Nel corso del suo matrimonio, durato cinque anni, Parisa è stata ripetutamente picchiata dal marito, che una volta ha provato perfino a vendere un suo rene. “Non potevo vivere ancora un altro giorno insieme a lui”, ha raccontato. Così una notte si è chiusa in una stanza in cui ha trovato il fucile dell’uomo, l’ha caricato e gli ha sparato. Per l’omicidio è stata condannata a sedici anni di carcere. La storia di Parisa è una tra quelle che la fotografa iraniana Kiana Hayeri ha ascoltato quando ha visitato il carcere femminile di Herat, in Afghanistan, nel 2019. Quell’anno c’erano 119 detenute e 32 bambini, che vivevano lì con le madri. Aperta negli anni novanta, la struttura è stata gestita fino al 2023 dal governo provinciale con il supporto di alcune ong locali.

Le immagini di Hayeri, che fino al 14 aprile sono esposte a Mantova all’interno della Biennale della fotografia femminile, sono diverse da quelle generalmente diffuse dai mezzi d’informazione occidentali, in cui le donne sono coperte interamente con il burqa. Hayeri le ha ritratte mentre bevono il té, frequentano corsi di cosmetica, giocano a pallavolo in cortile. “Dietro le sbarre hanno trovato una parvenza di pace, un luogo meno violento di quello in cui vivevano”, ha detto la fotografa. “Non voglio far pensare che fosse tutto sereno, c’erano anche discussioni e scontri tra le detenute, ma nella maggior parte del tempo c’era un clima di condivisione”. Durante la realizzazione del reportage, Hayeri ha scoperto che la vita di molte donne era stata dominata dalla paura e poi dalla rabbia, che le aveva spinte, per istinto di sopravvivenza, a uccidere chi gli faceva del male.

Nelle carceri afgane le detenute sono accusate soprattutto di reati cosiddetti morali, come uso di droghe e sesso fuori del matrimonio, anche in caso di stupro. Natasha Latiff, un’avvocata che ha rappresentato imputate accusate di aver ucciso il marito, afferma che il controllo degli uomini sulle donne nel paese è considerato normale. I mariti sono spesso perdonati per i crimini di violenza contro le mogli, a patto che siano considerati in grado di provvedere alla famiglia.

Nel 2024 il lavoro di Hayeri è diventato un libro, intitolato When cages fly, in cui la fotografa ha raccontato, attraverso la testimonianza di due ex detenute, come il carcere di Herat, con il ritorno dei taliban al potere nel 2021, sia profondamente cambiato. Il volume, autoprodotto, è composto da tre capitoli: il primo e l’ultimo sono stati scattati fuori dalle mura della prigione, il primo durante il precedente governo e l’ultimo sotto il nuovo regime dei taliban. Il capitolo centrale, racchiuso in una scatola, è invece quello realizzato nel 2019 all’interno del carcere.

Attraverso le interviste delle due donne e una mappa che Hayeri ha disegnato con una di loro, il libro mostra come quella prigione, che per molte era un luogo più sicuro della casa in cui vivevano, non esiste più. “Le stanze sono sovraffollate e non ci sono più spazi esterni. I luoghi di condivisione sono diventati spazi di tortura o isolamento”, si legge nell’introduzione del libro. Infine nel 2023 l’edificio è stato ristrutturato e trasformato in una stazione di polizia. ◆

Due detenute cercano di recuperare una palla incastrata nel filo spinato del cortile del carcere
La prigione di Herat
Una donna condannata a vent’anni di carcere per aver aiutato la nuora a uccidere il figlio violento. Ne ha scontati quattro. Nella foto è con la nipote Mahtab.
Nel cortile del carcere
Durante un laboratorio settimanale di cosmetica. Le detenute imparano diverse attività, come il cucito o la cura dei bambini, e a volte ricevono anche dei piccoli compensi.
Da sapere

◆ Le foto di Kiana Hayeri sono esposte alla Biennale della fotografia femminile di Mantova, diretta da Alessia Locatelli, fino al 14 aprile. Il tema della terza edizione della biennale è Private, e tocca vita privata e social network. Tra le altre fotografe ci sono Daria Addabbo e Newsha Tavakolian.


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Questo articolo è uscito sul numero 1558 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati