Chi conosce Brady Corbet sa che è un giovane autore, mortalmente serio ed eurocentrico in modo quasi feticistico, affascinato dalla relazione ciclica tra cultura e trauma. Dopo un prologo frenetico in cui arriva negli Stati Uniti, sopravvissuto ai campi di concentramento, l’architetto ebreo ungherese László Tóth (Adrien Brody) incontra Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), mecenate e aguzzino personale (praticamente una caricatura delle peggiori perversioni del capitalismo), che gli affida l’incarico di una vita: una sorta di centro civico abnorme dedicato alla madre. Con piccole deviazioni e qualche vicolo cieco, il film procede verso la realizzazione del progetto che presto assume una portata abnorme. I due uomini sono legati in una danza di potere e sfruttamento goffamente coreografata e la sceneggiatura cede a un non-climax che illustra la relazione tra capitalista e lavoratore in temini troppo ovvi.
David Erlich, IndieWire

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Questo articolo è uscito sul numero 1580 di Internazionale, a pagina 83. Compra questo numero | Abbonati