Alla fine del 1800 il chirurgo statunitense William Coley osservò un fenomeno sorprendente. Un suo paziente affetto da un tumore al collo si riprese dopo aver contratto un’infezione batterica alla cute. Incuriosito, Coley tentò di replicare la scoperta e iniettò ai suoi pazienti un cocktail di batteri morti per tentare di far regredire i tumori, ottenendo risultati positivi.
Secondo Coley l’infezione poteva spingere il sistema immunitario a combattere il cancro. L’idea fu accettata dal mondo scientifico solo a partire dagli anni cinquanta. Oggi è alla base della ricerca per creare una nuova generazione di terapie note come “vaccini antitumorali”, che addestrano il sistema immunitario a riconoscere i tumori e a contrastarne lo sviluppo. Sono in fase di sperimentazione vaccini contro vari tipi di cancro, da quelli della cute e delle ovaie a quelli del cervello e del polmone. Dopo mezzo secolo di delusioni, cominciano a emergere risultati promettenti.
Un tumore può cominciare da quasi ogni cellula. Di solito il sistema immunitario tenta di evitarlo monitorando l’organismo alla ricerca di cellule anomale. I globuli bianchi noti come linfociti T, per esempio, attaccano i tumori perché riconoscono le proteine estranee, gli antigeni non-self, presenti sulla loro superficie. Anche i linfociti Nk e i macrofagi possono identificare e distruggere le cellule tumorali cercando le molecole sconosciute che portano o dopo che sono state marchiate dagli anticorpi.
Se riescono a eludere il sistema immunitario, le cellule tumorali possono crescere, riprodursi e diffondersi. Ora, però, questa manovra di aggiramento offre agli oncologi un nuovo bersaglio per i farmaci. Nel 2008, quando hanno cominciato a sequenziare il dna dei tumori, gli scienziati hanno scoperto che le cellule tumorali contengono centinaia, se non migliaia, di mutazioni che le distinguono da quelle sane. Alcune le inducono a produrre proteine anomale note come neoantigeni, in grado di far scattare l’allarme del sistema immunitario. L’idea alla base dei vaccini antitumorali è proprio immettere i neoantigeni nel paziente per addestrare il sistema immunitario a considerare un corpo estraneo qualunque cancro li possieda, e quindi a eliminarlo.
Per creare un vaccino simile gli scienziati devono innanzitutto procurarsi un campione del tumore, sequenziarne il genoma e trovare tutte le mutazioni genetiche. Questa informazione viene analizzata per prevedere quali neoantigeni siano in grado di sollecitare la risposta immunitaria più forte. A quel punto si può progettare un vaccino capace di indurre il sistema immunitario a creare anticorpi contro precise proteine anomale. Per far questo si inietta un frammento di informazioni genetiche di breve durata, noto come rna, che addestra le cellule dell’organismo a produrre i neoantigeni. La conseguente risposta immunitaria dovrebbe prendere di mira il tumore.
La teoria è chiara, ma creare un vaccino su misura abbastanza rapidamente è un’altra storia. “Non molti anni fa avrei detto che non sarebbe mai stato possibile”, dice Alan Melcher dell’Institute of cancer research di Londra. Oggi invece ci vogliono solo sei settimane, anche grazie ai rapidi progressi dei vaccini a mRna durante la pandemia di covid-19. I vaccini contro il covid, infatti, inducono l’organismo a produrre una delle proteine del sars-cov-2, che poi il sistema immunitario usa per creare gli anticorpi. I vaccini antitumorali farebbero qualcosa di simile con le proteine prodotte dai tumori.
Alcuni risultati promettenti sono già stati pubblicati. Un vaccino per il melanoma, sviluppato dalle aziende statunitensi Moderna e Merck e noto come mRna-4157 (V940), ha completato gli studi di fase 2 su pazienti a cui era stato asportato chirurgicamente un tumore in stadio avanzato. Tre anni dopo il trattamento il rischio di recidiva si è quasi dimezzato. Per valutare l’efficacia del vaccino però è necessario attendere i risultati delle fasi successive.
Questi vaccini potrebbero essere più efficaci in combinazione con altre forme di immunoterapia che agiscono per potenziare o modulare la risposta immunitaria al cancro. L’mRna-4157 (V940) è stato somministrato insieme all’attuale cura standard, che include il farmaco Keytruda (pembrolizumab).
La Moderna e la Merck hanno avviato ulteriori studi per testare l’efficacia del vaccino su altri tipi di tumori. Anche la BioNtech e la Genentech stanno sviluppando un vaccino personalizzato, noto come autogene cevumeran, che secondo i primi dati può ridurre il rischio di recidiva di tumore al pancreas dopo l’intervento.
Le sperimentazioni riguardano anche il glioblastoma, il tumore al cervello più diffuso. In uno studio condotto dai ricercatori dell’università della Florida, un vaccino antitumorale a mRna testato su quattro pazienti ha attivato una risposta immunitaria forte. Anche i test sui cani hanno dato risultati promettenti. Questi studi indicano inoltre che i vaccini possono innescare una risposta immunitaria in caso di tumore “freddo”, che di solito il sistema immunitario non riconosce.
Prevenire è meglio
La speranza è che i vaccini antitumorali progrediscano a tal punto da ridurre la necessità di trattamenti più invasivi come la chemioterapia o la chirurgia. Secondo Sarah Danson del National institute for health and care research del Regno Unito è addirittura possibile che un giorno si possano usare a scopo preventivo, somministrando a chi è più a rischio vaccini contro i neoantigeni comuni a diversi tipi di tumore. Nell’ottobre 2024 gli scienziati di Oxford hanno ricevuto dei fondi per creare un vaccino preventivo per il carcinoma ovarico.
Non sarà semplice. Produrre vaccini antitumorali personalizzati è complesso e costoso, ma si potrebbe partire creando farmaci pronti all’uso. Restano però da sciogliere importanti dubbi. Tanto per cominciare, dice Elad Sharon del Dana-Farber cancer institute di Boston, non è chiaro perché il sistema immunitario ignori un neoantigene prodotto da un tumore ma si attivi se proviene da un vaccino.
Più di un secolo dopo gli esperimenti di Coley, la sua intuizione si è rivelata fondata. L’efficacia dei candidati vaccini, però, è ancora tutta da verificare. Uno studio del 2009 sui progressi del settore si chiedeva se quello sarebbe stato l’anno del vaccino antitumorale. Non è stato così. Il 2025, però, potrebbe essere diverso. ◆ sdf
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Questo articolo è uscito sul numero 1597 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati