Negli anni successivi alla rivoluzione in Siria, mentre il paese andava in pezzi, chiedevo sempre due cose ai siriani che incontravo, nel paese o all’estero, indipendentemente da quando e perché fossero andati via. “Ne è valsa la pena? Cosa avremmo dovuto imparare da quello che è successo, da tutto quello che è avvenuto tra di noi?”.

Nel 2023 ho rivolto queste domande a un siriano a Gaziantep, in Turchia. Yusef sembrava una stella del cinema e, a 27 anni, aveva già vissuto molte vite. A dodici anni aveva lasciato la scuola ad Aleppo per lavorare in una vetreria. Quando scoppiò la rivoluzione un paio di anni dopo, all’inizio prese parte alle proteste, ma poi si unì a un gruppo armato islamista, una reazione, ha raccontato, al fatto di aver visto le forze di Bashar al Assad aprire il fuoco sui civili disarmati che chiedevano riforme al regime. Mi ha raccontato che un razzo gli ha spazzato via il braccio e la gamba, e che lo avevano creduto morto finché lui non aveva cominciato ad agitarsi ed era stato estratto da un sacco di plastica nero posato sul marciapiede.

Yusef non ha più combattuto. In Turchia aveva aperto un piccolo negozio e faceva volontariato come operatore umanitario. Quando l’ho incontrato, un terremoto gli aveva da poco distrutto la casa e il negozio e lui stava valutando l’idea di provare a raggiungere l’Europa. Non aveva ancora i soldi, e si rendeva conto che le sue rudimentali protesi probabilmente non gli sarebbero state d’aiuto se l’imbarcazione si fosse ribaltata. Oltretutto, ha ammesso, non sapeva nuotare.

Una scelta ignobile

Gli ho fatto le mie due domande. Lui ha tirato una boccata dalla sigaretta e ha detto, con un’amarezza che avevo imparato a riconoscere: “Noi abbiamo insegnato al mondo che se non sei adatto a fare una cosa, non devi farla”.

Hamdallah”, grazie a Dio, ha detto, “ora siamo una lezione”. Come dire, almeno questo.

Nel 2023 nessuno avrebbe potuto biasimarlo per il suo pessimismo. Dopotutto, all’inizio della primavera araba, quando in tutta la Siria scoppiarono le proteste per chiedere delle riforme e poi – quando era ormai chiaro che le riforme non sarebbero arrivate – la destituzione di Bashar al Assad, il regime offrì ai siriani una scelta ignobile: Assad o bruciamo il paese. Alla fine, ovviamente, Assad è rimasto al suo posto e ha bruciato il paese. Per più di dieci anni si è aggrappato al potere servendosi di metodi spietati e godendo di un’oscena impunità. Negli ultimi anni stava perfino cominciando a essere di nuovo accolto all’interno di una comunità internazionale impaziente di voltare pagina e di rimandare indietro i rifugiati siriani, nonostante le prove evidenti del fatto che la Siria non era un paese sicuro.

Gran parte del mondo non ha veramente capito cosa stava succedendo in Siria. Il regime e i suoi alleati sostenevano che la rivolta fosse opera di potenze straniere, elementi religiosi e bande armate che volevano rovesciare un leader laico e popolare. La disinformazione dilagava, e perfino molti commentatori ben intenzionati descrivevano quello che stava succedendo elencando un cast globale di attori che agivano dietro le quinte: Russia, Iran, Stati Uniti, Turchia, Al Qaeda, il gruppo Stato islamico. I siriani, quando erano menzionati, erano descritti di solito come aderenti a sette, fazioni e gruppi combattenti sponsorizzati da forze straniere, oppure come vittime e rifugiati. L’idea che potessero essere protagonisti delle loro vite e non solo pedine di manovre geopolitiche non era contemplata. Tutto questo naturalmente conveniva ad Assad, e il risultato è stato che la comunità internazionale non ha saputo reagire efficacemente all’implosione della Siria, che ha destabilizzato i paesi circostanti e quelli che hanno accolto i suoi cittadini in fuga.

I giorni più belli

Oggi che la Siria compie i suoi primi incerti passi dopo la caduta di Assad, è essenziale che i siriani non siano ancora una volta rimossi dalla loro storia.

Quando nel 2010 cominciò la primavera araba, che rovesciò i dittatori in Tunisia, Libia, Yemen ed Egitto, il regime degli Assad già dominava i siriani con la paura e la repressione da circa quarant’anni, per la maggior parte del tempo imponendo la legge marziale. Quando nel 2000 il potere passò da Hafez al Assad a suo figlio Bashar sembrava che il regime volesse rinnovare la sua immagine. Bashar al Assad prometteva riforme. Era considerato una persona mite, e si diceva che si fosse specializzato in oculistica perché non voleva avere a che fare con il sangue. Aveva studiato a Londra e sposato una donna siriana-britannica che comparve in un entusiastico, e ignobile, ritratto su Vogue. Ma il governo restava corrotto, e i siriani conoscevano quale incubo comportasse la ribellione: detenzione, tortura e sparizioni.

Nonostante i rischi, nel 2011 i siriani cominciarono a protestare coraggiosamente e pacificamente per chiedere cambiamenti. Spesso i siriani mi hanno detto che i giorni della thawra, la rivoluzione, sono stati i più belli per il paese, giorni di possibilità e solidarietà. I manifestanti erano contadini, studenti universitari, casalinghe, farmaciste, architetti, insegnanti, fornai e negozianti. Arrivavano da ogni parte del paese. Avevano idee politiche diverse e seguivano religioni diverse. Alla fine del 2011 un abitante cristiano di Damasco mi confidò che partecipava di nascosto alle proteste. Incontrava nei pressi delle moschee altri amici con idee simili alle sue, sia cristiani sia musulmani, prima di andare a manifestare. Era raggiante di gioia, mi disse che si sentiva vivo.

Senza alternativa

Quell’anno molti parlavano come se per la Siria il futuro fosse finalmente arrivato. C’erano salotti segreti per pensare alla costituzione e ai sistemi economici del futuro, alla forma dello stato, allo sviluppo delle leggi e al ruolo che avrebbe dovuto svolgere la società civile. Non tutti avevano la stessa visione: c’era chi voleva uno stato religioso, chi laico; per alcuni laico era una brutta parola, corrotta da un regime che si dichiarava tale. Non erano persone attive politicamente: come avrebbero potuto, in un paese dove i partiti, a parte il Baath al potere, erano vietati? Erano solo siriani normali, euforici per la possibilità di avere un ruolo fino ad allora negato nel loro governo e nel loro destino.

Il regime rispose aprendo il fuoco sui manifestanti pacifici, uccidendo molte persone, arrestandone e torturandone ancora di più, perfino bambini. Molti fuggirono in altri paesi, senza poter tornare perché erano ricercati dal governo, che si vendicava su intere famiglie, quartieri e città.

Shu el badil?”, “Qual è l’alternativa?”, chiedeva il regime, per timore che i siriani si facessero strane idee mentre la primavera araba si diffondeva. Era una sorta di provocazione. L’implicazione era che senza Assad ci sarebbero stati solo caos, violenza, settarismo e fondamentalismo, come se i siriani stessi non fossero l’alternativa. “Shu el badil?” era anche una minaccia. Nel 2011 a Damasco sentii i siriani ansiosi pronunciare queste parole in buona fede, e capii quello che loro avevano già capito: il governo avrebbe fatto qualsiasi cosa per restare al potere, anche fomentare il caos che diceva di voler combattere.

Liberò i jihadisti dalle prigioni e arrestò gli attivisti della società civile. Assad voleva screditare la rivoluzione e dimostrare che l’“alternativa” al suo stato laico era il jihad. Poi arrivarono gli affiliati di Al Qaeda e del gruppo Stato islamico, che speravano di sostituire il barbaro dominio di Assad con il loro. Alla fine la Siria diventò il pantano che ci avevano raccontato.

A partire dal 2011 i civili siriani sono morti in molti modi e per mano di molti carnefici. Sono stati uccisi da armi convenzionali, armi chimiche, bombardamenti, fame, tortura, e sono affogati in mare. Ne sono morti più di mezzo milione, tra cui più di 200mila civili; milioni sono sfollati e altri milioni sono diventati rifugiati. Le organizzazioni siriane per i diritti umani contano più di centomila dispersi, persone scomparse nelle infernali viscere delle prigioni segrete del regime. I siriani non solo sono stati esclusi dalla loro storia, sono anche stati cancellati dal loro paese.

Assad perse il controllo di alcune parti della Siria, ma quello che era rimasto sotto il suo dominio diventò gradualmente un narcostato povero e invivibile. Il regime ha cercato una normalizzazione e in anni recenti i suoi tentativi avevano cominciato a dare frutti: nel 2023 è stato riammesso nella Lega araba, in parte nel tentativo di fermare il traffico di captagon, un’anfetamina prodotta e commerciata illegalmente da complici e familiari di Assad. Alcuni stati dell’Unione europea stavano ridefinendo i loro rapporti con la Siria; a luglio l’Italia aveva perfino nominato un ambasciatore a Damasco.

Per anni le risposte dei siriani alla mia domanda – “Cosa abbiamo imparato?” –sono state spesso desolate, piene di senso di colpa ma anche di riflessioni. Dicevano di aver imparato che la vita umana non vale nulla e che la comunità internazionale è inutile. Che erano stati ingenui e non erano riusciti a proteggere la rivoluzione e i suoi valori. Dicevano che la cosa migliore che potevano sperare nelle terre straniere dove erano diventati rifugiati era che i loro figli non fossero uccisi dallo stato e avessero la possibilità di un futuro.

Da sapere
I passi della transizione

◆ I paesi arabi, quelli occidentali, la Turchia e alcuni rappresentanti delle Nazioni Unite si sono riuniti a Parigi il 13 febbraio 2025 insieme ad Asaad al Shaibani, il ministro degli esteri della Siria, per discutere della transizione e della ricostruzione del paese a più di due mesi dalla caduta di Bashar al Assad. È stata la prima visita di Al Shaibani in un paese dell’Unione europea. Il ministro degli esteri francese Jean -Noël Barrot ha confermato che l’Unione sta lavorando a una “rapida eliminazione” delle sanzioni economiche imposte al regime di Assad. Anche i donatori e le agenzie internazionali erano a Parigi per elaborare una “strategia di coordinamento degli aiuti”. Secondo l’Onu ci vorranno più di 400 miliardi di dollari per ricostruire la Siria, devastata da quattordici anni di una guerra che ha causato 500mila morti e più di dieci milioni di sfollati e rifugiati. Barrot ha insistito sulla necessità di una transizione che includa tutte le componenti della società siriana e si è agurato che il governo rifletta la diversità del paese (il governo sarà formato il 1 marzo). Infine ha invitato a un cessate il fuoco su tutto il territorio e alla “fine delle ingerenze straniere”. Nel nord della Siria continuano gli scontri tra le milizie filoturche e le forze a maggioranza curda, mentre i jihadisti sono ancora una minaccia. Afp


Poi, improvvisamente, il regime non c’era più. I siriani sono passati di colpo dalla rassegnazione e dalla routine della sopravvivenza allo shock e alla gioia. Un conto tra gli Assad e il popolo siriano era rimasto aperto da più di cinquant’anni. Ora che era stato chiuso, finalmente se ne potevano calcolare i costi, e la somma di quel dolore era tanto straziante quanto era travolgente il sollievo (anche se le persone sapevano che da quel libro contabile mancavano ancora delle pagine e che altre sofferenze sarebbero arrivate). È stata una catarsi, un esorcismo, uno scossone.

Lo stesso spirito

I pragmatici osservatori internazionali hanno subito suggerito cautela, sconsigliando la gioia, o addirittura la speranza. C’è da attendersi un futuro come quello dell’Iraq o della Libia, un ritorno del gruppo Stato islamico, il dominio straniero e tempi bui, dicono, mentre continuano a emergere le prove di quanto già fosse stato buio il passato.

Ma i siriani sono stati testimoni del loro passato e di quello della regione. E hanno riflettuto sul loro futuro – sul giorno dopo, in particolare – per almeno 14 anni. Non hanno bisogno di sentirsi dire che con la caduta di Assad non comincerà un’utopia, ma si aprirà un nuovo e complicato capitolo. Sanno che la loro vita è irrilevante per le potenze straniere che considerano il loro paese come un fantoccio; il sollievo per la potenziale uscita di scena di Iran e Russia ha lasciato rapidamente il posto alla preoccupazione che ora sia il turno di Turchia e Qatar, e al timore riguardo a Israele, che ha conquistato e occupato i territori vicini al confine e ha condotto centinaia di attacchi aerei, distruggendo le basi navali e aeree e altre installazioni militari del paese.

E i siriani hanno una certa familiarità con Hayat tahrir al Sham (Hts), il gruppo islamista che ora è al comando. Sanno come ha consolidato il potere e come ha governato Idlib, dove le persone sono insorte contro il suo uso della tortura e del carcere. Non hanno dimenticato che Ahmed al Sharaa, oggi capo della coalizione al governo, era Abu Mohammad al Jolani, leader di Hts. Molti siriani sanno com’è la vita sotto i jihadisti, e chiedono che anche loro siano chiamati a rispondere dei crimini commessi. Da quando il regime è caduto ho parlato con molti siriani determinati a non voler cedere il governo a Hts, ma che invece di rifiutarsi di lavorare con il gruppo hanno cercato di aprire un confronto. Inoltre, la società civile siriana non è rimasta ferma in questi lunghi anni. Le persone hanno documentato le atrocità pur essendo rifugiati che stavano costruendo le loro nuove vite in altri paesi, e hanno ottenuto alcuni risultati. Anche se sfollati, hanno contribuito a rispondere a molti dei bisogni essenziali dei loro connazionali dentro e fuori il paese, fornendo aiuti umanitari e servizi sanitari, perfino istruzione. Perché dovrebbero fermarsi ora che possono realizzare molto di più lavorando alla luce del sole e – in molti casi – tornando nel paese?

Già alcuni siriani hanno cominciato ad arrivare dall’estero. Alcuni erano in volo per la Siria appena pochi giorni o poche ore dopo che Assad era salito a bordo di un aereo per Mosca. Salutano la nuova fase con lo stesso spirito con cui affrontarono il 2011 (me compresa: quell’anno mi trasferii a Damasco). Ma è un momento dal sapore agrodolce. Avrebbero potuto vivere questa ricostruzione del paese anni fa, invece di soffrire la distruzione e le perdite inflitte dal tempo sprecato.

A Gaziantep Yusef mi ha raccontato che non si pente di aver imbracciato un’arma, anche se ora considera quel periodo come un tempo in cui “non aveva anima” e anche se ha perso i suoi arti. “Sono qui grazie a tutto questo”, ha detto, riferendosi al fatto di aver trovato uno scopo aiutando gli altri. “E questo è abbastanza per non avere rimpianti”.

È facile guardare a un passato oscuro e mettere in guardia sui pericoli di un futuro oscuro. Ma non dobbiamo fare l’errore di pensare che questa sia la visione del futuro. Cos’abbiamo imparato dalla Siria? Che non la capiamo e la condanniamo all’infelicità quando non ascoltiamo il suo popolo. ◆ fdl

Alia Malek è una giornalista e avvocata statunitense d’origine siriana. Ha scritto Il paese che era la nostra casa. Racconto della Siria (Enrico Damiani Editore 2018).

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Questo articolo è uscito sul numero 1602 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati