Cinque secoli dopo il viaggio di Cristoforo Colombo da Palos alle “Indie Occidentali”, Jamaica Kincaid lascia la sua casa nel Vermont e vola da New York a Hong Kong e poi a Kathmandu, in Nepal. Nella sua nuova introduzione Kincaid descrive il giardino del mondo come un giardino coloniale, fatalmente alterato dai viaggi degli esploratori occidentali. Inquadra se stessa come una lamentosa privilegiata, e racconta le sue traversie in uno stile a metà tra Gertrude Stein ed Edmund Hillary. Trascorre la maggior parte di ottobre facendo trekking da Tumlingtar verso il confine tibetano, da cui poi scende a Suketar. Le piacciono le omelette e la zuppa di chang e noodle; non le piacciono le sanguisughe, il sole cocente, le guerriglie maoiste o defecare in una buca. Nata ad Antigua, Kincaid scrive di non aver mai pensato di definirsi altro che americana, decidendo solo con riluttanza di fingere la nazionalità canadese nel villaggio di Uwa, gestito dai maoisti. Il suo atteggiamento nei confronti del Partito comunista nepalese è tipico: è convinta della giustizia della loro causa anche quando pensa di licenziare i suoi portatori per non aver piantato l’accampamento prima del suo arrivo. Sulla strada Jamaica Kincaid trova “ogni pianta, ogni nuova curva della strada, ogni nuovo cambiamento del tempo… così coinvolgente, così nuovo, e pure la novità così coinvolgente” che spesso scoppia in lacrime e si chiede chi sia e cosa si trovi davanti a lei in quel momento.
Dylan Byron, The TimesLiterary Supplement
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Questo articolo è uscito sul numero 1606 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati