All’interno del museo dell’Ara pacis, un altare di marmo che celebra la pace e la prosperità del regno quarantennale di Augusto, primo imperatore di Roma, un gruppo di importanti persone d’affari rifletteva sullo stato attuale dell’Italia. Imprenditori e dirigenti, vicini a un nuovo movimento civico chiamato Io cambio, sottolineavano le conseguenze della cronica instabilità politica italiana sulle prospettive e la credibilità internazionale del paese.
All’incontro e durante l’aperitivo sulla terrazza del museo, tra calici di prosecco, formaggio e olive, hanno individuato quello che secondo loro era il problema: la costituzione italiana, che è stata scritta dopo la seconda guerra mondiale e dopo la fine della dittatura fascista di Benito Mussolini. Bisognava cambiarla per dare all’Italia governi forti e capaci di affrontare i problemi economici e sociali. “Speriamo in una riforma delle istituzioni, quindi in una nuova forma di governo”, ha detto al gruppo Nicola Drago, che rappresenta la quarta generazione di una famiglia di industriali ed è tra i fondatori di Io cambio. “La cosa più importante è che ci siano governi stabili ed efficienti che possano svolgere il loro compito”. In questi giorni anche la presidente del consiglio Giorgia Meloni sottolinea spesso che il sistema politico dell’Italia del dopoguerra – famoso per il susseguirsi di coalizioni durate poco e per gli intrighi di palazzo – non è più adatto a tutelare i cittadini.
Sessantotto governi
In quella che diventerà presumibilmente una delle più importanti battaglie della sua carriera politica, Meloni ha presentato una discussa riforma costituzionale che ha definito “la madre di tutte le riforme” e che secondo lei garantirà la stabilità politica. Per riuscire a farla approvare in parlamento, avrà bisogno del sostegno di cittadini influenti come gli imprenditori di Io cambio. Al centro della proposta c’è la possibilità di eleggere direttamente il primo ministro per un mandato quinquennale, rendendo l’incarico meno vulnerabile alle strategie parlamentari che in passato hanno provocato la fine anticipata di diversi governi.
Meloni sostiene che la nascita del premierato metterebbe fine ai continui avvicendamenti a palazzo Chigi, sede del governo. Dal 1946 l’Italia ha avuto 68 governi e la maggior parte ha superato di poco l’anno di vita. Secondo Meloni restare in carica più a lungo darebbe ai leader la forza per affrontare le sfide politiche del paese: l’enorme debito pubblico, la crescita economica lenta, la crisi demografica. “Vogliamo approfittare della stabilità di questo governo per fare una riforma che permetta agli italiani di scegliere direttamente chi li governa, e a chi li deve governare di avere cinque anni per realizzare il suo programma”, ha detto Meloni l’anno scorso in un video sui social network.
Tuttavia i cambiamenti proposti per rafforzare la continuità e la responsabilità democratica limiterebbero la capacità del presidente della repubblica di proteggere le istituzioni dalle spinte populiste o di ripristinare la stabilità e la fiducia dei mercati, cosa che è successa varie volte in momenti di crisi. Con le nuove regole il presidente della repubblica, scelto dai parlamentari e da altri rappresentanti dei cittadini in un processo complicato e simile a quello di un conclave papale, non avrebbe più il potere di nominare una figura autorevole alla guida del governo nelle fasi di difficoltà, come ha fatto Sergio Mattarella nel 2021 con Mario Draghi, ex presidente della Banca centrale europea, nel momento più drammatico della pandemia di covid-19.
Le prerogative presidenziali sono usate soprattutto in contesti di estrema incertezza politica. La loro erosione è una prospettiva inquietante per alcuni italiani, che in passato hanno ampiamente sostenuto gli interventi del capo dello stato. Si tratta di interventi che hanno aiutato il paese a ritrovare la rotta con dei governi tecnici. “Le riforme non toccheranno gli articoli della costituzione che riguardano i poteri del presidente della repubblica, ma li svuoteranno”, sottolinea l’ex presidente della corte costituzionale Marta Cartabia, ministra della giustizia nel governo Draghi. “In questo modo verrebbe ridimensionata una figura che ha rappresentato una delle istituzioni di maggior successo, e si è dimostrata molto utile per stabilizzare il paese”. Per far passare la sua proposta, già appoggiata dal governo e in discussione in una commissione del senato, Meloni dovrà superare la sfida più difficile da quando nel 1992, da adolescente, cominciò a fare politica nel Movimento sociale italiano.
Anche se la coalizione di destra può contare su una solida maggioranza parlamentare, le riforme costituzionali devono essere approvate dalla maggioranza assoluta dei componenti di entrambi i rami del parlamento o dalla maggioranza degli elettori attraverso un eventuale referendum. Nessuno dei due percorsi è senza ostacoli, ma Meloni, che ha mostrato una capacità politica sorprendente portando il partito Fratelli d’Italia dai margini ai vertici del potere, sembra pronta a investire tutto il suo capitale personale per riuscire dove altri hanno fallito, modificando il sistema italiano. “L’importante è riuscire a portare a casa la riforma che considero l’eredità più importante che posso lasciare all’Italia”, ha dichiarato Giorgia Meloni. “Questa non è una riforma che riguarda me, questo è già un governo stabile. È una riforma che riguarda quello che succederà dopo”.
L’esperienza di Israele
La costituzione italiana fu scritta poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, all’inizio della guerra fredda, in un processo monitorato con attenzione dagli Stati Uniti. I ricordi del regime fascista erano ancora vivi, come la sensazione che il Partito comunista italiano, all’epoca il più forte dell’Europa occidentale, potesse arrivare al potere. Così i costituenti crearono un sistema con un parlamento forte, un governo debole e la necessità di collaborare per l’elaborazione delle leggi. Al vertice c’è il presidente della repubblica, una figura rispettata da tutti e unificante, con l’autorità morale necessaria per risolvere le dispute e tenere saldo il paese.
“La democrazia non vuol dire votare ogni cinque anni per un capo senza controlli”, afferma Elly Schlein, segretaria del Partito democratico
Il progetto di riforma costituzionale suscita grande preoccupazione nei partiti di opposizione. Elly Schlein, leader del Partito democratico, ha definito il premierato il “pericoloso” risultato di un’infatuazione di lunga data della destra italiana per l’idea di un leader forte. Secondo Schlein la riforma danneggerebbe l’autorità del parlamento concentrando il potere nelle mani di una sola persona e indebolendo i sistemi di controllo. “In questo paese abbiamo già avuto un modello in cui c’era un uomo solo al comando senza alcun limite imposto dal parlamento o dalla costituzione, è non è andata bene”, spiega la segretaria del Pd riferendosi a Mussolini. “Non vedo alcun motivo per andare in questa direzione. La democrazia non vuol dire votare ogni cinque anni per un capo senza controlli”. Storicamente gli elettori italiani sono sempre stati poco favorevoli all’alterazione dell’architettura politica del paese. Nel 2006 hanno bocciato una riforma costituzionale presentata dal presidente del consiglio Silvio Berlusconi, e la stessa cosa hanno fatto dieci anni dopo davanti a una serie di complicate modifiche proposte da Matteo Renzi, all’epoca capo del governo e leader del Partito democratico.
Eppure gli analisti politici ritengono che Meloni abbia imparato dagli errori di chi l’ha preceduta e che potrebbe riuscire ad avere il sostegno degli italiani per i suoi cambiamenti, presentati come piccole modifiche per aumentare il legame tra governo ed elettorato. “Il concetto di fondo, cioè che il governo dovrebbe rispecchiare la volontà del popolo, è semplice e popolare”, sottolinea Lorenzo Pregliasco, fondatore di YouTrend, un istituto di sondaggi con sede a Torino. “Se il referendum fosse basato su questa idea avrebbe buone possibilità di successo”.
La battaglia sul premierato, che secondo molti si intensificherà dopo le elezioni europee di giugno, potrebbe avere un impatto enorme sulla reputazione di Meloni, considerata una leader capace di cogliere l’umore nazionale e una politica di primo piano sul palcoscenico europeo. Tuttavia in Italia si continua a discutere sull’opportunità che l’elezione diretta di un premier all’interno di un sistema parlamentare sia la risposta giusta per mettere fine ad anni di caos e malgoverno.
Questa soluzione è stata sperimentata solo in un altro paese, Israele, che nel 1992 cambiò la sua legge fondamentale per eleggere direttamente il capo del governo. L’obiettivo era eliminare il continuo mercanteggiamento politico in un sistema in cui per un partito era molto difficile ottenere una maggioranza chiara. L’esperimento, però, fu abbandonato dopo meno di dieci anni e dopo tre elezioni in cui il primo ministro scelto dal popolo aveva comunque faticato a creare una coalizione solida in parlamenti frammentati o dominati dai partiti rivali.
Secondo Elisabetta Casellati, ministra per le riforme istituzionali, il governo ha imparato dall’esperienza di Israele ed eviterà uno sviluppo simile imponendo che i candidati alla carica di primo ministro siano legati direttamente alle coalizioni. La proposta di Meloni prevede che la premier eletta riceva la fiducia di una maggioranza parlamentare. Nel caso di dimissioni o mozioni di sfiducia, potrebbe essere sostituito un’unica volta da un altro parlamentare della stessa maggioranza. Se anche questo secondo premier dovesse perdere il sostegno del parlamento, scatterebbe automaticamente lo scioglimento delle camere, con un ritorno alle urne. “Lo chiamo premierato all’italiana”, ha spiegato Casellati in occasione di un incontro di Io cambio in cui ha presentato la riforma. “Perché dovremmo avere paura delle novità?”, ha aggiunto.
Alcuni professori universitari sostengono che la proposta di Meloni potrebbe involontariamente aumentare l’incertezza politica, con il rischio di avere elezioni parlamentari perfino più frequenti che in passato, quando in una legislatura nascevano coalizioni diverse e in alcuni casi alternative l’una all’altra. “In molti paesi europei i sistemi parlamentari sono più instabili”, spiega Cristina Fasone, professoressa di diritto comparato all’università Luiss di Roma. “La mia paura è che possa innescarsi una dinamica in cui l’elezione diretta del primo ministro finisce per perdere sostanza perché il parlamento viene continuamente rieletto”.
Altri credono che le radici dell’instabilità cronica in Italia non affondino nei difetti costituzionali, ma in un sistema di partiti sempre più frammentato, che a sua volta produce coalizioni poco solide a causa di divergenze ideologiche e rivalità personali. “Il problema principale è la fragilità delle coalizioni”, spiega Cartabia. “Se davvero vogliamo trovare il modo di creare stabilità non serve rafforzare la figura del leader, ma consolidare le coalizioni e la loro capacità di governare insieme”. Daniele Albertazzi, professore di scienze politiche dell’università del Surrey, nel Regno Unito, sottolinea che le riforme non modificheranno alcune tendenze politiche controproducenti ormai radicate, perché “i leader dei partiti hanno tutto l’interesse a creare problemi all’interno della loro coalizione”, ritrovandosi spesso a gareggiare con gli alleati per rafforzare la loro popolarità davanti a un elettorato volubile.
Tuttavia alcuni esponenti del mondo imprenditoriale sono convinti che la costituzione disperda eccessivamente il potere, paralizzando il processo decisionale. In Italia “nessuno vince, nessuno perde e nessuno governa”, sostiene Drago, di Io Cambio.
Gli interventi del Quirinale
Il ruolo del presidente della repubblica è un tema particolarmente delicato. In Italia il capo dello stato non è una figura puramente cerimoniale, ma ha poteri concreti come il diritto di nominare il capo del governo, porre il veto sulle nomine ministeriali e rimandare una legge all’esame del parlamento. Quando un leader perde il sostegno del parlamento o una coalizione si scioglie, il presidente decide se invitare i parlamentari a formare un altro governo alternativo o sciogliere le camere e indire nuove elezioni.
Dal sontuoso palazzo del Quirinale – un tempo residenza di papi e re – negli ultimi anni i presidenti della repubblica hanno usato le loro prerogative per sorreggere l’Italia in momenti di grave difficoltà. Durante la crisi del debito dell’eurozona, il presidente Giorgio Napolitano contribuì a orchestrare l’uscita di scena di Silvio Berlusconi in un contesto segnato dalla forte pressione sui titoli di stato, per poi chiedere all’ex commissario europeo Mario Monti di ripristinare la fiducia dei mercati. Nel 2018 Mattarella ha respinto un tentativo di assegnare il ministero dell’economia a un noto euroscettico. Tre anni dopo, quando la coalizione di governo si è sciolta sull’onda delle critiche per la sua gestione della pandemia, Mattarella ha convinto Draghi ad assumere il controllo del paese per guidare il complicato piano vaccinale e tirare fuori l’Italia dalla recessione provocata dalla pandemia.
Mentre i politici si sono spesso irritati per questi interventi, la popolazione li ha giudicati in modo più favorevole. E di solito i presidenti della repubblica sono molto più popolari dei leader eletti. In un recente sondaggio condotto da YotuTrend, il 62 per cento degli intervistati ha espresso fiducia nei confronti di Mattarella, contro appena il 36 per cento per Meloni, il 37 per cento per l’ex presidente del consiglio Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 stelle, e il 27 per cento per Schlein. Considerando questo orientamento, il governo sta cercando di minimizzare l’impatto della riforma sul potere del presidente della repubblica, dichiarando allo stesso tempo che in futuro non ci sarà più spazio per i governi tecnici. “Il capo dello stato rimarrà il garante dell’unità nazionale, con gli stessi poteri che ha oggi”, aggiunge Casellati. Nel suo post sui social network, Meloni si è mostrata fiduciosa: “Saranno gli italiani a decidere con un referendum se confermare oppure no questa rivoluzione. E io sono certa che la grande maggioranza degli italiani capirà di avere l’occasione storica di rendere l’Italia una democrazia matura”.
Io cambio non ha ancora deciso se appoggiare la riforma costituzionale, ma i politici suoi alleati ne stanno monitorando l’iter parlamentare. Il gruppo crede che, decidendo di sostenere la riforma, darebbe una mano a influenzare positivamente l’esito dell’eventuale referendum. Drago, attuale vicepresidente del settore venture capital dell’azienda di famiglia, ammette che in passato gli interventi del presidente della repubblica sono stati molto utili, ma sottolinea che è arrivato il momento di rinunciare al ruolo “paternalistico” del capo dello stato. “Se c’è un padre che interviene e risolve sempre i problemi, il figlio non si assumerà mai le proprie responsabilità”, sottolinea Drago. “Il cambiamento fa paura, però preferisco affidarmi a una persona che guida il governo, consentendole di sbagliare ma anche mettendola di fronte alle proprie responsabilità”. ◆ as
© The Financial Times Limited 2024. All Rights Reserved. Not to be redistributed, copied or modified in any way. Internazionale is solely responsible for providing this translation and the Financial Times Limited does not accept any liability for the accuracy or quality of the translation.
◆ Ecco cosa dice l’articolo 138 della costituzione italiana a proposito delle modifiche costituzionali: “Le leggi di revisione della costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera nella seconda votazione. Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una camera o cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi. Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti”.
Questo articolo si può ascoltare podcast di Internazionale In copertina. Disponibile ogni venerdì nella nuova app di Internazionale e su internazionale.it/podcast.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1560 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati