I primi soldati russi erano arrivati qualche giorno dopo la caduta di Buča, nel marzo del 2022. Cercavano uomini sopravvissuti. Anna, che è vedova, viveva con la madre e la figlia adolescente. “Non ci sono uomini qui”, aveva detto ai militari, in russo. Aveva raccomandato alla madre di non parlare, temendo che il suo dialetto dell’Ucraina occidentale l’avrebbe subito marchiata come una “banderista”, un peggiorativo usato dai russi per indicare i nazionalisti ucraini o persone da loro ritenute tali.
Anna aveva mostrato ai russi il certificato di morte del padre, da cui risultava che era nato nell’estremo oriente russo. “Quella è stata la nostra salvezza”, mi ha detto in seguito. Ascoltando il consiglio di una vicina, aveva cercato di sembrare cordiale. “Se non li lasci entrare sarà peggio”, l’aveva avvertita l’anziana.
In un primo momento ad Anna non era sembrato particolarmente rischioso il fatto di essere tre donne sole in casa. Alcuni dei suoi vicini nascondevano gli uomini in cantina, cosa ben più pericolosa. Nei primi giorni dell’occupazione Anna e sua figlia Maria si erano avventurate in città, dove avevano ricevuto aiuti umanitari e frugato nei negozi abbandonati in cerca di gelati ormai sciolti. Per strada avevano visto dei cadaveri di uomini mutilati.
La cordialità di Anna sembrava aver placato il primo gruppo di soldati: gli “orchi”, come molti ucraini chiamano i soldati russi. Dopo aver perquisito la casa, avevano dato a lei e alla figlia delle fasce bianche da indossare al braccio, per indicare che erano già state “filtrate” e non rappresentavano una minaccia per gli occupanti.
Solo quando il secondo gruppo di soldati ha fatto irruzione nel cortile, Anna si è resa conto che essere donne sole in quella città fantasma significava andare incontro a un altro tipo di rischio. Il capo del battaglione, un uomo alto, poco più che ventenne, l’ha colpita alla tempia con il calcio della pistola e preteso un rapporto orale. Ci ha provato anche con Maria, che allora aveva tredici anni. Anna racconta di aver ceduto alle sue minacce per proteggere la figlia, innescando così una catena di eventi che avrebbe portato le autorità ucraine a indagarla per collaborazionismo con l’occupante russo.
Accuse e incredulità
Ho incontrato Anna e Maria (sono nomi di fantasia, per proteggerle) l’estate scorsa nella loro casa a Buča, la città che per prima è diventata sinonimo degli orrori dell’invasione russa dell’Ucraina. Hanno parlato per ore. Le loro voci si accavallavano, ripetevano una storia raccontata già molte volte ma, a quanto pare, raramente a persone davvero disposte ad ascoltarle.
A quasi due anni dall’inizio della guerra, la loro storia è emblematica delle spaccature nella società ucraina. Da un lato c’è il calvario di Anna, conseguenza dello stigma che si portano dietro le vittime di violenza sessuale; dall’altro le profonde divisioni che hanno afflitto l’Ucraina per anni e che la guerra ha contribuito a inasprire.
Man mano che i sopravvissuti delle città liberate hanno rivelato nuove prove delle atrocità russe, una parte del paese ha cominciato a chiedere a gran voce giustizia e ha sviluppato un desiderio di vendetta contro chi è sospettato di aver aiutato gli occupanti. Il primo è stato il presidente Volodymyr Zelenskyj, che pochi giorni dopo l’inizio dell’invasione ha firmato una legge durissima contro i collaborazionisti.
A Buča i vicini di Anna hanno giudicato in modo sommario le sue scelte durante l’occupazione e hanno finito per isolarla, bollandola come traditrice. Ma i suoi rapporti con i soldati russi hanno rappresentato un problema anche per le forze dell’ordine ucraine, che si erano impegnate a non lasciare impunito nessun crimine legato al conflitto. Gli investigatori locali e internazionali hanno aperto centinaia di indagini contro i soldati russi per le atrocità commesse in guerra, tra cui la violenza sessuale. Parallelamente le autorità locali hanno messo sotto inchiesta per collaborazionismo migliaia di cittadini ucraini.
Anna, allo stesso tempo vittima e sospettata di collaborazionismo, è rimasta intrappolata tra opposte richieste di giustizia, e ha dovuto affrontare dei vicini e un apparato di polizia incapaci di capire queste contraddizioni.
“All’inizio nessuno credeva che i russi fossero capaci di cose simili”, mi spiega Kateryna Ilikčijeva, l’avvocata di Anna, riferendosi all’aggressione sessuale descritta dalla sua cliente. “Per questo molti pensano che chi viveva nei territori occupati, anche se non proprio un collaborazionista, fosse comunque in rapporti abbastanza amichevoli con i russi. La maggior parte della gente non sa cosa sia esattamente il collaborazionismo, quindi crede che qualsiasi contatto con il nemico sia un segno di complicità”.
La legge approvata nel 2022 ha rafforzato questa convinzione: le norme non vietano specificamente i rapporti con i russi, ma vietano agli ucraini di condividere con i nemici del paese informazioni che possano avere “gravi conseguenze”. In pratica qualsiasi contatto con i russi alimenta sospetti. “Per molti anche fare sesso con i soldati russi è una forma di collaborazionismo”, afferma Alena Lunova, del centro ucraino per i diritti umani Zmina.
Nel caso di Anna è bastato il semplice sospetto a dare il via a interrogatori incessanti con diversi corpi delle forze dell’ordine e fino a vedere respinte, per mesi, le sue denunce di abusi. Probabilmente il caso di Anna non è isolato: gli attivisti per i diritti umani raccontano che alcune donne stuprate dai soldati russi non parlano perché temono di essere etichettate come collaborazioniste e magari anche indagate. In questo senso la storia di Anna è emblematica.
Paša Giraffa
La famiglia di Anna era al centro di pettegolezzi a Buča già prima dell’invasione russa del febbraio 2022. I vicini avevano sparlato per anni sulla sua presunta dedizione all’alcol e sulla sua promiscuità. Giravano perfino voci su Maria, che dopo la pandemia aveva smesso di andare a scuola. Le due donne vivevano con la madre di Anna, settantaquattrenne, in una casa poco curata e circondata da un grande cortile ricoperto di erbacce, ai margini della città e della società, senza preoccuparsi molto di quello che la gente diceva di loro. Anna, con i suoi capelli blu e i suoi gioielli stravaganti, dimostra più dei suoi 41 anni, eppure potrebbe sembrare la sorella di Maria, che si tinge i capelli color rosso fuoco e si trucca in modo vistoso.
A differenza della maggior parte dei residenti di Buča, che di fronte all’avanzata dei russi avevano lasciato la città, Anna e la sua famiglia erano rimaste. Sua madre, quasi sempre costretta a letto, non voleva abbandonare la casa. Inoltre avevano pochi soldi e nessun posto dove andare. Avevano seguito in tv le notizie dell’incursione fino a quando era saltata la corrente e il cielo si era riempito di fumo.
Quando il primo gruppo di soldati aveva bussato alla porta, Maria aveva notato che molti sembravano appena più grandi di lei. Si era sforzata di apparire amichevole, pensando che fosse più sicuro comportarsi così.
Il terrore era cominciato a metà marzo, quando il capo del secondo gruppo di soldati, chiamato dai suoi uomini Paša Giraffa, a causa dell’altezza, aveva detto ad Anna che prima o poi qualcuno avrebbe avuto quello che voleva da Maria, tanto valeva non aspettare. C’erano voluti tre mesi per arrivare in Ucraina, aveva detto un altro soldato: sentivano la mancanza delle donne e “avevano bisogno di relax”. Anna supplicava i soldati di risparmiare Maria, che era ancora una bambina; gli diceva che sapeva che erano brave persone. Alla fine aveva accettato di andare a letto con loro per evitare che toccassero Maria. “Mi sono accollata tutto il peso”, mi ha detto.
Dopo quella volta, diversi gruppi di soldati avevano cominciato ad andare a casa di Anna più volte al giorno. Si annunciavano sparando colpi in aria, stazionavano intorno a un falò nel cortile, vantandosi delle persone che avevano ucciso. A volte raccontavano barzellette e chiedevano ad Anna e Maria di cantare con loro. Altre volte erano più minacciosi: Paša Giraffa tirava fuori il fucile quando parlava, per ricordargli chi comandava. Alcuni dei soldati erano convinti che Anna e sua figlia fossero spie dell’esercito ucraino: una volta hanno bruciato alcune bambole di Maria perché credevano che contenessero un dispositivo di registrazione. I soldati erano imprevedibili e “perversi”, hanno raccontato madre e figlia. Erano sempre ubriachi e quasi tutti andavano da loro per avere rapporti sessuali.
Anna non voleva che la madre sapesse cosa stava succedendo, quindi non li ha mai fatti entrare in casa. Faceva in modo che entrassero uno alla volta in un garage sul retro del cortile, “come se fossero in fila per il bagno”. A volte c’erano fino a dieci uomini al giorno, ricorda. Nell’arco di due settimane erano stati tra i trenta e i cinquanta.
Nell’attesa gli altri soldati si intrattenevano nel cortile con Maria. Le mettevano le braccia intorno alla vita, a volte le toccavano le gambe, ma mai niente di più, dice la ragazza, che attribuisce il merito di tutto questo alla madre ma anche alla sua astuzia. “Avevo imparato a stare tra loro”, racconta. “Ci comportavamo bene, cercando di non essere scortesi. Facevamo il loro gioco, dicevamo che Zelenskyj è un idiota, che Putin è un genio, che li consideravamo dei liberatori…”. Anna crede che quasi tutti quei soldati siano già morti, ma dice anche che se potesse ucciderebbe Paša Giraffa con le sue mani. Aveva imparato i loro soprannomi: c’erano Il sergente, Shamil, Cucciolo e Monarca, che verso la fine dell’occupazione era psicologicamente crollato e si era scusato con Anna. Non sapeva perché fossero venuti a Buča, le aveva detto, né perché avessero fatto quello che avevano fatto.
Aver fatto conoscenza con quei soldati le sarebbe tornato utile, mesi dopo, quando è stata convocata per identificare gli autori di crimini di guerra.
Durante l’occupazione di Buča, durata un mese, i soldati russi hanno ucciso almeno 501 persone, in base a quanto riporta una lapide commemorativa eretta di recente che però – secondo le autorità – è incompleta. Quando la città è stata liberata, ai primi di aprile 2022, al loro ritorno gli abitanti hanno trovato decine di cadaveri in fosse comuni. In una buca poco profonda nel quartiere di Anna c’era un cumulo di corpi parzialmente bruciati. Altri giacevano per strada, alcuni con le mani legate dietro la schiena e con evidenti segni di tortura.
Non lontano dalla casa di Anna, nella periferia della città, sono stati trovati i cadaveri di tre fratelli , di cui almeno uno era stato un poliziotto. C’era anche una donna, un’insegnante di lingua ucraina, che i vicini ritengono sia stata uccisa insieme al marito e al figlio per essersi rifiutata di parlare in russo agli occupanti. Alcune persone che erano fuggite hanno ritrovato la casa saccheggiata e bruciata. Altre case erano intatte.
Ira, che vive in fondo alla strada di Anna, è tra le persone che sono tornate a Buča dopo il passaggio dei russi. Un giornalista dell’Associated Press l’ha fotografata nel suo cortile con il suo gatto in braccio, vicino ai cadaveri del marito e di due suoi parenti abbandonati a terra.
Diversi gruppi di soldati avevano cominciato ad andare a casa di Anna più volte al giorno. Si annunciavano sparando colpi in aria
Ira ricorda di aver visto Anna e Maria quel giorno. Come altri abitanti, aveva sentito dire che le due avevano partecipato ai saccheggi nelle case abbandonate. Sui social network erano circolati foto e video sfocati, alcuni girati di nascosto attraverso le fessure delle finestre dei vicini. In una foto Anna trasporta su una carriola un pianoforte. In un’altra è in piedi accanto a un uomo, anche lui accusato di saccheggio, che dopo l’invasione si è ucciso per la vergogna, racconta Ira. In un’altra foto Anna sembra sorridere.
È il sorriso a dare più fastidio a Ira. Il giorno in cui è tornata a Buča, ha fotografato Maria e Anna: la figlia sembrava felice, la madre aveva un’aria più sommessa. Ira ha detto che l’avevano salutata dalla strada facendo il segno della vittoria. “Eravamo così felici di vedere degli esseri umani”, mi ha detto Maria.
Ma per la donna e altri il fatto che Anna e Maria fossero ancora vive, apparentemente di buon umore e che la loro casa fosse quasi intatta, sono prove indiscutibili del loro tradimento: “Loro sorridevano mentre nel mio cortile c’erano dei cadaveri. Una vittima si comporterebbe così?”, dice Ira.
Le voci su Anna si sono fatte più insistenti man mano che gli abitanti tornavano in città. Sui social media la chiamavano “puttana”; alcuni chiedevano il suo indirizzo e minacciavano di ucciderla. Altri affermavano che era stata “incaricata” dei saccheggi, un reato che è stato equiparato alle azioni dei soldati occupanti. L’hanno anche denunciata alla polizia.
Ma non è tutto. Diversi dipendenti comunali rimasti in città durante l’occupazione e picchiati dai soldati l’hanno accusata di essere salita su un blindato con i russi e di averli condotti da loro. I vicini hanno ipotizzato che due anziani, i cui corpi sono stati trovati tra altri cadaveri non lontano dalla casa di Anna, siano stati uccisi perché l’avevano rimproverata mentre stava saccheggiando degli appartamenti. Alcuni si sono chiesti come i soldati russi abbiano rintracciato gli agenti di polizia, gli ex militari e i leader della comunità che poi sono stati uccisi. “Qualcuno li ha informati”, sostiene Ira. “Forse è stata Anna”.
Mentre parlavo con Ira, un’anziana si è fermata ad ascoltare ed è intervenuta dicendo che la fascia bianca che i soldati avevano dato ad Anna era un segno di riconoscimento, segnalava che “era dei loro”. Un’altra vicina, Svetlana, ha sottolineato con disprezzo che Anna aveva cominciato a indossare orecchini con la bandiera ucraina dopo che la città era stata liberata: “Si è fatta una nuova immagine dopo l’occupazione”. A chi la insultava, Anna rispondeva che i russi sarebbero tornati. Suo padre era russo, ha sottolineato Svetlana. “È nel suo dna”.
Poi c’era la questione del sesso con i soldati. I vicini sostenevano che ad Anna fosse piaciuto. Mi hanno raccontato di voci secondo cui lei avrebbe bevuto con i soldati, ballato con loro e perfino sparato con le loro armi.
Anna non nega di aver preso il pianoforte, che sostiene di aver trovato per strada e portato a casa con l’aiuto di altri vicini dopo la partenza dei russi. Dice che molte persone rimaste a Buča hanno fatto lo stesso, pensando che quelli che se n’erano andati non sarebbero tornati. Ma sostiene di non aver mai dato ai soldati informazioni sui vicini né sparato con i loro fucili. Ride quando le riferisco che, secondo i vicini, sarebbe salita su un blindato russo. Afferma di aver parlato apertamente con i vicini dei suoi rapporti sessuali con i soldati e di aver spiegato che lo aveva fatto solo per proteggere la figlia.
Ira non le crede. Mi fa notare che molte altre donne di Buča violentate dai soldati poi sono state uccise; e mi racconta il caso di una donna uscita viva da una cantina dopo l’occupazione: era in condizioni così terribili da non poter nemmeno parlare degli abusi a cui era sopravvissuta. “È questo che succede alle donne che subiscono violenza. Non stanno certo a sorridere”, dice prima di aggiungere: “O Anna è un’attrice molto brava o ha un disturbo mentale. Ma non è stata stuprata”.
Mentre i vicini di Anna diffondevano queste voci, le autorità ucraine hanno cominciato a indagare su di lei. Per settimane i rappresentanti delle forze dell’ordine sono andati a casa sua. Ogni volta Anna coglieva l’occasione per denunciare gli abusi subiti dai soldati, chiedendo ripetutamente che la sottoponessero alla macchina della verità per dimostrare che non stava mentendo. Nessuno le credeva, dice, perché non era bella e aveva i vestiti sporchi. “Per loro, se sei sopravvissuta all’occupazione, sei per forza una collaborazionista. Le persone che non hanno vissuto l’occupazione non possono capire com’era la situazione realmente”.
I nostri orchi
I soldati ucraini sono stati i primi a bussare alla sua porta, in cerca delle armi che i russi potevano aver lasciato. In seguito altri funzionari che andavano da lei non spiegavano mai cosa stessero cercando, e Anna non sapeva a quale corpo o agenzia appartenessero. Le foto che Maria ha scattato con il suo telefono mostrano che alcuni erano del dipartimento di indagini strategiche, un’unità speciale della polizia ucraina.
Le ha fatto visita anche un investigatore dell’ufficio del pubblico ministero locale. Anna non sa come avesse saputo del suo calvario, ma ha detto che l’ufficiale, Roman Pshyk, è sembrato l’unico a prendere sul serio i suoi racconti. Pshyk l’ha accompagnata a sottoporsi a una visita ginecologica, poco dopo la liberazione della città. Lì Anna ha notato con orrore la presenza di molte donne anziane. Nella sala d’attesa ha capito che con il suo comportamento aveva protetto non solo Maria, ma anche sua madre.
La violenza sessuale spesso non viene denunciata. Nelle zone di guerra la stigmatizzazione delle vittime può essere molto dura
Nel frattempo la polizia locale aveva trovato delle bombolette di vernice spray nel suo garage, sostenendo che erano state usate dai russi per contrassegnare le case dei collaborazionisti. Altri agenti avevano setacciato ogni stanza, frugando nei cassetti e chiedendo gli scontrini dei singoli oggetti presenti in casa, per capire se erano stati rubati.
Alcuni agenti sono stati molto bruschi. Nel giugno 2022 hanno requisito i telefoni di Anna e Maria, senza dare spiegazioni. Quando Maria si è ribellata, urlando e tentando di filmarli, le hanno strappato il telefono di mano, l’hanno spintonata e ammanettata.
“Si sono comportati come gli orchi”, dice Anna. “I nostri orchi”.
La violenza sessuale spesso non viene denunciata. È così praticamente ovunque, ma nelle zone di guerra la stigmatizzazione delle vittime può essere particolarmente dura. Quando le forze ucraine hanno ripreso il controllo dei territori occupati, sono emerse notizie delle numerose violenze sessuali commesse dalle truppe russe. Il vero bilancio potrebbe restare indefinito, in particolare nelle aree del paese ancora sotto occupazione. Tuttavia, anche nelle zone liberate, gli attivisti avvertono che la paura e i tabù legati alla violenza sessuale rendono praticamente impossibile valutare la portata degli abusi. Spesso – dicono – i pregiudizi e gli errori delle forze dell’ordine non fanno che aggravare il problema.
“Ci si vergogna a denunciare una violenza sessuale, e spesso chi lo fa è giudicato dalla società più come un colpevole che come una vittima”, afferma il giurista Gjunduz Mamedov, viceprocuratore generale dell’Ucraina fino al 2021 e tra i pochi a criticare apertamente la legge contro il collaborazionismo. Il sospetto con cui sono trattate le vittime di violenza sessuale, ha affermato, equivale a “una doppia violenza”.
Dopo sette mesi di guerra, nel settembre 2022 il procuratore generale dell’Ucraina ha aperto un ufficio all’interno della divisione crimini di guerra per indagare e perseguire le violenze sessuali commesse durante il conflitto. In questo modo è stata riconosciuta formalmente la sistematicità degli abusi e di fatto si è ammesso che le autorità ucraine non erano riuscite a sostenere adeguatamente le persone sopravvissute alle violenze.
È stato più o meno in quel periodo che i rapporti di Anna con le autorità hanno avuto una svolta. “Hanno cominciato a considerare i racconti sulla violenza sessuale con più tatto, a lavorarci seriamente”, racconta Ilikčijeva, l’avvocata di Anna. Sul finire dell’estate 2022 due agenti dei servizi segreti ucraini, l’Sbu, sono andati a casa di Anna e le hanno consegnato un documento che riconosceva il suo status di vittima. Nei mesi successivi le hanno fatto altre domande sui suoi contatti con i soldati e, a novembre, l’hanno sottoposta alla macchina della verità, come lei chiedeva da mesi.
Anna mi ha raccontato che il colloquio con gli agenti è durato due ore e che le hanno fatto domande di ogni tipo: era stata stuprata? Da quante persone? E i saccheggi? Aveva collaborato con i servizi di sicurezza russi o ucciso qualcuno? Sembrava stessero indagando tanto i crimini di guerra russi quanto le azioni di Anna. Gli agenti l’hanno avvertita che rischiava la prigione se avesse mentito. Lei ha risposto a tutte le domande. In seguito l’hanno accompagnata a casa e pochi giorni dopo un funzionario l’ha chiamata per comunicarle che aveva superato il test.
Era evidente che gli agenti stavano indagando su Anna per collaborazionismo. Nonostante finora non siano state mosse accuse formali contro di lei, i suoi vicini a Buča non hanno dubbi sulla sua colpevolezza.
Iryna Didenko, la procuratrice che si occupa degli stupri di guerra presso l’ufficio del procuratore generale dell’Ucraina, in un’intervista ha riconosciuto che nei primi mesi dopo l’invasione sono stati commessi “errori enormi” e che gli agenti delle forze dell’ordine non erano preparati a trattare con le vittime. Ha fatto notare che spesso gli investigatori non avevano mantenuto confidenziali le informazioni ottenute, ma che, anzi, le avevano diffuse. Appena nominata, Didenko ha preso in carico vari casi di violenza sessuale e ha cambiato il funzionamento delle indagini e dei colloqui con le vittime. Oggi in ogni squadra deve esserci una donna e gli investigatori sono stati addestrati a parlare con i testimoni e con le vittime in modo più empatico. Didenko ha lanciato programmi pilota a Cherson e Charkiv, città liberate nel 2022. I dipendenti degli enti statali coinvolti sono stati addestrati da esperti internazionali su come affrontare le violenze sessuali legate al conflitto.
Cambiare la cultura delle forze dell’ordine, ammette Didenko, richiederà tempo ed è necessaria una maggiore sensibilizzazione pubblica sul tema della violenza sessuale. Poi cita un sondaggio pubblicato nel maggio 2023 dall’Usaid (l’agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale) secondo cui la maggior parte delle persone sopravvissute alla violenza sessuale “affronta costantemente atteggiamenti di pregiudizio nella società ucraina”. Tutto questo non incoraggia certo chi l’ha subita a chiedere aiuto. “Ancora oggi c’è chi sostiene che una vittima di stupro potrebbe essere stata consenziente”, dice Didenko. “Ma stiamo assistendo a dei cambiamenti importanti”.
La legge non considera che in guerra la situazione è estremamente complessa e le persone fanno di tutto per sopravvivere
La procuratrice non vuole commentare il caso di Anna, facendo appello al segreto d’ufficio, ma Anna mi ha raccontato che Didenko è andata a trovarla all’inizio del 2023 ed è rimasta sconvolta quando ha saputo come era stata trattata dagli investigatori. Una settimana dopo le sono stati restituiti i telefoni, che Anna aveva cercato di recuperare dalla polizia per quasi nove mesi.
Alla fine del 2022 l’ufficio di Didenko aveva aperto più di 220 indagini su casi di violenza sessuale e aveva formalizzato 62 denunce contro i soldati russi. La procuratrice sa bene che probabilmente ci sono molti altri casi ignoti al suo ufficio, a causa dello stigma associato allo stupro e per la paura che, in alcune aree liberate, i russi possano tornare. All’inizio dell’estate 2023 il procuratore generale ucraino Andrij Kostin ha introdotto un nuovo piano per rafforzare la protezione delle vittime di stupri di guerra.
Una società divisa
Le prime richieste di una legge per punire i collaborazionisti erano arrivate sulla scia del conflitto nel Donbass del 2014, durante il quale i separatisti sostenuti dalla Russia hanno occupato vaste aree dell’est dell’Ucraina. Quel conflitto è stato il precursore della guerra in corso. La Russia ha annesso illegalmente quei territori dopo l’invasione del febbraio 2022.
Vitalij Ovčarenko, un noto blogger ucraino della regione di Donetsk che poi si è arruolato nell’esercito, nel 2017 aveva contribuito a scrivere una legge che prevedeva sanzioni come il divieto di ricoprire cariche pubbliche per i funzionari e gli amministratori che avevano sostenuto i separatisti. Il blogger racconta che in quel periodo nelle città rimaste sotto il controllo ucraino varie persone che avevano collaborato con i separatisti filorussi, e che si erano rese responsabili di violenze o di omicidi, erano ancora a piede libero. Non era raro che chi aveva subìto violenze si imbattesse nel suo torturatore al supermercato. “La giustizia non funzionava e non importava a nessuno. Nessuno se ne assumeva la responsabilità e nessuno sapeva come portare i collaboratori davanti alla giustizia”, dice Ovčarenko.
Quella proposta di legge era stata presentata in parlamento nel 2018, senza però essere messa al voto. Ovčarenko e altri attivisti locali pensavano che la leadership ucraina non fosse interessata a colpire il collaborazionismo. Mi racconta che all’epoca i difensori dei diritti umani di Kiev, che dista 800 chilometri da Donetsk, lo accusavano di essere un veterano traumatizzato in cerca di vendetta e affermavano che la proposta conteneva misure violente e repressive. “Mi dicevano: ‘La nostra società non ha bisogno di queste tensioni’. Io rispondevo: ‘Se usciste da Kiev e tornaste con i piedi per terra, vedreste che queste tensioni ci sono già’. Quando la popolazione sente che le autorità non fanno niente, allora comincia a farsi giustizia da sé. Questo vuol dire pneumatici squarciati, finestre rotte, bombe molotov e altra violenza”, afferma Ovčarenko.
Negli anni successivi diversi partiti, tra cui quello del presidente Zelenskyj, hanno presentato in parlamento provvedimenti simili, che però non sono mai stati messi ai voti, in parte perché i legislatori ucraini temevano che una legge sul collaborazionismo avrebbe aperto nuove fratture nella società. Inoltre non era chiaro in che modo una simile legge si sarebbe armonizzata con quelle già esistenti, inclusa la legge sul tradimento.
Poi è arrivata l’invasione russa e la proposta di Zelenskyj è stata approvata in tutta fretta. I consulenti legali che ci avevano lavorato hanno osservato che l’approvazione è arrivata in tempi eccezionalmente stretti e “in circostanze straordinarie”. Il risultato, sostengono le voci critiche, è una “cattiva legge”, i cui contorni troppo vaghi consentono di considerare punibile una gamma di comportamenti molto più ampia di quanto previsto in origine. In alcune parti del paese in teoria potrebbe essere applicata a decine di migliaia di persone.
Il provvedimento vieta qualsiasi partecipazione ad attività politiche, giudiziarie e di polizia compiute dalle autorità d’occupazione, proibisce il trasferimento di risorse a tali autorità e punisce ogni azione che possa causare la “morte di persone o altre conseguenze gravi”. Vieta la propaganda russa nelle istituzioni educative e colpisce “chi nega in pubblico l’aggressione armata contro l’Ucraina”. Le sanzioni vanno dal divieto di occupare impieghi pubblici alla confisca dei beni, per finire con pene detentive fino a quindici anni.
Mentre i suoi sostenitori affermano che serve soprattutto come deterrente, la legge non tiene in considerazione che in guerra la situazione è estremamente complessa e le persone fanno di tutto per sopravvivere. La legge può essere applicata contro cittadini ucraini che forniscono alle forze russe informazioni su obiettivi militari o civili, per esempio l’uomo che a giugno ha dato ai russi le indicazioni per il bombardamento di un bar nella città di Kramatorsk, in cui sono morte tredici persone. Ma è stata anche usata contro funzionari locali rimasti al loro posto sotto l’occupazione, insegnanti che hanno continuato a lavorare nelle aree occupate e semplici cittadini che hanno venduto qualcosa ai soldati russi o hanno espresso opinioni, anche sui social media, considerate favorevoli all’invasione.
Alcune organizzazioni della società civile e alcuni funzionari pubblici hanno chiesto al governo di modificare la legge e di applicarla in modo più “selettivo”. Tamila Taševa, rappresentante permanente del governo per la Crimea occupata, ha chiesto di trattare con particolare cautela i casi degli ucraini che hanno vissuto per anni sotto l’occupazione russa.
Ma finora i parlamentari si sono rifiutati di modificare il provvedimento: sono pochi i politici disposti a sembrare troppo teneri con chi, nell’immaginario popolare, è considerato un traditore. “Il governo è abbastanza consapevole di quello che sta succedendo. Il problema è spiegare alla società perché questa legge va cambiata”, ha detto Alena Lunova, dell’ong Zmina.
Questo fenomeno non è evidentemente solo ucraino. “Ogni guerra ha i suoi collaborazionisti e ogni guerra trova una risposta spesso brutale nei loro confronti”, afferma Shane Darcy, vicedirettore del Centro irlandese per i diritti umani presso l’università nazionale di Galway. Secondo Darcy i modelli per affrontarlo sono pochi. Perfino il diritto internazionale umanitario – che regola la condotta nei conflitti armati – ha “un punto cieco” sul collaborazionismo.
Il diritto internazionale parte dal principio che sotto un’occupazione la vita debba continuare nel modo più normale possibile ed esige che le forze occupanti continuino a fornire i servizi amministrativi ai civili, permettendo l’assunzione degli ex dipendenti pubblici per mantenere il funzionamento delle istituzioni, purché senza coercizioni. “Ovviamente, nella circostanza dell’occupazione è molto difficile tracciare una linea di confine tra ciò che è una coercizione e ciò che non lo è”, afferma Darcy. Allo stesso tempo la legge permette agli stati di punire chi ha collaborato con il nemico, purché nel rispetto dei diritti umani. “L’Ucraina quanto meno sembra condurre dei processi leciti. Non stanno impiccando i collaborazionisti ai lampioni”, aggiunge.
Il sistema giudiziario ucraino è alle prese con circa ottantamila presunti crimini commessi dalle forze russe. Chi contesta la legge contro il collaborazionismo sostiene che, nella migliore delle ipotesi, questa strada non è praticabile perché mette a dura prova un sistema già sovraccarico. “Capiamo la situazione, ma bisognerebbe concentrarsi su chi ha commesso reati realmente rilevanti, crimini contro la sicurezza dello stato, azioni che hanno davvero avuto serie conseguenze”, dice Alena Lunova. “Non si dovrebbero incriminare le persone per un like su Facebook”.
Nadia Volkova, avvocata specializzata in diritti umani e direttrice del Gruppo di consulenza legale ucraino, che dopo il conflitto del 2014 ha contribuito alla stesura di un piano di giustizia transitoria, mai attuato, sostiene che i processi di massa contro i collaborazionisti che non si sono macchiati di reati gravi rischiano di causare danni a lungo termine. Le divisioni esistevano da tempo in Ucraina e si sono accentuate con l’invasione del 2022. “Stanno manipolando queste differenze che sono sempre esistite, perché in un certo senso l’Ucraina non è mai stata una nazione unita” , dice. “Stanno mettendo le persone le une contro le altre. Ma se vogliono unificare il paese, questa non è la strada giusta”.
Vicini e traditori
Man mano che le forze ucraine si riappropriano dei territori caduti sotto il controllo russo, le accuse di collaborazionismo si moltiplicano ovunque nel paese. I vecchi contrasti possono riaccendersi alla luce del conflitto attuale.
“Talvolta si tratta di casi reali, con documenti reali, prove reali”, mi racconta Leonid Merzlyj, il presidente del tribunale della città di Irpin, la cui giurisdizione comprende Buča, quando visito la sua aula. “In altri casi si tratta di dissidi tra vicini”. Merzlyj è consapevole delle sfumature. “Se una persona non ha lasciato un’area occupata, noi dobbiamo sapere perché lo ha fatto. E se qualcuno ha ricevuto visite di soldati russi a casa propria, dobbiamo sapere perché. Dobbiamo analizzare ogni caso. È davvero fondamentale per la società ucraina”.
Mentre alcuni ucraini in aree occupate “supportavano i nemici già in precedenza, ed era evidente”, continua, altri possono averlo fatto “per difendere i figli, seguendo il normale istinto di protezione. In questo caso è difficile giudicare”.
Anatolij Fedoruk, sindaco di Buča da 24 anni, nota che ci sono state poche accuse di collaborazionismo rispetto ad altre zone che sono state occupate per periodi più lunghi, ma riconosce che le ostilità di lunga data tra vicini sono state esacerbate dal conflitto. “Spesso, persone che vivono nella stessa strada o perfino nella stessa famiglia sono pronte a sbranarsi a vicenda”, racconta. “Siamo un paese civile e non dobbiamo affidarci alle congetture: ci devono essere prove, non voci”.
Quando ci siamo incontrati, Fedoruk ha detto di non conoscere bene il caso di Anna e di non poter commentare l’indagine in corso. Il giorno dopo comunque una squadra di operai municipali è andata a casa di Anna per ispezionare il tetto. Era stato danneggiato dai bombardamenti e da mesi lei chiedeva al comune di ripararlo (non l’hanno ancora messo a posto, mi ha detto poco tempo fa).
Il caso di Anna e Maria è in fase preprocessuale. Entrambe negli ultimi mesi sono andate a Kiev per identificare i soldati tra centinaia di foto che le autorità hanno tratto dai social media russi. Durante uno di questi incontri un alto funzionario del dipartimento di investigazioni strategiche, che aveva ripetutamente fatto visita ad Anna e che era in servizio quando la polizia aveva ammanettato Maria, è rimasto in piedi a un lato della stanza, con l’aria scettica. “Non le crede”, afferma l’avvocata Ilikčijeva.
E non è l’unico. Ira e altri vicini hanno parlato con degli agenti che sono concordi nel ritenere Anna una bugiarda che sta facendo la parte della vittima. “Lo sanno tutti”, dice la donna, “ma non possono farci niente”.
Ad Anna non importa se sarà incriminata per saccheggio o per collaborazionismo. In ogni caso lei ora a Buča è già una reietta.
Lo scorso inverno qualcuno ha danneggiato il recinto della sua casa. Mi ha raccontato che alla vigilia di Natale, mentre lei e Maria erano fuori, due giovani del vicinato le hanno sfasciato le finestre con delle mazze da baseball, rubato un televisore e picchiato sua madre.
Dopo aver denunciato il fatto alla polizia uno dei due uomini è tornato ad aggiustare il recinto e ha portato un televisore dicendo ad Anna di non aver toccato la madre.
A gennaio lui e l’altro giovane hanno attaccato Maria mentre tornava a casa, minacciandola con un coltello. Anna ha di nuovo sporto denuncia alla polizia ma, dice, non hanno fatto niente.
Ormai Anna è arrabbiata con i suoi vicini e con i funzionari ucraini che l’hanno maltrattata, proprio come odia i soldati russi che hanno abusato di lei. “Il peggio”, ha detto, “non erano gli orchi”. ◆ ab
◆ Il 24 febbraio 2022, dopo mesi di mobilitazione militare e dopo aver unilateralmente riconosciuto le repubbliche separatiste del Donbass, la Russia dà il via all’invasione dell’Ucraina.
◆ Nel corso dell’offensiva verso Kiev le truppe russe assediano la città di Buča, che viene conquistata il 27 febbraio e poi liberata dagli ucraini il 31 marzo. Secondo alcune inchieste indipendenti i civili uccisi dai russi sono più di 500.
◆ Dopo la conquista di Bachmut (agosto 2022-maggio 2023) e Soledar (gennaio 2023), e dopo lo stallo della controffensiva ucraina cominciata nel giugno del 2023, da novembre l’esercito di Mosca circonda Avdiivka, una città industriale del fronte orientale contesa per la sua posizione strategica. Gli abitanti sono scesi da trentamila prima della guerra a poche centinaia nelle ultime settimane. Ap, Le Monde
Alice Speri è una giornalista che si occupa di immigrazione, giustizia e diritti civili per The Intercept, per cui ha scritto inchieste da Ucraina, Palestina, Haiti, El Salvador, Colombia. Vive a New York.
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Questo articolo è uscito sul numero 1541 di Internazionale, a pagina 64. Compra questo numero | Abbonati