Una mattina di agosto del 1945 un piccolo sole comparve per qualche secondo sopra la città giapponese di Hiroshima, a seicento metri dal suolo. In pochi ricordano un suono, ma il lampo incenerì le persone nell’area dell’esplosione, lasciando delle ombre per terra, e rase al suolo i palazzi. La detonazione – duemila volte più forte di quella della bomba più potente usata fino a quel momento – annunciava non solo l’introduzione di una nuova arma ma anche l’inizio di una nuova era. Era una grande vittoria militare per gli Stati Uniti. Ma l’esultanza, osservò il giornalista americano Edward R. Murrow, fu frenata “dall’incertezza e dalla paura”. Bastava riflettere un attimo sull’esistenza di quella bomba per capirne le conseguenze mostruose: quello che era successo a Hiroshima, e tre giorni dopo a Nagasaki, poteva succedere ovunque.
Era un pensiero difficile da allontanare, soprattutto quando nei mesi seguenti al bombardamento atomico cominciarono a diffondersi i racconti delle conseguenze: corpi che si coprivano di bolle, danni irreversibili agli occhi, una malattia orribile che colpiva perfino chi aveva evitato l’esplosione. “Tutti gli scienziati hanno paura per la loro vita”, disse nel 1946 un chimico che aveva vinto il Nobel. Gli scienziati speravano che quelle armi sarebbero state messe al bando, ma nei decenni successivi proliferarono. Ordigni sempre più potenti furono testati in varie zone del mondo.
Oggi è difficile capire la paura – costante, pervasiva – che affliggeva le persone durante la guerra fredda. A essere terrorizzati non erano solo gli impotenti abitanti delle città. Anche i leader politici erano sconvolti.
Era “folle”, sosteneva il presidente statunitense John Kennedy, che “due uomini seduti ai lati opposti del mondo fossero in grado di decidere di mettere fine alla civiltà”. Eppure tutti convissero consapevolmente con quella follia per decenni. Sembrava che “la bomba”, scrisse lo storico Paul Boyer, fosse “una di quelle categorie dell’essere, come lo spazio e il tempo, che secondo Kant sono iscritte nella struttura stessa della nostra mente, dando sostanza e significato a tutte le nostre percezioni”.
Boyer ricordava la notizia sconvolgente del bombardamento di Hiroshima, che avvenne nella settimana del suo decimo compleanno e influenzò tutto il resto della sua infanzia. Oggi una persona che ricordi bene quell’evento dovrebbe avere almeno 86 anni. La memoria della guerra nucleare, un tempo vivida, sta lentamente svanendo.
Gran parte della popolazione mondiale non ricorda nemmeno un test nucleare di superficie (l’ultimo risale al 1980). Fino a qualche mese fa la maggior parte di noi pensava solo raramente alla guerra nucleare. Eravamo tentati di considerarla una sorta di flagello del passato, come la poliomielite.
Ma ora il presidente russo Vladimir Putin ricorda al mondo che quella minaccia non è scomparsa. La Russia ha il più grande arsenale nucleare al mondo, e Putin ha minacciato di “usarlo, se necessario”. Le probabilità che lo faccia continuano ad aumentare man mano che i paesi della Nato vanno verso uno scontro diretto con Mosca.
Un governo mondiale
Le norme sull’uso di armi nucleari si stanno indebolendo dovunque. Nove paesi hanno in totale circa diecimila testate nucleari, e sei di loro stanno ampliando gli arsenali. Leader in carica (come il nordcoreano Kim Jong-un e l’indiano Narendra Modi) ed ex presidenti (tra cui Donald Trump) hanno parlato senza pudore della possibilità di usare armi atomiche. Nel 2017, quando la Corea del Nord disse di volersi vendicare per le sanzioni contro il suo programma nucleare, Trump minacciò un attacco preventivo, promettendo di scatenare “fuoco e furia come il mondo non ha mai visto”.
I leader politici hanno usato toni duri anche in passato, ma i discorsi di oggi sembrano meno legati alla realtà. Viviamo nel primo decennio in cui nemmeno un capo di stato ricorda la bomba di Hiroshima. Abbiamo visto in altri contesti cosa succede quando diminuisce la nostra esperienza legata a un rischio. Nei paesi ricchi il ricordo di malattie che si possono prevenire si è affievolito, e questo ha alimentato il recente movimento contro i vaccini.
Corriamo lo stesso pericolo con la guerra nucleare. Leggendo vecchi documenti governativi che sono stati declassificati di recente, gli storici hanno capito quanto l’umanità sia stata più volte vicina a una guerra con armi atomiche. In quei momenti terribili, una comprensione profonda di cosa significasse combattere una guerra nucleare contribuì a impedire che fosse dato l’ordine di attaccare. Oggi questa consapevolezza manca. Stiamo entrando in un’epoca in cui esistono le armi atomiche ma non c’è la memoria del loro uso. Senza accorgercene, potremmo aver perso le barriere che servono a scongiurare la catastrofe.
L’era atomica è cominciata alle 8.15 del 6 agosto 1945, quando un B-29 statunitense sganciò una bomba da 4,4 tonnellate su Hiroshima, in Giappone. Quarantatré secondi dopo, un’enorme esplosione rase al suolo la città.
Il fatto che tanta distruzione potesse essere provocata in così poco tempo era noto solo a una ristretta cerchia di scienziati e militari. “Si sentono tremare le fondamenta dell’universo”, scrisse un giornale di New York.
Cosa significava quella bomba? Gli scienziati, che avevano avuto tempo di riflettere sulla questione, si precipitarono a dare spiegazioni.
L’importante non era che la bomba atomica potesse incenerire le città, visto che potevano farlo anche le armi convenzionali. La differenza era che rendeva la distruzione particolarmente facile, osservò Robert Oppenheimer, che aveva contribuito a sviluppare l’ordigno. Quelle armi “trasformavano profondamente il precario equilibrio” tra attacco e difesa che fino a quel momento aveva governato la guerra, aggiunse Oppenheimer. Un solo aeroplano, una sola carica esplosiva, e nessuna città era più al sicuro.
Per gli scienziati le implicazioni erano terrificanti. Nel 1939 Albert Einstein aveva suggerito al governo statunitense di sviluppare le armi atomiche, in modo che Adolf Hitler non fosse il primo ad averle. Ma subito dopo l’inizio della seconda guerra mondiale era preoccupato all’idea che qualsiasi paese potesse esserne in possesso.
Come altri scienziati, arrivò alla conclusione che bisognasse creare un governo internazionale, sovrano rispetto a quello dei singoli paesi, che avrebbe controllato l’arsenale nucleare mondiale, applicato la legge e impedito le guerre.
Testimoni giapponesi
Nell’estate del 1946 si levarono altre voci contro gli armamenti nucleari. In Giappone le autorità statunitensi di occupazione avevano censurato i dettagli sulle conseguenze della bomba atomica. Ma il giornalista americano John Hersey pubblicò sul New Yorker il crudo resoconto del bombardamento, uno dei più importanti articoli mai scritti.
Figlio di missionari protestanti in Cina, Hersey provava un’insolita empatia nei confronti degli asiatici. Nell’articolo raccontava la storia di sei sopravvissuti. Per la prima volta molti lettori si resero conto che Hiroshima non era una “base dell’esercito giapponese”, come l’aveva definita il presidente Harry Truman, ma una città abitata da civili che avevano visto morire i loro cari. Molte di quelle persone non erano morte senza sofferenze, dissolti nello sbuffo di una nuvola a forma di fungo. Hersey raccontava di un pastore metodista, Kiyoshi Tanimoto, che si era precipitato ad aiutare i suoi vicini sofferenti ma ancora vivi e coscienti. Mentre afferrava una donna, “enormi pezzi di pelle scivolarono via come un guanto”. Tanimoto “si sentì così nauseato che dovette sedersi per un minuto”, scriveva Hersey. “Doveva continuare a ripetersi: ‘Questi sono esseri umani’”.
I lettori capirono l’importanza dell’articolo di Hersey. La rivista andò esaurita e la casa editrice Knopf ristampò il reportage in un libro che vendette milioni di copie. Il testo fu tradotto sui giornali di vari paesi, tra cui Francia, Cina, Paesi Bassi e Bolivia. “Nessun’altra pubblicazione negli Stati Uniti del novecento ha avuto una diffusione così grande”, ha scritto la storica del giornalismo Kathy Roberts Forde. Tanimoto, diventato famoso grazie al reportage di Hersey, girò gli Stati Uniti per tenere conferenze. Come Einstein, chiedeva un governo mondiale.
Oggi sembra un’utopia folle. Eppure un incredibile numero di persone responsabili e misurate pensava che fosse l’unico modo per scongiurare una nuova Hiroshima. Winston Churchill e Clement Attlee, entrambi primi ministri del Regno Unito, sostenevano questa proposta. In Francia erano d’accordo gli intellettuali Jean-Paul Sartre e Albert Camus. La costituzione francese del dopoguerra prevedeva “limitazioni di sovranità” che un futuro governo mondiale avrebbe potuto richiedere. E anche la costituzione italiana.
Perfino negli Stati Uniti, che stavano per perdere il monopolio nucleare e la loro supremazia globale, una quota compresa tra un terzo e la metà della popolazione era favorevole a un governo mondiale. Durante la campagna elettorale del 1948 fu chiesto ai candidati al congresso se fossero favorevoli a un governo mondiale, con giurisdizione diretta sui cittadini dei vari paesi e dotato di forze per il mantenimento della pace: il 57 per cento rispose di sì, compresi John Kennedy e Richard Nixon.
Ma questo sostegno contava poco davanti alla geopolitica, e le crescenti tensioni tra Washington e Mosca cancellarono la possibilità di un governo mondiale. Ma non cambiarono il fatto che i più influenti pensatori occidentali consideravano le armi nucleari così pericolose da imporre, per usare le parole di Churchill, un rimodellamento “dei rapporti di tutti gli uomini di tutte le nazioni”, affinché “organismi internazionali dotati dell’autorità suprema possano garantire pace sulla terra e giustizia tra gli uomini”.
Alla fine il governo mondiale non è arrivato, e nemmeno la guerra nucleare. Uno dei fatti più importanti e sorprendenti della storia moderna è passato sotto silenzio: nei 77 anni trascorsi da Hiroshima e Nagasaki, neanche una singola bomba atomica è stata fatta detonare per attaccare un altro paese.
Con le altre armi le cose sono andate diversamente. I gas tossici sono tra le poche tecnologie militari a essere state bandite, nonostante la loro efficacia: nella prima guerra mondiale furono molto usati, nella seconda quasi mai. Ma perfino le armi chimiche sono state usate qualche volta, per esempio negli anni ottanta in Iraq e nel 2013 in Siria. Al contrario, il numero di armi nucleari usate dopo il 1945 è pari a zero.
La spiegazione convenzionale consiste nella teoria della deterrenza. La principale paura di Oppenheimer – il fatto che le armi nucleari rendessero facile l’attacco e quasi impossibile la difesa – implicava che se un paese avesse colpito con ordigni atomici un altro dotato delle stesse armi, sarebbe stato attaccato a sua volta.
Eisenhower si rifiutò di ascoltare chi chiedeva un attacco preventivo
“Visto che l’esito è facile da immaginare, i capi di stato si rifiuteranno di colpire per primi”, sosteneva il politologo Kenneth Waltz. Questa logica lo spinse a dire che la proliferazione nucleare poteva essere positiva. Il punto non è solo che le armi atomiche sono un deterrente contro se stesse, ma che lo sono contro le grandi guerre in generale, perché il rischio diventa eccessivo. Maggiore è il numero di potenze nucleari, minore è la probabilità di assistere a una violenza paragonabile a quella delle due guerre mondiali. In effetti dopo il 1945 i conflitti sono diventati più circoscritti. E nonostante qualche schermaglia di frontiera tra stati nucleari – Cina e Urss nel 1969, India e Pakistan più recentemente – non ci sono state vere e proprie guerre.
La bomba “ha dato la pace all’Europa”, sosteneva il fisico nucleare Abdul Qadeer Khan. Khan guidò il programma nucleare pachistano a partire dagli anni settanta e poi trasmise le tecnologie atomiche a Iran, Corea del Nord e Libia negli anni ottanta e novanta. È stato molto criticato per il suo ruolo nella proliferazione nucleare, ma Khan pensava che lo sviluppo di quelle armi avesse salvato il Pakistan “da molte guerre”. Secondo questa macabra concezione, dovremmo rallegrarci che quasi metà del genere umano viva in paesi dotati di armi atomiche, e criticare la decisione dell’Ucraina di smantellare o cedere le proprie testate, negli anni novanta.
Il mostro si risveglia
Ma l’elemento centrale della teoria di Waltz era che “gli esiti catastrofici” di una guerra nucleare erano “facili da immaginare”. Waltz, che aveva lavorato in Giappone subito dopo la seconda guerra mondiale, non doveva fare uno sforzo d’immaginazione. Altri invece andavano aiutati. Per questo l’articolo di John Hersey su Hiroshima e le conferenze di Kiyoshi Tanimoto furono importanti: trasformarono la guerra nucleare da astrazione a realtà.
Era una realtà con cui molti convivevano quotidianamente. Oggi sembrerebbe bizzarro dire a degli studenti di ripararsi sotto il banco durante un attacco con una bomba all’idrogeno. Ma al di là dei traumi che provocarono, questo tipo di esercitazioni crearono una consapevolezza condivisa sul nucleare. Per le persone era normale immaginarsi nella condizione dei sopravvissuti di Hiroshima, anche per via dei tanti film che raccontavano i potenziali effetti di una guerra nucleare.
Negli anni ottanta lo psichiatra Robert Lifton valutò “il costo psichico” del terrore nucleare. Secondo lui Hiroshima e Nagasaki non erano solo eventi storici ma anche psicologici, e questo comportava conseguenze a catena. Vivere con la minaccia dell’annientamento metteva in questione “tutti i rapporti umani”. Come potevano i bambini avere fiducia nella capacità dei genitori di tenerli al sicuro, o le chiese dare conforto spirituale? Secondo Lifton, “l’assoluta mancanza di futuro” aveva contribuito all’aumento dei divorzi, al fondamentalismo e all’estremismo.
Si poteva pensare che i rifugi antiatomici fossero ridicoli e che i film esagerassero. Ma c’erano anche i test atomici, grandi eruzioni di radioattività che prefiguravano i pericoli delle armi nucleari. Nel 1980 le potenze nucleari avevano già condotto 528 test nell’atmosfera, sollevando nuvole a forma di fungo dovunque, dalla Christmas island nel Pacifico al deserto del Gobi, tra Cina e Mongolia. Uno studio condotto analizzando 61mila denti da latte raccolti a St. Louis, negli Stati Uniti, mostrava che i bambini nati dopo i test delle prime bombe all’idrogeno avevano livelli più alti di stronzio-90, un elemento cancerogeno rilasciato durante i test, anche se erano a circa 1.500 chilometri di distanza dal più vicino sito atomico.
Com’era prevedibile, nacque una campagna contro i test nucleari. Nel 1954 agli Stati Uniti ne sfuggì di mano uno sull’atollo di Bikini, nel Pacifico. Le radiazioni raggiunsero l’atollo abitato di Rongelap e un peschereccio giapponese. Quando l’equipaggio dell’imbarcazione tornò in Giappone in cattive condizioni di salute, scoppiò un pandemonio. Alcune petizioni, che definivano il Giappone “tre volte vittima delle bombe nucleari” e chiedevano di vietare le armi atomiche, raccolsero decine di milioni di firme. Ishirō Honda, un regista che aveva visto di persona i danni di Hiroshima, girò un film di enorme successo su un mostro, Gojira, risvegliato dai test atomici. Emettendo “alti livelli di radiazione dovuti alla bomba H”, Gojira attacca un peschereccio e sputa fuoco su una città giapponese.
Gojira – conosciuto come Godzilla nel mondo occidentale – non fu il solo a risvegliarsi dopo le bombe sull’atollo di Bikini del 1954. Il test fece tornare alla ribalta Hiroshima e i suoi superstiti. E con il dilagare del movimento antinucleare, la bomba sganciata nel 1945 divenne non tanto un tragico momento della storia giapponese quanto un evento quasi sacro di quella mondiale, commemorato da persone di diverse nazionalità. Tanimoto promosse “la giornata di Hiroshima”, e nei primi anni sessanta in quella data si svolsero proteste e celebrazioni in tutto il mondo. Nel 1963 nella sola Danimarca ci furono manifestazioni in 45 città.
Nella memoria pubblica Hiroshima ormai occupava uno spazio paragonabile a quello di Auschwitz, l’altro simbolo dell’indicibile. La somiglianza era profonda. Entrambi i nomi descrivevano eventi precisi nel contesto della più generale violenza della seconda guerra mondiale e li caratterizzavano in modo diverso dal punto di vista morale. Sia Hiroshima sia Auschwitz erano stati luoghi di un “olocausto” (all’inizio gli scrittori usavano questo termine più per descrivere la guerra atomica che il genocidio europeo). Ed entrambi facevano emergere una nuova figura: il “sopravvissuto”, un individuo santificato che era stato testimone di un orrore unico nella storia.
Tanimoto fece per la visibilità dei sopravvissuti giapponesi quello che Elie Wiesel fece per quelli ai campi di sterminio. Nelle loro mani, Hiroshima e Auschwitz lanciavano lo stesso messaggio: mai dimenticare, non deve più succedere. Ma l’analogia era imperfetta. L’olocausto europeo fu prodotto da molte persone. Le uccisioni di massa, ordinate dall’alto, dovevano essere eseguite da tanti e volenterosi carnefici che strappavano le vittime dalle loro case, le stipavano nei treni, le tenevano nei lager, le fucilavano, le uccidevano nelle camere a gas e ne eliminavano i corpi. Al contrario, l’apparato nucleare poteva essere messo in moto da una manciata di esseri umani nel giro di pochi minuti.
Come il mondo capì presto, questo significava anche che un’altra Hiroshima poteva capitare per errore. Lo sterminio degli ebrei d’Europa non era stato accidentale. Nelle situazioni di stallo nucleare un incidente aereo, un guasto del sistema o una minaccia mal calibrata potrebbero scatenare l’annientamento.
Fino all’orlo
Le crisi nucleari sono di per sè pericolose. Bisogna andare contro l’avversario e spaventarlo in modo che sia lui a cambiare strada per primo. “Riempite il bicchiere nucleare fino all’orlo”, consigliava ai colleghi il leader sovietico Nikita Chruščëv, “ma state attenti a non versare l’ultima goccia”. La politica del rischio calcolato impone ai leader di reprimere i dubbi, possibilmente per convincersi che sono disposti a vedere l’acqua uscire dal bicchiere. Alcuni forse sono davvero convinti. “L’idea di fondo è uccidere i bastardi”, disse il generale statunitense Thomas Power nel 1960, quando gli presentarono un piano per un attacco nucleare elaborato per minimizzare la perdita di vite umane. “Se alla fine della guerra ci sono due statunitensi e un russo, vuol dire che abbiamo vinto”. Power guidava il comando aereo strategico degli Stati Uniti – responsabile delle armi nucleari – durante la crisi dei missili di Cuba. I generali come lui, quelli incaricati di vincere le guerre, facevano spesso pressioni per un attacco preventivo. Fortunatamente non furono ascoltati. In parte per via della deterrenza nucleare, ma anche grazie alla memoria. Nei momenti cruciali, chi prendeva le decisioni immaginava cosa sarebbe successo se avesse usato quelle armi.
Perfino Truman, che inizialmente aveva considerato il bombardamento di Hiroshima “il più grande evento della storia”, con il tempo diventò più moderato. Durante la guerra di Corea, quando le forze delle Nazioni Unite si trovarono in una situazione di stallo, il comandante Douglas MacArthur richiese la “capacità atomica”, spiegando in seguito che avrebbe voluto sganciare “tra le trenta e le cinquanta bombe”. Anche se ordinò che le armi nucleari fossero pronte, Truman licenziò MacArthur e si rifiutò di usarle.
Ripensando a quel periodo, Truman si lamentò del fatto che i suoi generali non riuscivano a capire che un attacco con armi nucleari avrebbe significato la distruzione di città abitate da milioni di “donne, bambini e civili innocenti”. Il successore di Truman, Dwight Eisenhower, la pensava allo stesso modo. Rafforzò l’arsenale nucleare statunitense, ma si rifiutò di ascoltare i consiglieri che chiedevano un attacco preventivo contro l’Unione Sovietica. Aveva visto la guerra e non faceva fatica a immaginare un conflitto nucleare.
Il ricordo degli orrori della guerra fu essenziale durante la crisi di Cuba del 1962. Il dispiegamento di missili nucleari statunitensi in Turchia, seguito dal posizionamento di quelli sovietici a Cuba, portò le due potenze molto vicine alla guerra. Ma dopo una serie di minacce Chruščëv cambiò tono: “Ho partecipato a due conflitti e so che la guerra finisce quando ha travolto città e villaggi, seminando ovunque morte e distruzione”, scrisse. Aggiunse che Kennedy, anche lui con un passato nell’esercito, avrebbe “capito perfettamente quali forze terribili” potevano essere scatenate. Kennedy capì e prese le distanze da quello che chiamava “il fallimento definitivo”. Eppure, proprio mentre il leader statunitense e quello sovietico disinnescavano la crisi dei missili di Cuba, in mare si veniva a creare una situazione “molto più pericolosa”, come disse lo storico Martin Sherwin. Il modo in cui la catastrofe fu evitata ci fa capire quanto la conoscenza e l’esperienza diretta siano importanti. Il problema riguardava un sottomarino sovietico diretto a Cuba che trasportava una testata nucleare con la stessa potenza della bomba di Hiroshima. Il sommergibile, da giorni senza contatti radio, non era al corrente degli scambi diplomatici tra Kennedy e Chruščëv. E così, quando si trovò sotto una nave da guerra statunitense, il capitano del sottomarino si rifiutò di salire in superficie in risposta alle richieste e rimase sott’acqua mentre i marinai statunitensi continuavano a lanciare segnali sempre più aggressivi. Un comandante tentò la tattica non autorizzata e imprudente di lanciare granate contro il sommergibile.
Le esplosioni furono spaventose. Il capitano sovietico pensò, comprensibilmente, che la guerra fosse cominciata. Ordinò di preparare il siluro. In un momento così delicato, l’attacco russo avrebbe quasi sicuramente scatenato una ritorsione nucleare. “Non fu solo il momento più pericoloso della guerra fredda”, pensava Arthur Schlesinger Jr., storico e assistente di Kennedy: “Fu il momento più pericoloso della storia umana”.
La tragedia fu scongiurata dall’ufficiale sovietico Vasilij Archipov, che per caso era stato assegnato su quel sommergibile. Quindici mesi prima aveva prestato servizio a bordo di un sottomarino a propulsione nucleare, ma il sistema di raffreddamento del reattore aveva avuto un guasto, esponendo l’equipaggio alle radiazioni e uccidendo ventidue dei suoi 138 compagni. Di fronte alla probabilità di una guerra, Archipov riuscì a calmare il capitano furibondo e a fargli cambiare idea. Fu una fortuna straordinaria: il sottomarino che stava per dare inizio a una guerra atomica aveva casualmente a bordo una delle poche persone viventi con un’esperienza recente di disastro nucleare. La capacità di ricordare e di immaginare le conseguenze di una guerra atomica era stata, ancora una volta, essenziale per scongiurarla. Nel 1985 John Hersey tornò a Hiroshima per il 40° anniversario del bombardamento. In quell’occasione si accorse che il ricordo stava svanendo. L’età media dei sopravvissuti era di 62 anni. Due delle sei persone che il giornalista aveva intervistato per il suo articolo erano morte. Tanimoto si era ritirato a vita privata. “La sua memoria, come quella del mondo, stava diventando lacunosa”, scrisse Hersey.
I test nucleari di superficie erano stati interrotti, grazie a decenni di attivismo e ai trattati antinucleari. I film apocalittici c’erano ma non parlavano più della bomba. L’eco di Hiroshima si stava spegnendo. Oggi la conoscenza dell’olocausto è tenuta in vita da più di cento musei e memoriali in tutto il mondo, compresi Cuba, Indonesia e Taiwan. Ma fuori del Giappone non c’è un’industria della memoria che ricordi la guerra nucleare.
La conseguenza è una profonda frattura generazionale, evidente in quasi tutte le famiglie dei paesi dotati di armi atomiche. Mio padre, nato un mese dopo la bomba di Hiroshima, ricorda di essere andato a un concerto durante la crisi di Cuba. “Mi chiedevo se sarei sopravvissuto fino alla fine dello spettacolo”, mi ha detto. Io invece sono nato nell’anno in cui si interruppero i test nell’atmosfera e non ho mai avuto quei pensieri. La mia consapevolezza nucleare si limitava alle ore che trascorrevo giocando a un videogioco che si chiamava Duke Nukem, uscito nel 1991, l’anno in cui la guerra fredda finì e Michail Gorbačëv disse che “il rischio di una guerra nucleare mondiale è praticamente scomparso”.
Elettori troppo tolleranti
Dovremmo sentirci sollevati, ma la scomparsa della paura rende difficile per molte persone prendere sul serio le armi nucleari. “Sento la gente parlare di armi atomiche”, mi ha detto qualche tempo fa Jeffrey Lewis, esperto di controllo degli armamenti, “e noto un distacco dalla realtà”. Sono diventate “metafore morte”, che non hanno abbastanza concretezza per disturbare i nostri pensieri o moderare i nostri comportamenti. Con la minaccia nucleare lontana dalla nostra mente, gli elettori sembrano più tolleranti nei confronti dei politici irresponsabili. Trump si è vantato della propria “imprevedibilità” sulle armi atomiche e ha suggerito di usarle contro gli uragani. Nonostante questo, nelle discussioni sul rischio che nel 2024 Trump torni alla presidenza, la questione nucleare sembra secondaria.
E non si tratta solo di Trump. I nove paesi con armi atomiche sono guidati o lo sono stati di recente da politici inclini a violare le norme come Putin, Narendra Modi, Kim Jong-un e Benjamin Netanyahu. È plausibile che persone così inaffidabili possano essere spinte a violare la norma suprema di non cominciare una guerra nucleare. Oggi la cautela scarseggia. Dopo aver invaso l’Ucraina, la Russia ha trasformato Černobyl in un campo di battaglia e ha bombardato la centrale nucleare di Zaporižžja. Era “la prima volta nella storia” che un impianto di questo tipo veniva attaccato, ha detto il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj. “Se c’è un’esplosione, è la fine di tutto”. Ma quanto contano questi timori per i leader mondiali? Negli ultimi anni gli Stati Uniti si sono ritirati dall’accordo nucleare con l’Iran e da due dei principali trattati che limitano la corsa agli armamenti con la Russia. Nel frattempo la Cina ha sviluppato nuove armi. Nel 2019 l’India ha condotto un’incursione aerea in Pakistan. Era la prima volta che i suoi aerei superavano la frontiera militare del Kashmir – nota come “linea di controllo” – da quando entrambi gli stati si sono dotati di armi nucleari. L’India ha “smesso di farsi spaventare dalle minacce pachistane”, ha detto il primo ministro Modi. Abbiamo la “madre delle bombe nucleari”.
Il costo delle norme calpestate e dei trattati cancellati potrebbe essere pagato in Ucraina. Dopo la guerra fredda la Russia ha investito nel suo arsenale atomico, che ora è il più grande al mondo. Mentre il conflitto si aggrava, Putin potrebbe essere tentato di ricorrere a un’arma nucleare tattica per mostrare che fa sul serio. Mosca ha già minacciato la guerra atomica molte volte, ma i paesi della Nato aumentano i loro aiuti all’Ucraina. “L’attuale generazione di politici della Nato”, ha dichiarato l’ambasciatore russo a Washington, “non prende sul serio la minaccia”. È possibile che sia così. Hiroshima ormai è fuori dalla memoria collettiva. Il più anziano dei trenta leader della Nato, Joe Biden, aveva due anni nell’agosto 1945.
Con il passare del tempo i traumi svaniscono, per nostra fortuna. È un’immensa conquista che dal 1945 nessuna guerra nucleare abbia rinfrescato la nostra memoria. Dovremmo anche rallegrarci che la paura delle passate generazioni sia svanita. Vogliamo che la bomba atomica sia proprio questo: un fatto arcaico definitivamente relegato nel passato. Ma non raggiungeremo questo obiettivo ignorando la possibilità della guerra nucleare. Dobbiamo smantellare gli arsenali, rafforzare i trattati e consolidare le norme contro la proliferazione. In questo momento stiamo facendo il contrario. E lo stiamo facendo proprio quando chi ha assistito agli orrori della guerra atomica si avvicina ai novant’anni o li ha superati. La nostra coscienza nucleare si è atrofizzata. Ci rimane un mondo pieno di armi atomiche che però si sta svuotando delle persone consapevoli delle possibili conseguenze. ◆ gc
Daniel Immerwahr, 42 anni, è professore di storia alla Northwestern university, negli Stati Uniti. In Italia ha pubblicato L’impero nascosto (Einaudi 2020).
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1483 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati