Dieci anni fa Xi Jinping scomparve. All’epoca era il leader in pectore della Cina, e si preparava a ricevere una sfilza di titoli che verosimilmente lo avrebbero fatto diventare l’uomo più potente del mondo. Senza dare spiegazioni, i suoi assistenti cancellarono gli incontri con i più importanti leader politici stranieri, compresa la segretaria di stato statunitense, che allora era Hillary Clinton. Gli analisti occidentali rimasero sbigottiti.
Gli osservatori esteri sono sensibili a questo tipo assenze. Xi non si è visto neanche dopo il recente vertice dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai a Samarcanda, e anche in questa occasione ha scatenato voci sulla sua salute politica. Voci che il leader cinese ha messo a tacere il 27 settembre, visitando una mostra dedicata ai traguardi raggiunti dal Partito comunista (Pcc) sotto la sua guida. Ma l’episodio del 2012 sembrò diverso. Xi riapparve solo dopo due settimane, e gli esperti si interrogano ancora oggi sui motivi e sul significato di quell’assenza.
A quell’epoca Chris Johnson, un analista specializzato in questioni cinesi, aveva da poco lasciato la Cia. Oggi pensa che sparire di scena fu la risposta di Xi ai dirigenti più anziani del Partito comunista che, pur appoggiando la sua ascesa, erano irritati dalla sua volontà di smarcarsi dalle loro direttive. “Trovate qualcun altro che faccia il lavoro, allora”, Johnson immagina che abbia detto Xi. “Era una buona occasione per dimostrare che non si sarebbe fatto condizionare da persone ormai fuori dai giochi”, sostiene l’ex funzionario. Xi non voleva essere “solo il primus inter pares, ma il primo e basta”.
Se questa teoria è corretta, Xi ha avuto la meglio. Si è dimostrato più forte e spietato di qualunque altro leader dai tempi di Mao Zedong, che morì nel 1976. Ha ordinato epurazioni a tappeto nel partito e nelle forze di sicurezza per eliminare corrotti e nemici politici (inclusi molti alleati dei dirigenti più anziani). Ha trasformato un partito spaccato, che era scomparso dalla vita di molte persone comuni, in una macchina onnipresente, rigenerata dal punto di vista ideologico e sostenuta dalla tecnologia. Ha schiacciato il dissenso: spazzando via buona parte della società civile, costruendo un gulag per i musulmani dello Xinjiang e demolendo le libertà di Hong Kong.
Ha trasformato in fortezze molti banchi di sabbia nel mar Cinese meridionale, minacciato Taiwan con esercitazioni militari vicino alle sue coste e rafforzato la deterrenza nucleare per tenere a bada gli Stati Uniti. Ha rinvigorito la potenza globale della Cina, sfruttando il suo peso economico nella lotta per l’influenza politica contro l’occidente, che accusa di essere caotico e in declino.
Riconferma inedita
Il 16 ottobre il partito comincerà il suo congresso quinquennale. La riunione durerà circa una settimana e porterà a un ampio rimpasto ai vertici. Poi il gruppo rinnovato s’incontrerà per scegliere il segretario del partito e il capo delle forze armate per i prossimi cinque anni: quasi sicuramente riaffiderà i due incarichi a Xi, che nel 2023 sarà confermato anche presidente. È un fatto senza precedenti nella Cina del dopo Mao. La norma era un massimo di due mandati quinquennali. Xi, a quanto sembra, ha deciso di restare al comando per tutto il tempo che vuole.
Gli ultimi dieci anni al potere hanno rivelato molto sul suo modo di pensare. Ma con l’aggravarsi delle tensioni con gli Stati Uniti soprattutto a causa di Taiwan, studiare il suo carattere è diventato ancora più urgente. Xi è un altro Vladimir Putin, disposto a correre rischi enormi pur di assecondare le sue ambizioni territoriali? Quanto gli importa se Cina e occidente dovessero prendere strade diverse? È animato da uno spirito marxista capace di sovvertire l’ordine economico che si è affermato dopo Mao? Permetterà che la politica “zero covid” azzoppi uno dei principali motori di crescita economica mondiale?
L’orizzonte sembra cupo. Nel 2012 alcuni osservatori erano cautamente ottimisti sulla possibilità che Xi si rivelasse almeno in parte un riformatore: non un secondo Michail Gorbačëv, ma almeno un uomo che avrebbe governato con una mano più leggera, cercando di andare d’accordo con Washington e l’occidente. Le speranze sono svanite quando è stato chiaro che Xi era deciso ad accumulare un potere immenso, a esercitarlo senza pietà contro chi criticava lui e il partito e a usarlo per trasformare la Cina in una potenza globale che l’occidente avrebbe osservato con soggezione. I tratti caratteriali che hanno favorito la svolta autoritaria del presidente lo spingeranno a continuare sulla stessa strada. E così faranno le forze che lo circondano: una classe dirigente nazionalista, un Partito timoroso di perdere la sua presa e un’opinione pubblica favorevole all’uomo forte.
Previsioni disattese
Dieci anni fa gli ottimisti erano molti, anche tra i cittadini cinesi che conoscevano le dinamiche del partito. Ma perché hanno completamente sbagliato le loro previsioni su che tipo di leader sarebbe stato Xi? Fondamentalmente per due motivi di fondo. Il primo è che nel 2012 le valutazioni sulla personalità di Xi si basavano in larga misura sui suoi legami familiari. Il presidente è il figlio di Xi Zhongxun, un veterano della rivoluzione che aveva portato il partito al potere nel 1949. Xi senior, che è morto nel 2002, era stato epurato da Mao e riabilitato da Deng. In economia fu un riformatore, e con Deng supervisionò la creazione della prima zona economica speciale della Cina, quella che oggi è la megalopoli di Shenzhen. Quell’esperimento di capitalismo fece rabbrividire i conservatori del partito (alcuni falchi si rifiutarono addirittura di metterci piede). “Tale padre tale figlio” è un’espressione comune nella cultura politica cinese: molti si aspettavano che il figlio di un pioniere del riformismo sarebbe stato dello stesso stampo.
L’altro motivo è la scarsità di informazioni sul suo conto. Prima di emergere come leader in pectore nel 2007, Xi non si era fatto notare. Sua moglie Peng Liyuan era una cantante di ballate popolari patriottiche e di opere liriche molto più famosa di lui (ha dieci album su Spotify). Nel 1989, dopo l’intervento dell’esercito per schiacciare la protesta di Tienanmen, si era esibita in piazza per le truppe.
Xi era un politico poco noto che non aveva detto o fatto niente di speciale. Particolare insolito per un futuro leader, aveva passato diciassette anni in una sola provincia, il Fujian, sulla costa sudorientale, prima di ricevere l’incarico di segretario provinciale del partito nella vicina Zhejiang nel 2002.
Alfred Wu lavorava per la stampa di stato nel Fujian quando ricevette l’incarico di seguire l’attività politica di Xi. Era un lavoro noioso. “Era molto silenzioso e un po’ timido,” dice Wu, che ora lavora all’università nazionale di Singapore. “Nessuno immaginava che sarebbe diventato il capo del paese”.
Nel 2011, un anno prima che Xi salisse al potere, Joe Biden, allora vicepresidente di Barack Obama, andò in Cina per incontrarlo. Nel frattempo, anche Xi era diventato vicepresidente (un chiaro segnale della sua ascesa a erede designato). Biden era accompagnato da Evan Medeiros, direttore del consiglio di sicurezza nazionale per la Cina. “Sapevamo pochissimo” di Xi, ricorda Medeiros. Biden cercò di costruire un rapporto con il futuro leader: giocarono brevemente e goffamente a pallacanestro durante una visita in una scuola. Xi dava l’impressione di essere un “politico molto controllato e molto cauto”, dice Medeiros.
Da allora non è cambiato granché. Dopo essere diventato segretario del partito e presidente del paese, Xi non ha concesso nessuna intervista ai mezzi d’informazione occidentali e non ha tenuto conferenze stampa, fatta eccezione per i brevi incontri con i giornalisti accanto ai leader stranieri durante le visite di stato. I suoi discorsi sono spesso resi noti solo molto tempo dopo essere stati pronunciati (per esempio, uno in cui affrontava il crollo dell’Unione Sovietica e “i rischi e le sfide gigantesche” da superare per mantenere il Partito comunista cinese al potere fino al lontano futuro è stato pubblicato lo scorso 15 settembre, con oltre quattro anni di ritardo). A differenza di Putin, non fa monologhi farneticanti alla televisione di stato; mentre estendeva il potere della Cina in tutto il mondo, Xi è rimasto avvolto nel mistero.
I nemici interni
La visita di Biden in Cina offrì qualche elemento per capire il personaggio. Daniel Russel, che era il capo di Medeiros alla Casa Bianca, ricorda una cena in cui Xi “parlò piuttosto a lungo” dei disordini che quell’anno stavano rovesciando alcuni leader autoritari dei paesi arabi. Xi rifletteva su quali potevano essere le cause: citò la corruzione, le spaccature all’interno dei partiti al potere e lo scollamento dei politici dai cittadini comuni e dai loro bisogni. Gli stessi fenomeni potevano rovesciare il Partito comunista se non avesse risolto quei problemi, ricorda di avergli sentito dire Russel.
L’errore forse più grave commesso all’epoca dagli osservatori fu sottovalutare quanto Xi fosse mosso dalla paura di un collasso del partito, fino a dove si sarebbe spinto per impedirlo e quanto le sue preoccupazioni fossero condivise all’interno del gruppo dirigente. Gran parte del comportamento di Xi come leader, compreso il suo acceso e arrogante nazionalismo, può essere spiegata come una reazione ai timori che espresse a Biden nel 2011.
Aveva ragione a percepire un pericolo. Nei vent’anni precedenti la Cina era cambiata profondamente. Era emersa un’ampia classe media e, con la rapida ascesa dell’impresa privata, la presenza del Partito comunista nella vita delle persone comuni si era affievolita: ormai molti abitanti delle città non avvertivano più la connessione di un tempo. Si erano da poco affermati i social e il numero di possessori di smartphone cresceva. In tutta la Cina le persone usavano questi nuovi mezzi di comunicazione per condividere il loro scontento e spuntavano piccole ong che si battevano per i diritti degli oppressi.
Inoltre, nel partito si stavano formando delle spaccature. Un rivale di Xi, Bo Xilai, stava cercando di rubargli la scena nella regione sudoccidentale di Chongqing, dove era il responsabile del partito. Bo, carismatico e di bell’aspetto, stava conquistando l’appoggio dell’opinione pubblica ostentando la sua lotta alla corruzione e facendo leva su una certa nostalgia per i presunti bei tempi di Mao, quando lo stato forniva alloggi e assistenza sanitaria agli abitanti delle città.
Bo, che faceva parte del politburo (l’organo direttivo del partito), fu arrestato per corruzione e abuso di potere all’inizio del 2012. Mesi dopo, quando prese il potere, Xi lo fece processare. Nel 2013 Bo fu condannato all’ergastolo: le autorità lasciarono intendere che aveva progettato un colpo di stato. Molti altri, fra cui l’ex capo della sicurezza cinese, Zhou Yongkang, e due generali a riposo, furono accusati di essere suoi complici. Alla famiglia di Zhou e ai suoi collaboratori furono sequestrati beni per un valore superiore ai 14 miliardi di dollari.
Molti analisti rimasero sorpresi dalla capacità di Xi di rovesciare persone così potenti. Zhou era il politico di più alto grado condannato per corruzione dal 1949. I due generali erano stati i funzionari in divisa più importanti nella commissione del partito che controlla le forze armate. Il processo a Bo e la persecuzione di questi uomini nei primi tre anni di potere di Xi fu un dramma politico paragonabile all’arresto nel 1976, subito dopo la morte di Mao, della Banda dei quattro, gli estremisti che avevano orchestrato la feroce rivoluzione culturale di Mao.
L’epurazione fu resa possibile da due elementi cruciali del potere e della personalità di Xi. Il primo è l’appoggio di cui godeva all’interno dell’élite. L’occidente vedeva un paese che aveva saputo resistere alla tempesta della crisi finanziaria del 2007 e stava crescendo rapidamente. Ma in Cina le persone che conoscevano il partito erano meno ottimiste. In privato criticavano lo scialbo predecessore di Xi, Hu Jintao, accusandolo di aver lasciato andare il paese alla deriva e di aver allentato la disciplina di partito. Perché il partito potesse sopravvivere, credevano, era essenziale infondergli una nuova determinazione e rafforzare il controllo. I discorsi di Xi sul “sogno cinese” del “rinascimento” della nazione toccarono il cuore di molti.
L’altro elemento favorevole di cui godeva Xi era il suo albero genealogico. In Cina lo chiamano (bisbigliando) taizi, principe. Il termine di regola si applica ai discendenti dei leader, soprattutto ai figli dei fondatori della Cina comunista. Chi fa parte di questo gruppo può contare su un vantaggio politico. Tra i circa seicento giovani funzionari indicati come promettenti all’inizio degli anni ottanta dall’ufficio giovani quadri, il cinque per cento era taizi. Nel comitato permanente del politburo, di cui Xi prese il comando nel 2012, i principi erano la maggioranza.
Come scriveva il filosofo fiorentino Niccolò Machiavelli circa cinquecento anni fa, gli stati ereditari si mantengono con molta meno difficoltà dei nuovi stati; al principe basta soltanto non discostarsi dall’ordine stabilito dai suoi antenati.
Xi potrebbe non essere d’accordo, perché il ragionamento fa sembrare la cosa troppo facile (lo stesso Machiavelli forse avrebbe scritto diversamente a proposito di un colosso come la Cina). Ma il presidente cinese ritiene che preservare la tradizionale retorica ideologica del partito, per quanto non più in sintonia con molti aspetti dell’odierno capitalismo di stato, sia essenziale per tenere compatti i suoi 97 milioni di iscritti e restare al potere.
Nel 2009 l’ambasciata statunitense a Pechino mandò un messaggio riservato a Washington (poi pubblicato da Wikileaks) con una valutazione fatta da un accademico cinese anonimo, ritenuto affidabile, che aveva conosciuto Xi agli inizi della sua carriera. “Il nostro contatto è convinto che Xi ritiene il suo potere un’acquisizione di diritto, perché vede la sua generazione come ‘la legittima’ erede dei successi rivoluzionari dei genitori, e quindi ‘merita di dirigere la Cina’”, diceva il documento. Xi non era mosso dall’ideologia, sosteneva lo studioso, ma aveva scelto di sopravvivere “diventando più rosso del rosso”. Ammantandosi di comunismo, l’élite del partito lo avrebbe considerato una scelta affidabile.
Se si pensa a come Xi ha costruito la sua immagine, il giudizio del contatto si è dimostrato più corretto di quello dei liberali ottimisti. Negli ultimi mesi i funzionari cinesi sono stati costretti a guardare un ennesimo film sul crollo dell’Unione Sovietica del 1991. Il documentario sottolinea una grande lezione: i giganti del passato comunista non devono essere criticati. Attaccare Stalin, come fece il leader sovietico Nikita Cruščëv nel 1956, aveva gettato i semi della rovina.
La bussola è il partito
Xi non è maoista. Vuole mettere in riga gli imprenditori privati, non eliminarli: il loro contributo è troppo prezioso per poterne fare a meno. A differenza di Mao, che era pronto a mandare in frantumi le strutture del partito per inseguire obiettivi utopici, Xi vuole rafforzare il quadro politico ed economico del paese mantenendo fermamente al comando il partito. Per Xi, il partito come istituzione conta più di quanto contava per Mao. Durante la rivoluzione culturale, Mao cercò di allontanare chi lo criticava scatenando le guardie rosse, bande di radicali che si formavano spontaneamente ed erano indipendenti dal partito. In molti luoghi le guardie rosse presero il potere attaccando funzionari e organismi del Pcc perché reazionari o non abbastanza maoisti. Anche la famiglia di Xi venne colpita. Suo padre fu torturato, la sorellastra si uccise per evitare lo stesso trattamento.
Quest’esperienza potrebbe aver cementato la fede di Xi in un partito forte. Era indispensabile rinvigorirlo per impedire che quel caos si ripetesse. Lasciare le redini alle masse era pericoloso. “Quello che vedo non sono solo le cose superficiali: il potere, i fiori, la gloria, gli applausi”, disse Xi nel 2000. “Vedo le stalle delle vacche, cioè le case di detenzione delle guardie rosse, e come la gente può tentennare”.
Pochi osano essere indecisi su Xi. Chi lo ha fatto è finito in carcere o è comunque stato punito. Xi ha usato il partito come un’arma, infilando i suoi comitati nelle ditte private e rilanciandoli nei quartieri. Le sue cellule hanno guidato la mobilitazione di massa per imporre i lockdown legati al covid, individuare le persone infettate e metterle in quarantena vigilata, condurre un’infinità di test e ispezioni porta a porta. Nello Xinjiang i dirigenti locali hanno avuto l’ultima parola su chi doveva essere mandato nei campi di detenzione per la “deradicalizzazione”. Xi ha creato nuovi organi che spesso dirige personalmente per vigilare sul lavoro dei ministeri. Come dice lui: “Est, ovest, sud, nord e centro. Il Partito guida tutto.”
E altrettanto fa Xi. È a capo dei principali ministeri, compreso quello per la politica economica, che i precedenti segretari generali avevano messo nelle mani del primo ministro. Dopo il congresso del 16 ottobre, quando sarà rivelata la formazione del nuovo gruppo dirigente, si parlerà molto del terzo mandato di Xi come segretario, un fatto senza precedenti. L’incarico gli verrà quasi sicuramente affidato.
È probabile che Xi, 69 anni, rimarrà al comando, formalmente o informalmente, finché sarà in condizione di farlo, anche se decidesse di cedere la carica di segretario a qualcun altro. Potrebbe forse essere rovesciato, ma sarebbe difficile nello stato di sorveglianza ad alta tecnologia che ha creato. Negli anni che gli restano, in Cina o all’estero probabilmente cambierà ben poco, e comunque non abbastanza da convincerlo a non governare con il pugno di ferro e a non sfidare gli Stati Uniti.
Xi è ossessionato dalla sorte dell’Unione Sovietica e vede ancora nemici in patria. Malgrado quello che sembra un forte sostegno dell’opinione pubblica alla sua linea, ha motivo di preoccuparsi. Da un paio di anni a questa parte fa guerra a una fazione interna della polizia. Le autorità dicono che si tratta di una “grave minaccia alla sicurezza”. Di recente il presunto capobanda di questa fazione, Sun Lijun, che è stato viceministro per la sicurezza pubblica, ha ricevuto una condanna a morte poi sospesa, che potrebbe essere commutata all’ergastolo senza la condizionale. Molti altri hanno ricevuto dure condanne.
Un nuovo timoniere
Con il rallentare dell’economia, il sostegno pubblico può diminuire. Xi sarà ancora più incline a reprimere il dissenso e diventerà ancora più sospettoso nei confronti degli imprenditori privati con aziende gigantesche, che potrebbero sfidare le sue politiche. Si è identificato personalmente con la politica “zero covid” del paese e, anche se rappresenta un grave ostacolo per l’economia e i brontolii dei cittadini colpiti da lockdown drastici diventano sempre più rumorosi, è improbabile che la abbandoni prima di essere sicuro che l’allentamento delle misure non provochi un sensibile aumento della mortalità. In quanto nazionalista è improbabile che acceleri l’uso di vaccini stranieri, che consentirebbero alla Cina di uscire più rapidamente dalla pandemia.
All’estero Xi resterà altrettanto determinato a erodere il potere degli Stati Uniti nei paesi vicini alla Cina e in quelli più lontani. Vede una crescente minaccia in Washington, che cerca di rafforzare i legami con gli stati democratici per contrastare l’influenza cinese e per impedire a Pechino l’accesso alle tecnologie d’avanguardia. Non è noto cosa Xi pensi veramente della guerra in Ucraina, ma continuerà ad appoggiare la Russia sul piano diplomatico, considerandola un bastione fondamentale dell’autoritarismo.
Taiwan dovrebbe continuare a destare preoccupazioni. Xi non ha dato segnali di essere pronto a correre rischi avventati come Putin. Soprattutto, viste le ripetute allusioni di Biden alla volontà statunitense di difendere Taipei militarmente, il presidente cinese non può essere certo di una rapida vittoria se decidesse di conquistarla (una sfida per certi versi maggiore che assoggettare l’Ucraina, tenendo presente il terreno impervio dell’isola e la sua distanza dalla terraferma). Ma prendere Taiwan resta un obiettivo dichiarato del partito e Xi sta rapidamente costruendo gli strumenti materiali per farlo.
Gli ottimisti sperano in un cambiamento per il meglio quando Xi uscirà finalmente dall’arena politica. Potrebbero aver ragione: di tanto in tanto nella Cina comunista sono apparsi leader più liberali, anche se non sono mai saliti al vertice del potere. Ma l’élite politica più ampia che ha favorito l’ascesa di Xi, compresi i dirigenti in pensione, i generali e i principi, potrebbe preferire che la Cina conservi la stessa linea politica anche quando lui se ne sarà andato.
Come dice Xi, la Cina sta vivendo “trasformazioni mai viste in cent’anni”, in patria e a livello globale. Tra tante incertezze, a buona parte della classe dirigente probabilmente piacerebbe vedere una mano ferma sulla barra – un altro timoniere, i funzionari ossequiosi cominciano a chiamare Xi – ripensando alla decisione di Deng di mandare l’esercito a piazza Tiananmen. Malgrado la sua personalità dominante e il suo modo di cambiare le regole, nella politica cinese Xi rappresenta la continuità almeno quanto il cambiamento. Anche immaginando una Cina senza di lui, è difficile essere fiduciosi. ◆gc
◆ Il Partito comunista cinese ha compiuto 101 anni ed è al potere senza interruzioni dal 1949, quando Mao Zedong fondò la Repubblica popolare cinese. Oggi conta quasi 97 milioni di iscritti e il suo congresso, che si tiene a Pechino ogni cinque anni, è l’evento politico più importante del paese. Dura circa una settimana e si svolge a porte chiuse. Duemilatrecento delegati sono chiamati a scegliere, o meglio a ratificare, chi sarà il segretario generale e le persone che comporranno il comitato permanente dell’ufficio politico (attualmente a sette seggi), l’ufficio politico (25 seggi) e il comitato centrale (circa 370). Quello che comincia il 16 ottobre è il ventesimo congresso: si calcola che almeno due terzi dei funzionari che attualmente sono in questi comitati saranno sostituiti e che Xi Jinping, 69 anni, manterrà l’incarico di segretario del partito. Sicuramente gli emendamenti della costituzione che nel 2018 hanno cancellato il vincolo dei due mandati gli permetteranno di essere riconfermato presidente della Repubblica popolare nel 2023. The Diplomat, Foreign Policy
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Questo articolo è uscito sul numero 1482 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati