non poter continuare a usare le tasse per spremere la popolazione, e in particolare la classe media, in nome di uno stato che riesce a malapena a garantire i servizi essenziali.
Non esistono pulsioni totalitarie negli elettori che chiedono semplicemente un cambiamento e rifiutano forze politiche incapaci di affrontare i problemi delle persone comuni, che nella maggior parte dei casi chiedono salari migliori, posti di lavoro stabili, sicurezza e pulizia nei quartieri in cui vivono, e rispetto delle proprie radici culturali. Un altro aspetto, forse più complesso, riguarda la possibilità che la nuova destra, senza più chiedere il permesso alla sinistra, sia capace di compiere il miracolo di raddrizzare la rotta dell’Italia senza far aumentare troppo le spese sociali e far peggiorare ulteriormente la situazione delle finanze pubbliche. Non sarà facile, perché le soluzioni magiche non esistono. ◆ as
La Razón è un quotidiano spagnolo conservatore, fondato a Madrid nel 1998.
Rinnovare la politica
Grégory Vanden Bruel, Valeurs actuelles, Francia
Agitando la minaccia di sanzioni contro l’Italia due giorni prima delle elezioni, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, certa della sua superiorità morale anche se non occupa una carica elettiva, ha fatto capire bene in cosa consiste il deficit democratico dell’Unione europea: è l’idea che i cosiddetti valori europei avranno la meglio sulle scelte dei popoli.
Tre mesi dopo la vittoria del Rassemblement national alle elezioni legislative francesi, e due settimane dopo il successo dei Democratici svedesi, l’Italia ha inviato un messaggio chiaro al resto del continente: l’isolamento dei partiti patriottici e conservatori, finora ostacolati con stratagemmi fintamente democratici, è finito. O meglio: queste forze stanno cominciando a dominare una partita da cui erano state più o meno escluse.
Nelle democrazie ci sono tre opzioni possibili: la sinistra radicale (che oggi è anche woke e a favore dell’immigrazione), l’autoproclamato “circolo della ragione”, cioè l’establishment, e la destra patriottico-conservatrice. La prima, in realtà, non è mai stata in grado di creare le condizioni per una redistribuzione ugualitaria della ricchezza e ha dato vita a regimi sanguinari, gulag e disastri economici; mentre il secondo, giocando sulla falsa divisione tra socialdemocratici e social-liberali, tutti in fondo globalisti, ha impoverito i paesi europei: l’establishment non è stato capace di proteggere la popolazione dal covid e da violenze di ogni tipo, con alcuni episodi che hanno lasciato il segno (gli stupri di gruppo a Colonia commessi da immigrati, gli incidenti allo Stade de France, gli scontri tra bande criminali).
Di questo trittico rimane solo la destra nazionale (o patriottica) e conservatrice, il cui programma è una sapiente miscela di valori plurisecolari e buon senso economico, lontano dal capitalismo sfrenato e dalla ridistribuzione che distrugge la ricchezza, ma vicino a chi la crea (piccoli imprenditori, contadini, artigiani e così via). Questa destra in Italia è incarnata da Giorgia Meloni, che si dichiara orgogliosamente “donna, italiana e cristiana”, e da Matteo Salvini, perseguito dalla giustizia per aver bloccato un barcone di migranti quando era ministro dell’interno; e in Ungheria da Viktor Orbán. Ma ci sono anche il partito Chega di André Ventura, che in Portogallo ha l’11 per cento delle intenzioni di voto, il Vlaams Belang nelle Fiandre, in testa ai sondaggi, e la formazione di Tomio Okamura nella Repubblica Ceca. L’Europa sta vivendo un grande cambiamento. Il futuro ci dirà se è destinato a durare. L’ottimismo è all’ordine del giorno: in Ungheria e in Polonia i partiti al governo sono usciti dalle urne ancora più forti, a riprova del buon lavoro fatto, ma sono sistematicamente presi di mira dall’Unione europea, che non ha esitato ad attivare il meccanismo di condizionalità, in base al quale i fondi europei sono assegnati solo ai paesi che “rispettano lo stato di diritto”, concetto ovviamente definito da Bruxelles stessa. Con poche eccezioni, i partiti patriottici stanno rinnovando la politica in tutto il continente. I popoli europei fanno fatica a pagare le bollette, vedono i quartieri delle loro città sprofondare nella violenza e i loro paesi in declino. E non si fanno più ingannare dall’ipocrisia di chi li governa. Dopo il voto italiano in Europa potrebbe aprirsi una nuova era politica: in un periodo complicato, c’è di che rallegrarsi. ◆ ff
Valeurs actuelles è un settimanale francese di estrema destra. Nato nel 1966 come periodico liberalconservatore, si è spostato su posizioni più radicali negli ultimi dieci anni.
Un alleato prezioso
László Szőcs, Magyar Nemzet, Ungheria
Globalisti, fatevi da parte: da oggi l’uomo forte del terzo paese più importante dell’Unione europea è una donna esile ma tosta. Giorgia Meloni, che ha guidato la destra italiana a una vittoria elettorale senza precedenti, è una spanna più bassa di Matteo Salvini e quarant’anni più giovane di Silvio Berlusconi. “Sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana!”, ha detto con orgoglio la prima donna che guiderà un governo in Italia, dopo una schiera di uomini, professori e banchieri, quasi sempre più vecchi e con le spalle più curve. Meloni si è presentata come volto nuovo, con un messaggio nuovo, come portavoce di un’Europa delle nazioni che è contro l’immigrazione e a favore della famiglia. La coalizione tra la Lega, Forza Italia e il suo partito, Fratelli d’Italia, è stata votata da dodici milioni di elettori: una batosta per la sinistra.
L’Italia ha dato una lezione all’Unione europea. A Bruxelles, dove al voto delle masse (“populismo” nel lessico dei funzionari europei) si preferiscono gli accordi conclusi nella segretezza di stanze piene di fumo, regna il panico. Alcuni giorni fa la destra italiana è stata costretta a organizzare una manifestazione presso la rappresentanza della Commissione europea a Roma, perché la presidente Ursula von der Leyen si era detta preoccupata per il prevedibile esito delle elezioni italiane. Le aveva poi fatto eco la premier francese Élisabeth Borne, sostenendo che i francesi vigileranno sul rispetto dei diritti umani e del diritto all’aborto in Italia.
Ma chi si credono di essere a Parigi per interferire negli affari di altri paesi? Questo atteggiamento rispecchia una profonda differenza di vedute tra i paesi europei. Un gruppo che si è autoproclamato élite crede di sapere tutto meglio degli altri, non importa chi sia a esprimere un’opinione contraria (di solito proprio i cittadini) e in che occasione (l’ultima è stata il voto italiano). Questi individui erano già preoccupati per il risultato delle elezioni in Svezia, dove la sinistra è stata sconfitta. Ma a Bruxelles oggi sono in subbuglio soprattutto perché il leader ungherese Viktor Orbán e i conservatori polacchi hanno in Giorgia Meloni un’alleata potente, alla guida di un grande paese europeo, fondatore dell’Unione.
Naturalmente, com’è successo nei decenni del cosiddetto socialismo reale, la maggioranza dei cittadini può essere costretta a ballare al ritmo della musica suonata ai piani alti del potere. I soldi dell’Unione europea sono elargiti secondo criteri decisi con ampio margine di discrezionalità dai suoi funzionari. In Ungheria il partito al governo è stato votato da tre milioni di persone? In Italia da dodici milioni? Non importa! I dirigenti di Bruxelles hanno la verità in tasca e sono loro a controllare i rubinetti delle risorse .
L’Italia è vulnerabile anche a causa del suo gigantesco debito pubblico, che la tiene in balia dei mercati finanziari internazionali. Finora il tecnocrate Mario Draghi ha fatto da cuscinetto tra Roma e l’Europa, e con la sua affidabile mano di banchiere ha rassicurato tutti: voi non ci rovesciate e noi non creiamo grandi problemi. Ora, però, a guidare il paese sarà una politica di professione, dotata di carattere e personalità, a capo di un governo nazionalista e contrario all’immigrazione. La destra europea può finalmente contare su un alleato importante. Solo il tempo ci dirà come Bruxelles se la caverà con la lezione di italiano. ◆ ct
Magyar Nemzetè un quotidiano ungherese nazionalista e conservatore. Fondato nel 1938 su posizioni moderate e chiuso nel 2018, è stato rifondato nel 2019 e oggi è molto vicino al governo di Viktor Orbán.
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Questo articolo è uscito sul numero 1480 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati