Quando ero bambina, in Unione Sovietica, i pirožki erano il cibo di strada eccellenza. Discendenti dei pierogi, più grandi e imponenti, questi fagottini dal ripieno dolce o salato (cotti al forno o fritti ma mai bolliti, a differenza dei loro cugini polacchi) erano economici e sostanziosi, e si potevano facilmente comprare per strada, dalle bancarelle o dai carretti. Nel sud della Russia, dove sono cresciuta, quando non era estate il clima era terribile e le donne di mezza età che spingevano questi carretti portavano sotto i camici bianchi d’ordinanza una tale quantità di maglioni, gilet e giacconi che era impossibile capire che forma avessero. Gridavano con voci stridule “Pirožki caldi! Pirožki di carne! Pirožki dolci!” (l’accento è sull’ultima sillaba) per attirare i clienti, uno spettacolo abbastanza insolito nell’economia socialista, il cui unico scopo era soddisfare gli obiettivi dei piani quinquennali e non certo i gusti dei consumatori.
Se ti avvicinavi, le donne sollevavano il coperchio del contenitore termico e con una lunga forchetta a due denti (a volte ricavata da una normale forchetta da tavola senza il rebbio centrale, attaccata a una matita con lo scotch) arpionavano due o tre pirožki alla volta e li avvolgevano in un foglio di carta oleata. Quando le pagavi, i copechi atterravano fragorosamente nella scatola delle monetine. Se pagavi in rubli di carta, se li infilavano in una delle tante tasche dei loro camici. “Pirožki caldi!”, ripartivano con la cantilena, mentre indugiavi davanti al carretto inalando il profumo del pane fritto, con la mano che si riscaldava all’istante stringendo il pirožok. “Chi vuole un pirožok caldo? Giovanotto, prenditi un pirožok!”.
I pirožki più comuni erano quelli con i fegatini o la carne macinata. A volte mi chiedevo se la mancanza di carne nei negozi di alimentari non fosse dovuta alla quantità usata dai produttori di pirožki. Forse c’era un piano quinquennale dei pirožki. Mia madre sosteneva invece che nei pirožki mettevano qualsiasi cosa spacciandola per carne macinata (senza peraltro specificare se fosse di manzo o di maiale). Secondo lei era più sicuro prendere quelli alle patate o ai cavoli, che erano gli altri due ingredienti più frequenti, o magari quelli alla marmellata (che era di frutta ignota quanto la carne). Ma la soddisfazione non era la stessa: non c’è niente di più buono del pane fritto con la carne fritta. E anche se le intossicazioni alimentari non erano rare, dati gli standard del settore della “nutrizione pubblica”, personalmente non mi sono mai sentita male mangiando i pirožki.
I pirožki erano il carburante per le attività extrascolastiche al palazzo dei pionieri, a cui mia madre m’iscriveva ogni anno nel tentativo indefesso di scoprire i miei talenti e di allargare i miei orizzonti culturali. Per raggiungere il palazzo quando uscivo da scuola a Krasnodar, la nostra città, dovevo prendere l’autobus numero 18, una linea servita solo dagli Ikarus, autoarticolati gialli di fabbricazione ungherese uniti al centro da una fisarmonica di gomma. Quando l’autobus faceva una curva la parte retrostante sterzava nella direzione opposta, e se ti sistemavi in mezzo alla vettura, dov’era sempre meno affollato, era quasi come fare un giro sulle giostre.
Il 18 fermava al mercato della cooperativa, a un paio di isolati dal palazzo dei pionieri. In quanto a offerta, la cooperativa non poteva competere con il mercato delle erbe, ufficialmente noto come mercato dei kolchoz (le fattorie collettive), dove una volta al mese andavamo a fare la spesa quando mia madre ritirava l’assegno per le lezioni di piano all’Istituto di cultura. Però era pieno di rivenditori di pirožki. C’erano carretti in ogni angolo e all’interno una fila di bancarelle offriva leccornie ancora più sofisticate come i beljaši, panini rotondi con un succulento ripieno di carne, o i pončiki, ciambelle fritte dal profumo paradisiaco che venivano sputate direttamente nella friggitrice da un grande imbuto metallico in fondo alla bancarella. Da lì venivano tirate su con un cestino di metallo, messe ad asciugare su una griglia e spolverate generosamente con lo zucchero a velo, che lasciava una patina rivelatrice sul cappotto per interi giorni.
I più buoni di tutti, però, erano i čebureki, fagottini triangolari di carne fritti nell’olio e con i bordi arricciati. Regalo dell’assolata Crimea, la nostra sorella che dava un po’ di sapore all’insipida dieta sovietica, i čebureki del mercato della cooperativa erano molli per la lunga permanenza nel contenitore termico e avevano la pasta meno spessa, ma il ripieno era più abbondante. La carne, sempre di provenienza misteriosa, era sugosa e stracondita, e bisognava stare attenti a non farsi colare le gocce di unto e grasso sui vestiti. Queste delizie costavano il doppio dei normali pirožki di carne e non potevo mai permettermene più di due, perciò mi restava sempre la voglia di mangiarmene un terzo. Era comunque abbastanza per farmi sopportare la traversata della città tre volte alla settimana e tutte quelle interminabili ore di piano, solfeggio e teatro, anche se era già ovvio che non avevo nessun particolare talento da mostrare al palazzo dei pionieri.
Solo dopo la caduta dell’Unione Sovietica ho assaggiato il čeburek nella versione originale: un ricco fagotto con le bolle sulla pasta – croccante fuori, soffice e umido all’interno – ripieno di carne di agnello macinata, coriandolo fresco e spezie. Questi čebureki postsovietici erano enormi: li vendeva una bancarella privata in una località turistica sul mar Nero dove, nelle estati dell’università, lavoravo come istruttrice in un campo dei giovani pionieri. A stento riuscivo a mangiarne due, figuriamoci tre. Erano incredibilmente gustosi, soprattutto se accompagnati da un bicchiere di vino novello rkatsiteli preso da un barile su ruote lì vicino.
Nei giorni liberi dal campeggio, io e una mia compagna di università ci portavamo dietro queste delizie durante le nostre lunghe passeggiate sulla spiaggia del villaggio a forma di mezzaluna, sempre vuota a parte i bambini irreggimentati del campo dei pionieri che facevano il bagno e le ingenue ragazze in bikini a cui i fotografi da strapazzo del luogo dicevano di “reggere il sole” mettendo le mani a coppa. A volte prendevamo un paio di fiaschi di vino in più (i čebureki non li tenevamo mai “per dopo”, perché andavano mangiati caldi) e li sentivamo tintinnare dentro lo zaino blu della mia amica mentre camminavamo a piedi nudi sulla sabbia, con l’acqua che ci lambiva le caviglie e il sapore dei čebureki ancora in bocca.
Nella Krasnodar sovietica, invece, in quelle tristi giornate in cui non c’erano carretti di čebureki me ne andavo al Kulinariya, una specie di catena statale di alimentari che vendeva cibi pronti. Vicino ai vassoi dei kotlety, polpette di carne cruda, e ai blini ripieni, si potevano trovare gli sloika (letteralmente “strati”; in realtà erano dei pirožki di pasta sfoglia). A detta di mia madre, erano i parenti poveri degli sloika che lei mangiava al Café Sever di Leningrado, dove si recava regolarmente per i suoi studi di dottorato. Venivano serviti roventi insieme a una tazza di brodo forte.
I nostri sloika di provincia, che a dispetto del nome avevano pochissimi strati, più che un piacere sensoriale offrivano un semplice sostentamento. Erano freddi e sconditi, scialbi come la nostra condizione esistenziale.
A volte mi chiedevo se la mancanza di carne nei negozi di alimentari non fosse dovuta alla quantità usata dai produttori di pirožki. Forse c’era un piano quinquennale dei pirožki
Ma avevano il vantaggio di costare poco. Con gli spiccioli rimasti andavo al banco alimentare dietro un Lenin di alabastro nell’atrio del palazzo dei pionieri e mi prendevo un sočnik, un tortino di pastafrolla ripieno di ricotta. La crosta a forma di ostrica, spennellata di rosso d’uovo e dorata, era friabile e morbida, mentre il ripieno era denso, e il contrasto era gratificante. I sočniki mi piacevano più dei loro cugini di pasta lievitata, i vatruški, di forma circolare e farciti con ricotta, vaniglia e uvetta. La mensa scolastica li serviva un giorno sì e un giorno no. Erano accompagnati da una bevanda alla panna acida, pastorizzata in modo grossolano e quindi abbastanza rivoltante, o da un succo di frutta addensato con l’amido di patate, che si chiamava kisel e non mi piaceva molto.
Gli esercizi di “nutrizione pubblica” non erano gli unici posti dove trovare i pirožki, Quasi ogni famiglia aveva una sua ricetta, di solito affidata alla custodia matriarcale di una nonna. Non tutti, però, vivevano in famiglie multigenerazionali. Io e mia madre, per esempio, vivevamo da sole, e mangiavamo i pirožki solo quando non c’era nient’altro per cena. Mia madre raramente si prendeva la briga di fare la pasta in casa perché c’era sempre il rischio che non crescesse. Preferiva comprarla al Kulinariya (mi ricordo che aveva un odore acre) e poi preparava un ripieno improvvisato: patate e cipolle fritte; uova sode a fettine con lo scalogno; oppure marmellata di prugne o ribes neri delle conserve che avevamo fatto in estate.
Mentre la aiutavo a stendere la pasta infarinata ed elastica sul tavolo della cucina, mia madre raccontava sempre la stessa storia di quando preparavano i pirožki nel suo dormitorio all’università e ne aggiungevano sempre uno pieno di sale e pepe e un altro con dentro una moneta da un copeco. “Indovina a chi capitava sempre quello con il sale e il pepe?”, diceva, con la stessa aria un po’ scherzosa e un po’ rassegnata con cui guardava le nuvole addensarsi subito dopo che aveva steso il bucato, dettaglio che nella Russia meridionale era considerato presagio di sfortuna in amore.
Mentre lei stendeva la pasta, io ne tagliavo dei cerchi con un bicchiere, mettevo un cucchiaio di ripieno al centro e richiudevo i bordi, ascoltando le sue storie dei bei tempi andati che non tornano più. Di tanto in tanto si presentava qualche suo vecchio ammiratore con un mazzo di fiori e gli occhi adoranti, ma poi la cosa finiva lì. A volte, nei suoi racconti, al posto dei pirožki c’erano i pelmeni (ravioli di carne bolliti) o i vareniki (ravioli di formaggio o patate), ma la conclusione non cambiava mai: era sempre lei la povera sventurata a cui toccava quello con il sale e il pepe. Il copeco, invece, non era mai capitato a nessuno: quando lavavano la pentola si accorgevano che la moneta era rimasta attaccata sul fondo.
Una sera, con il tavolo mezzo coperto di pirožki, mi allontanai furtivamente dalla cucina e cominciai a rovistare nella vecchia scatola di latta Cadbury dove mia madre teneva i bottoni. Decorata con illustrazioni di dame ben vestite e gentiluomini con il cappello, la scatola un tempo aveva contenuto dei cioccolatini: era uno dei regali che mio nonno, ex funzionario locale del partito, aveva portato dall’estero in tempi più felici. Adesso però faticavamo ad arrivare a fine mese, e mia madre per arrotondare faceva la ricamatrice. Tirai fuori dalla scatola un bottone di metallo color rosso ciliegia con l’attacco dorato e lo portai in cucina, infilandolo senza farmi vedere in un pirožok di patate e pizzicando i bordi con grande attenzione.
Mia madre, ignara, mise a friggere tutto, posando il pirožok con il bottone su un piatto da portata insieme agli altri. A un certo punto non lo vidi più, ma aspettai fiduciosa. Finalmente, a metà cena, sentii sgranocchiare. Mia madre smise di masticare e posò il bicchiere del tè. “Penso di essermi rotta un dente”, disse, togliendosi il bottone rosso dalla bocca. “Ma che diavolo…?”.
“Vedi?”, risposi, con il cuore che mi batteva forte. “Sei fortunata!”.
Mentre il bottone tintinnava sul piatto, vidi mia madre che muoveva la lingua nella guancia per controllare. “Non si è rotto”, sentenziò alla fine. Poi sorrise e mi fece una carezza sulla testa. “La prossima volta usa un copeco, d’accordo?”.
Col passare degli anni l’abitudine di fare i pirožki in casa si è un po’ persa. Ci voleva troppo per prepararli e i tempi stavano cambiando. Sui banchi del mercato della cooperativa stavano spuntando dei nuovi snack: patatine, cracker, e puff al formaggio importati da un occidente non più ostile. Perfino nel bar dell’università dove andavo a studiare, i pirožki avevano lasciato il posto a una specialità georgiana, il khachapuri, una specie di piccolo calzone ripieno di formaggio burroso e salato.
Un inverno a Mosca, tra il secondo e il terzo anno di università, assaggiai il mio primo Big Mac. Per addentarne uno – quanto era più invitante, questa versione americana del nostro umile pirožok, sui manifesti colorati nelle vetrine! – io e una mia amica rimanemmo tre ore in fila al gelo di fronte al primo McDonald’s del paese, in piazza Puškin. Perfino i sorrisi dei camerieri ben vestiti, addestrati all’americana, erano uno shock rispetto alla scontrosità degli inservienti a cui eravamo abituati.
Anche il prezzo era scioccante. Con il mio stipendio dell’Accademia Lenin eroso dall’inflazione galoppante, il Big Mac costava circa un quarto del mio assegno mensile. Ma aveva un gusto così diverso, così stuzzicante ed esotico: chi avrebbe mai pensato di mettere il cetriolo in un pirožok?
Poco dopo sono andata via dalla Russia e i pirožki sono diventati un lontano ricordo. Solo molti anni dopo, a San Francisco, ho rivisto qualcosa del genere capitando per caso davanti a un forno georgiano su Geary street, vicino alla cattedrale russa con la cupola dorata: non erano pirožki ma i loro cugini, i čebureki, i miei preferiti.
Questi čebureki di Geary street preparati da veri cuochi caucasici avevano un’aria promettente, con la loro carne di manzo americano di prima scelta e le loro bolle perfette, ma non riuscivano proprio a darmi la stessa soddisfazione di quei primi čebureki post-socialisti, impressi a fuoco nella mia mente insieme alle languide passeggiate sulla spiaggia, alle pose “con il sole nelle mani” davanti alla macchina fotografica e allo spudorato ottimismo di quegli anni. Quando li ho portati alle mie figlie, che sono nate negli Stati Uniti e non sono condizionate da queste associazioni sentimentali, li hanno divorati senza quasi darmi il tempo di poggiarli sul tavolo.
La mia astinenza dai pirožki è durata tantissimi anni. Ben al di là del Big Mac, gli Stati Uniti sembravano la terra delle opportunità gastronomiche: c’erano tantissime cose da provare, tutte già pronte, “scalda e servi”, “sforna e metti in tavola”. Poi però mia madre, che mi ha raggiunto in America poco dopo che ho preso la cittadinanza, ha scoperto che il negozio russo a Geary street vendeva la pasta fillo congelata in pacchetti quadrati. I suoi vaporosi sloika ripieni di funghi, pollo, ciliegie, uova e scalogno hanno lasciato estasiate le nipoti e, in misura minore, anche mio marito, emigrato dalla Russia e viziato fin da piccolo da nonne e zie. Io però sono rimasta indifferente.
Ma un fine settimana, poco prima che la mia prima figlia partisse per il college, mia madre si è presentata sulla sua vecchia Volvo bianca con un vassoio di pirožki fritti. Poco più grandi del palmo della mia mano, erano esattamente uguali a quelli che preparavamo tanti anni fa. Profumavano di olio di semi di girasole e cipolle fritte ed erano ancora caldi. Quando ho sentito la pasta soffice che mi si scioglieva in bocca, la paura di separarmi da mia figlia nel mezzo di una pandemia infinita si è un po’ attenuata. “Andrà tutto bene”, ha detto mia madre mentre me ne stavo alla finestra a guardare le rose tardive nel giardino. “Mangia i pirožki”. ◆ fas
Anastasia Edel
è una scrittrice nata in Russia. Vive a San Francisco, negli Stati Uniti. Questo articolo è uscito sulla New York Review of Books con il titolo A taste of home.
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Questo articolo è uscito sul numero 1439 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati