Molte persone detestano Elon Musk. Non è difficile capire perché. È prepotente, fastidioso, provocatorio ed esageratamente ricco. Diffonde strane teorie del complotto. È goffo come un bambino di sette anni che vuole sempre fare il fico e a cui nessuno riesce a dire che non lo è. Inoltre ha un’immensa influenza sulla società. Musk ha comprato un intero social network, ha modificato il giudizio degli statunitensi sulle auto elettriche e ha creato un’azienda responsabile di tre quarti degli oggetti lanciati nello spazio nell’ultimo anno. E ha fatto tutto con l’attenzione e il senso di responsabilità di quello stesso bambino di sette anni che gioca con un trenino ricevuto in regalo per il compleanno.
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Potremmo pensare che l’antipatia nei confronti di Musk sia una meschinità. Forse è solo una mancanza di autostima che si trasforma in disprezzo per una persona di successo. I comuni mortali cercano sempre di trascinare a terra gli dei.
Ma l’atteggiamento diffidente dell’opinione pubblica non è semplice risentimento. Musk è l’incarnazione più importante di un particolare problema di potere e dominio delle nostre società capitalistiche immensamente ricche: il problema dell’imprenditore.
Gli imprenditori sono un tipo speciale di élite. Non sono definiti da una classe sociale né da una particolare influenza sulla vita politica, ma da certe qualità e da un certo modo di esercitare il potere tipici del mondo degli affari. Si dice che le loro virtù imprenditoriali siano rare. Alcuni dei loro talenti ricordano le qualità eroiche di altre élite della storia: cavalieri, fondatori, esploratori. Prima che in inglese fosse ampiamente adottato il termine francese entrepreneur, erano chiamati comunemente “avventurieri” o “impresari”. Ma gli imprenditori fondono queste qualità con gli atteggiamenti e le abitudini del mondo degli affari, fino a incarnare in modo unico i princìpi e le caratteristiche di una società di mercato. È così che diventano innovatori. Non si limitano a inventare qualcosa, ma sanno guardare nei desideri delle masse meglio e più in profondità di quanto i futuri consumatori sanno guardarsi dentro. Non si limitano a rispondere a un bisogno, lo creano e poi inventano il prodotto per soddisfarlo. Agiscono sulla domanda e sull’offerta. Sono la personificazione del capitale.
Per questo, dicono alcuni, gli imprenditori sono poco apprezzati da chi più in generale non apprezza né ama il mondo degli affari. E questo spiega perché devono avere i poteri e le prerogative speciali dell’imprenditorialità: profitti fuori misura, un controllo dispotico sui lavoratori e sui posti di lavoro, prestigio e, soprattutto, il controllo sugli investimenti futuri. Anche quando disprezziamo alcuni casi particolari, la nostra società glorifica questo tipo di persone. Ogni college e università ha un centro per gli studi sull’imprenditorialità; le guide per l’educazione dei bambini insegnano ai genitori metodi adeguati all’età per formare giovani imprenditori. La morte più compianta degli ultimi decenni è stata quella di Steve Jobs, l’angelo buono dell’imprenditoria da contrapporre al principe oscuro Musk. L’imprenditorialità è diventata praticamente sinonimo della stessa creatività umana.
Gli imprenditori hanno una libertà apparentemente inarrivabile
Parte di questa ammirazione si deve al fatto che gli imprenditori conquistano una libertà apparentemente inarrivabile. La maggior parte delle persone deve giocare secondo le regole, agire all’interno dei normali vincoli dell’economia: ubbidire a un capo o seguire diligentemente uno degli stretti sentieri tracciati per diventarlo; rispettare le indicazioni, soddisfare le aspettative e, con un po’ più di fortuna, salire lentamente la scala sociale; i ruoli sono definiti, le possibili attività sono limitate. Gli imprenditori non hanno o, almeno, non sembrano avere gli stessi vincoli: investono denaro che non hanno ancora guadagnato e ottengono prestiti per fare cose che nessuno ha ancora fatto; i loro progetti spesso non si distinguono dalla fantascienza, le loro aziende sono un’estensione della loro personalità; non si limitano a gestire i loro affari, sembra che siano loro a inventarne le regole; proiettano un’immagine di pura libertà, quasi di assenza di costrizioni. Chi non vorrebbe essere così? Le piattaforme online, pur offrendo una pallida imitazione della realtà, hanno avuto successo in parte perché hanno capito e venduto questo fascino: chi ci lavora desidera quell’indipendenza che la nostra società offre a pochi.
Fare la storia
Cosa c’è di tanto sbagliato in questo? Il problema è diverso da quello già noto dei ricchi in politica. Anche se è vero che la politica statunitense è in tutto e per tutto un’oligarchia, il potere concesso agli imprenditori è problematico per ragioni diverse. Ci governano senza passare per la politica, direttamente attraverso il loro potere economico. I prestiti che ottengono, i fondi che raccolgono e i capitali che gestiscono esercitano un potere sulla direzione che prenderà in futuro la vita della collettività. Che decidano di investire miliardi di dollari nell’intelligenza artificiale o nelle criptovalute, nel caffè ai funghi o nei viaggi spaziali, negli occhiali per la realtà virtuale o nelle auto che si guidano da sole, determinano il futuro dello sviluppo culturale e sociale collettivo. Alla fine sono loro a decidere cosa potremo consumare e produrre, quali saranno le nostre forme di divertimento e come saranno le nostre interazioni sociali.
E prendono queste decisioni senza rendere conto a nessuno. Proprio perché il loro potere è economico e dipende da come spendono i loro immensi capitali, decidono per tutti senza permetterci di capire chiaramente cosa stanno facendo. Sono, al massimo, responsabili nei confronti dei loro creditori, che devono ripagare o a cui devono raccontare perché hanno bisogno di un altro prestito.
Ma in virtù di questa esclusiva dipendenza dai creditori, possono ignorare l’opinione pubblica. È un tipo speciale di potere. È il potere antidemocratico dell’élite imprenditoriale, che non richiede alcuna conversione della ricchezza in dominio oligarchico, nessuna modifica delle procedure democratiche o corruzione delle autorità pubbliche. Possono plasmare il futuro della società, la traiettoria della cultura, senza approvare alcuna legge. In un certo senso, questa è una delle caratteristiche più insidiose della cultura imprenditoriale. Apparentemente è del tutto compatibile con la democrazia. Finché svolgono le loro attività nella sfera economica, sembra che non esercitino un potere specifico sulla collettività in quanto tale. Ci accorgiamo quando investono la loro ricchezza in oscuri comitati politici, raccolte fondi private e specifici settori, ma raramente ci rendiamo conto di questo uso diretto del loro potere economico per plasmare la società.
Non è solo questo potere a infastidire, ma l’adorazione nei loro confronti. Il più importante teorico dell’imprenditoria, Joseph Schumpeter, li ha definiti “uomini con una volontà e un intelletto soprannaturali”. Soprannaturali perché non si limitano a reagire alle oscillazioni dei prezzi, ma li condizionano. Possono stabilire nuovi rapporti tra la domanda e l’offerta attraverso i capitali investiti in nuove imprese: per questo Schumpeter li considerava addirittura “deviatori” della storia. Dato che agiscono “al di fuori della gamma di pratiche esistenti”, rappresentano la “risposta creativa” nella storia. E se questa una volta era una caratteristica dei leader politici, oggi è il dominio privato di quelli economici. Solo pochi hanno la capacità di fare la storia, comprendendo il valore di progetti che alla gente comune sembrano fantasie: “Nella maggior parte dei casi solo un uomo o pochi uomini vedono una nuova possibilità e sono in grado di far fronte alle resistenze e alle difficoltà che l’azione incontra sempre al di fuori dei solchi delle pratiche consolidate”. Queste persone sono i Machiavelli del mercato, che fondano imperi, un consiglio d’amministrazione alla volta.
Nonostante i diffusi timori di un ritorno del fascismo, a me sembra che ci sfugga qual è il vero culto della personalità che opprime la società. L’atteggiamento schumpeteriano nei confronti dell’imprenditorialità oggi è dominante. È questa celebrazione dell’economia dispotica e superomistica a risvegliare gli aspetti più profondi e oscuri della nostra cultura. E ci restituisce la capacità di invenzione come trasgressione infantile, la creatività come imposizione necessariamente dispotica, la libertà come dominio.
Non è sbagliato voler creare, inventare o cercare di liberarci da vincoli inutili. Una società immensamente ricca come quella statunitense crea enormi possibilità di reinvenzione e autotrasformazione. Ma per farlo bisogna trovare qualcosa che resista alle caratteristiche nietzschiane dell’economia e adotti un modello alternativo all’imprenditorialità. È necessario trovare il modo di determinare insieme il tipo di futuro che vogliamo, di vedere la creatività come un processo di autodeterminazione collettiva, di esercitare il controllo sulla finanza e sugli investimenti come qualcosa in cui tutti siamo coinvolti. Altrimenti, non importa quanto corrette e incontaminate siano le nostre elezioni, il vero controllo ce l’ha qualcun altro. ◆ bt
Alex Gourevitch è un professore associato di scienze politiche alla Brown university, negli Stati Uniti.
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Questo articolo è uscito sul numero 1589 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati