In una stanza d’ospedale dove il tempo ha perso significato, Laila Soueif è distesa a letto in un apparente atteggiamento di resa. Ma dietro la sua immobilità c’è una resistenza silenziosa che si oppone al cedimento. Il volto, conosciuto per la sua forza e la sua resistenza, è pallido, come se i lunghi giorni di sciopero della fame le avessero portato via fino all’ultimo briciolo di energia. Le braccia pendono mollemente lungo i fianchi, segnate dal lungo digiuno, mentre gli occhi scavati fissano in alto verso un punto invisibile, in cerca di qualcosa di perduto, forse l’ombra del figlio, Alaa Abdel Fattah; una prova che la sua assenza non è l’unica verità rimasta.

Da più di cinque mesi Soueif rifiuta di mangiare. Non è una resa, ma un tentativo di costringere il mondo a prestare attenzione. Quando le autorità e i regimi ti ignorano, quando ogni appello è ridotto a sorde procedure burocratiche, il corpo stesso diventa uno strumento di protesta. La fame diventa il linguaggio finale con cui esprimersi di fronte a un mondo che insiste sul tuo silenzio.

Ma questa non è una novità per Laila Soueif. Ha trascorso la vita muovendosi tra università, manifestazioni, carceri, con un libro in una mano e uno slogan nell’altra, tra una mente matematica che amava la logica e un cuore politico consapevole che la logica da sola non è mai bastata. In matematica c’è sempre una risposta corretta, un’equazione che porta a una soluzione. Ma nella politica egiziana le equazioni sono riscritte come vogliono le autorità e i risultati sono determinati non dalla logica, ma dal potere. Dove le leggi non gli bastano, il regime usa la repressione.

Gesto di sfida

Laila Soueif da giovane era convinta che la conoscenza volesse dire prendere una posizione, che non fosse neutrale. Non è stata solo una studiosa che osservava a distanza, ma ha fatto parte di un movimento di sinistra che considerava la scienza e il pensiero strumenti di cambiamento, non solo spazi per un dibattito astratto. Naturalmente, questa convinzione l’ha portata a scontrarsi con l’autorità, ma forse non immaginava che questa battaglia non sarebbe mai finita, che sarebbe diventata una battaglia eterna, non solo per le sue idee, ma anche per i suoi figli.

Alaa Abdel Fattah non è solo uno dei tanti nomi nella lista dei prigionieri politici: ha incarnato il dilemma di uno stato che teme più le parole delle minacce armate. Dal 2011 è stato sballottato da un carcere all’altro. Le accuse possono anche cambiare, ma il crimine resta lo stesso: aver fatto sentire la sua voce. In un sistema in cui il silenzio è considerato la chiave per la stabilità, il semplice fatto di avere una voce è considerato una trasgressione, un imperdonabile gesto di sfida.

Quando Abdel Fattah ha finito di scontare la sua ultima condanna nel settembre 2024 avrebbe dovuto essere rilasciato, ma non tutti quelli che scontano una pena in Egitto poi escono di prigione. Questa volta non c’è stato nessun processo, nessuna incriminazione, solo la decisione di tenerlo in carcere, senza spiegazioni. La burocrazia, che dovrebbe essere un meccanismo amministrativo, è diventata uno strumento punitivo. Non c’erano documenti ufficiali a confermare che la sua detenzione doveva continuare, nessun chiaro passaggio legale, solo una semplice realtà: Alaa Abdel Fattah non sarebbe uscito.

E quando lo stato ha manipolato la legge, Laila Soueif ha deciso di giocare secondo le sue regole. Se loro avevano tolto la libertà a suo figlio, lei si sarebbe privata dell’unica cosa su cui aveva il controllo assoluto: il suo stesso corpo.

Quando Soueif ha deciso di smettere di mangiare non si è trattato né di un gesto simbolico né di un tentativo di attirare l’attenzione. Non ha cercato di suscitare emozioni o d’invocare la compassione di un regime indifferente alle tragedie personali. Sapeva che lo stesso sistema insensibile alle suppliche di migliaia di prigionieri e delle loro famiglie per più di dieci anni non si sarebbe fatto facilmente impressionare dalla vista di una madre sempre più debole con il passare dei giorni di digiuno. Soueif non ha mai scommesso sulla pietà o sull’empatia del regime, ma sul metterlo di fronte alla verità delle sue azioni. Voleva spingerlo fino al punto di non potersi più nascondere dietro la retorica giuridica, costringendolo a riconoscere – anche in silenzio – che quello che stava accadendo non era l’applicazione della legge, ma una calcolata vendetta politica.

Da sapere
Condanna senza fine

Alaa Abdel Fattah, 43 anni, è una figura di spicco della rivolta egiziana del 2011. È stato arrestato varie volte, l’ultima nel settembre 2019. Nel dicembre 2021 è stato condannato a cinque anni di carcere per “aver diffuso false informazioni che potrebbero nuocere alla sicurezza nazionale”, in un processo che dodici esperti di diritti umani delle Nazioni Unite hanno definito ingiusto. Nell’aprile del 2022 ha ottenuto la cittadinanza britannica, dato che la madre, Laila Soueif, è nata a Londra. Abdel Fattah doveva essere rilasciato il 29 settembre 2024, ma le autorità lo trattengono, rifiutando di sottrarre alla condanna gli anni trascorsi in detenzione preventiva.

◆ Il Committee to Protect Journalists ha fatto sapere il 4 marzo 2025 che cinquanta persone, tra cui premi Nobel, scrittrici e rappresentanti delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani come Arundhati Roy, Elif Shafak, Narges Mohammadi e Orhan Pamuk, hanno firmato una lettera per chiedere la liberazione di Alaa Abdel Fattah.

◆ Da quando ha cominciato lo sciopero della fame il 29 settembre 2024, in seguito al prolungamento della detenzione del figlio in Egitto, Laila Soueif, 68 anni, ha ingerito solo tè, caffè e sali minerali. Il 24 febbraio è stata ricoverata in un ospedale di Londra. I medici hanno avvertito che era in pericolo di vita. Dopo che il 28 febbraio il primo ministro britannico Keir Starmer ha telefonato al presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi chiedendo il rilascio di Abdel Fattah, Soueif ha acconsentito ad assumere 300 calorie di integratori alimentari al giorno in attesa dell’avvio dei negoziati per la liberazione del figlio. Abdel Fattah ha cominciato a sua volta uno sciopero della fame il 1 marzo, dopo aver saputo del ricovero della madre. Secondo il quotidiano britannico The Guardian, c’è qualche speranza che Abdel Fattah sia liberato se ci sarà un’amnistia per la fine del Ramadan, il 30 marzo. Laila Soueif ha fatto sapere che, se non ci saranno progressi entro quella data, riprenderà lo sciopero totale della fame.


L’ultima risorsa

Nei regimi fondati sulla repressione i dissidenti imparano presto che il corpo è l’ultima risorsa, l’ultimo rifugio di resistenza. Quando tutte le altre vie non portano a nulla – cortei, dichiarazioni, piattaforme – il corpo stesso diventa uno strumento di protesta, un campo di battaglia aperto che le autorità non possono fermare o soffocare con le leggi convenzionali. Uno sciopero della fame non è solo una rinuncia a mangiare; è un rifiuto della logica del potere, di un sistema che riduce i prigionieri a numeri, che considera i detenuti moneta di scambio, e liquida le madri addolorate come un semplice rumore da attutire e ignorare finché non sparisce.

Ma Laila Soueif non è una prigioniera, ed è questo che rende diversa la sua battaglia. Il regime sa come mettere a tacere chi sta dentro la cella di un carcere, ma non sa come affrontare una madre che si espone allo scoperto, usando il suo corpo come arma, privando le autorità del lusso di farla sparire dietro le sbarre.

L’attuale regime, più dell’opposizione organizzata, teme gli individui che diventano simboli. Ed è proprio per questo che Soueif è un problema. Non sta combattendo solo per sé, ma per tutte le madri e tutti i padri che hanno perso i figli nel labirinto della repressione; e rifiuta di accettare che il silenzio sia per loro l’unica scelta possibile.

In Egitto le autorità non temono le grandi manifestazioni, perché possono disperderle con la forza, reprimerle con le leggi o screditarle sui mezzi d’informazione. A suscitare davvero preoccupazione sono le storie personali, che penetrano silenziosamente nella coscienza pubblica. Queste non si dimenticano facilmente né possono essere cancellate con l’approvazione di una legge. Che ne sia consapevole o meno, Soueif sta ridefinendo la protesta politica in Egitto, non attraverso gli slogan o la folla, ma con il suo corpo fragile, il più debole strumento di resistenza, eppure il più potente per le sue conseguenze.

La domanda fondamentale ora non è quanto a lungo Soueif potrà portare avanti lo sciopero della fame, ma quanto a lungo il regime potrà continuare a ignorarlo. Potrà rimanere in silenzio mentre la salute di una madre in lotta per suo figlio peggiora inesorabilmente? O il silenzio, come è avvenuto molte altre volte in passato, sarà parte di una strategia per logorarla fino al suo crollo definitivo?

Gli scioperi della fame non sempre raggiungono il loro scopo o portano alla vittoria. A volte si concludono con la morte. Altre volte terminano con un intervento sanitario forzato che restituisce al corpo la vita ma non la dignità. E in alcuni casi le luci dei riflettori a poco a poco si spengono, rendendo quel calvario l’ennesimo capitolo di un archivio delle tragedie che non hanno cambiato nulla. Ma anche se il successo o la vittoria non arrivassero direttamente, quello che ha fatto Soueif ha lasciato un marchio indelebile. Ha costretto il regime a prendere una posizione – anche se quella posizione è il silenzio – e ha fatto in modo che quello di Alaa Abdel Fattah resti un caso che non può essere chiuso facilmente.

Eppure, una domanda più grande aleggia al di là di questo momento: quanto a lungo un regime può governare solo attraverso la paura? La storia dice che non è possibile, il presente invece dice che può farlo, per lo meno molto più a lungo di quanto molti si aspettavano. E man mano che passano i giorni, Laila Soueif continua il suo sciopero e il suo corpo esausto è la testimonianza di una battaglia che non riguarda più solo suo figlio, ma qualcosa di più grande: può la verità, anche quando è portata da un corpo fragile, prevalere sull’oppressione? ◆ fdl

Ahmad el Fakharany è uno scrittore e giornalista egiziano.

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Questo articolo è uscito sul numero 1607 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati