“Il dolore è come il flusso delle correnti”, scrive Elena Fischer all’inzio di questo romanzo triste ma anche pieno di speranza. A volte è più forte, altre si attenua, “ma il dolore è sempre lì”. Sono queste metafore, anche meravigliosamente infantili ma sempre molto precise, a dare una luce magica a Paradise garden. Quando muore la madre della quattordicenne Erzsébet (Billie per tutti), il mondo sembra crollarle intorno: “Tutto quello che mi rimaneva era la sequenza di lettere che formano il mio nome”. Billie è cresciuta in un casermone popolare di una città di cui non viene mai rivelato il nome. Sua madre Marika, un’ungherese di origine rom che un tempo voleva fare la ballerina, ha due lavori con cui tira avanti a malapena. L’arredamento in casa è fatto di mobili presi dalle discariche, ma nonostante tutto l’infanzia di Billie è stata felice. In un caffè la madre le ordinava un gelato, il Paradise garden, e insieme sognavano l’oceano, la Florida e i Caraibi. Poi accade qualcosa di tragico e Billie si trova ad affrontare tutto da sola. Leggendo Paradise garden l’allarme kitsch si accende a più riprese ma non ci si sente mai davvero a disagio in nessuna delle sue 270 pagine. E questo è merito della protagonista: una bambina come Billie può permettersi di essere romantica e ingenua proprio perché è una bambina. Fischer empatizza con la sua protagonista con dettagli così vividi da far pensare a una scrittura autobiografica.
Benedikt Herber, Die Zeit
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Questo articolo è uscito sul numero 1581 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati